mercoledì 22 giugno 2022

Mezzi per superare gli ostacoli che impediscono di ricavare tutto il frutto che si dovrebbe dalla devozione al S. Cuore di Gesù

 


LA DIVOZIONE AL S. CUORE DI N. S. GESÙ CRISTO 

È cosa certa che la tiepidezza, l’amor proprio, l’orgoglio segreto o altra  passione di cui si è negletta la mortificazione, sono le sorgenti principali dei  difetti e gli ostacoli più grandi che c’impediscono di ricavare il debito frutto  dalla devozione al S. Cuore di Gesù. La nostra carità è debole e languida,  alleviamo in noi stesi i nemici più pericolosi, mentre di fuori il demonio ci  tenta, il mondo ci attrae. Gli oggetti ci lusingano, le occasioni ci  circondano, gli esempi ci trascinano. Perciò se non stiamo sempre sulla  difensiva e non chiudiamo le porte dei sensi a questi nemici che ci  assediano, presto si renderanno padroni del nostro cuore. 

È strano, dice un gran servo di Dio, con quanti nemici si deve  combattere quando ci risolviamo a farci santi: pare che ogni cosa si  scateni; il demonio coi suoi inganni, la natura con la resistenza che oppone  alle nostre buone aspirazioni, le lodi dei buoni, i motteggi dei malvagi, le  sollecitazioni dei tiepidi, gli esempi di quelli che sono stimati devoti e non lo  sono. Se Dio ci visita, è da temere la vanità, se si ritira, l’abbattimento; al  maggior fervore può succedere la disperazione. Ci tentano gli amici con la  condiscendenza che siamo soliti di avere verso di loro, gl’indifferenti col  timore di disgustarli. Nel fervore c’è da temere l’indiscrezione, nella  moderazione la sensualità, dappertutto l’amore proprio. 

Che faremo dunque? 

Tanto più che la santità non consiste nel rimanere fedeli per un giorno  o per un anno, ma nell’essere costanti e nel crescere fino alla morte. 

Ci serviremo dei mezzi che i Santi tutti e Gesù stesso ci assicurano  essere i più efficaci per indebolire e distruggere l’amor proprio e la superbia  segreta, che sono l’origine di tutti gli impedimenti. 

Questi mezzi sono la mortificazione e l’umiltà. Bisogna scegliere una  delle due, o non aver giammai l’amore perfetto di Gesù, o essere veramente  umili e interamente mortificati. 

 

§ 1. La vera mortificazione. 

La mortificazione è, talmente necessaria per amare con verità Gesù  Cristo, ch’Egli stesso l’insegnò per prima a quelli che vogliono essere suoi  discepoli, e senza di essa non c’è da sperare di diventar mai discepoli di  Lui. Chi vuol venire dietro a me, dice l’amabile Salvatore, rinneghi se stesso,  prenda la sua croce e mi seguiti: chi non porta la sua croce e non odia se stesso, non può essere mio discepolo, e non è degno di me. Perciò i Santi  tutti nessun altro segno più sincero danno di pietà solida che la  mortificazione perfetta. S. Ignazio a chi gli lodava la virtù sublime di  qualcuno chiedeva subito: — È assai mortificata questa persona? —  volendo far intendere con ciò che la vera mortificazione è inseparabile dalla  vera pietà, non solo perché non c’è nessuna virtù che possa durare a lungo  senza la mortificazione generale e costante, ma anche perché senza di  questa non esiste affatto la vera virtù. 

Ci sono due modi di mortificarsi; uno esterno, che consiste solo nella  macerazione del corpo, l’altro interno, ed è propriamente la mortificazione  dello spirito e del cuore: tutti e due sono necessari per giungere alla  perfezione, e l’uno senza l’altro non potrebbe durare a lungo. I digiuni, le  veglie, i cilizi e altre simili mortificazioni del corpo sono mezzi potenti per  diventare veramente spirituali e veramente perfetti, e quando si usano con  discrezione, servono mirabilmente a fortificare la natura sempre fiacca  verso il bene e vivamente portata al male; inoltre servono a rintuzzare gli  assalti, a evitare le insidie del nemico comune, a impetrare finalmente dal  Padre delle misericordie gli aiuti necessari a tutti i giusti, specialmente ai  principianti. 

È vero che la santità non sta nelle penitenze esterne, e queste non  sono incompatibili con l’ipocrisia; ma ciò non si verifica nella mortificazione  interna, ch’è sempre un indizio, certo di vera pietà, e perciò è anche più  necessaria dell’esterna e nessuno a ragione può esimersene. È essa una  violenza continua che bisogna farsi per acquistare il regno dei Cieli. 

Non tutti sono in grado di digiunare, di portare il cilizio, ma non c’è  nessuno che non possa tacere nel caso in cui la passione ci porti a  rispondere, e la vanità a parlare; nessuno c’è che non possa frenare il suo  carattere, i desideri, le passioni. Ecco appunto in che consiste  principalmente la mortificazione interna, per la quale si indebolisce e si  riduce alla ragione l’amor proprio, e per cui mezzo ci si libera dalle  imperfezioni. Invano ci illudiamo d’amare G. Cristo se non ci  mortifichiamo, ché tutti i più bei sentimenti di pietà, tutte le pratiche di  devozione senza la mortificazione perfetta diventano sospette. 

Ci meravigliamo dopo tanti esercizi di pietà e dopo tante Comunioni di  trovarci tanto imperfetti e di sentire tutte le passioni agitarsi nel nostro  cuore; non ci accorgiamo che l’origine di queste sollevazioni dipende  proprio dalla mancanza di questa mortificazione perfetta? 

Bisogna dunque decidersi se si vuole indebolire e distruggere l’amor  proprio, da cui prendono alimento le passioni, bisogna, dico, risolversi a  mortificarsi con generosità e costanza. 

Non basta mortificarsi per qualche tempo e in parte, ma, se si può, in  tutto e sempre con prudenza e discrezione. Se voi date alla natura una  soddisfazione sregolata, basta questa a renderla più fiera, per dir così, e  ribelle di quanto non l’abbiano indebolita cento vittorie riportate su di lei.  La tregua con tali nemici è una vittoria per essi. 

Fratelli miei cari, diceva S. Bernardo, ciò che è tagliato rispunta, ciò  ch’è estinto si riaccende, ciò ch’è assopito si risveglia. Per mantenere lo  spirito interno della devozione bisogna impedire all’anima di diffondersi al  di fuori coll’assieparla tutto intorno di spine, come dice il Profeta. Questo appunto noi non facciamo, e perciò tante tiepidezze, rilassamenti e  mancanze di devozione. Se infatti mortifichiamo la natura in una cosa,  subito la risarciamo col darle un’altra soddisfazione; se ci teniamo raccolti  durante il ritiro spirituale, non appena ne usciamo apriamo tutte le porte  dei sensi agli oggetti che ci possono rendere dissipati. 

La pratica della mortificazione interna, tanto comune ai Santi, è nota  a chiunque desideri veramente la perfezione. Basta prestare attenzione allo  spirito di Dio. L’amore verso Gesù è tanto ingegnoso in questo punto, da  suggerire subito, anche alle anime più rozze, industrie e mezzi tali per  mortificarsi che superano l’ingegno delle persone più dotte, e si possono  considerare come piccoli miracoli. Non c’è nulla che non dia loro appiglio a  contrariare le loro inclinazioni naturali, né tempo o luogo che non sembri  loro adatto per mortificarsi, senza uscire mai dai dettami del vero buon  senso. Basta che si sentano una gran voglia di guardare o di parlare,  perché sì credano in dovere d’abbassare gli occhi o di tacere. Il desiderio di  saper notizie o di conoscere ciò che succeda, si faccia o si dica, è per loro  occasione continua di mortificarsi con tanto più merito, in quanto essa è  più comune e non ha altro testimonio che Dio. In conversazione una  scappata felice, una burla spiritosa possono recare onore, ma possono  anche diventare materia d’un bel sacrificio. 

Non c’è quasi ora del giorno che non ci offra qualche motivo di  mortificazione: si stia seduti o in piedi, non mancherà mai un sito o una  posizione incomoda, senza che nulla apparisca al di fuori. Se cento volte ci  fanno interrompere un’occupazione di molta importanza, cento volte  risponderemo con dolcezza e cortesia, come se non fossimo occupati  affatto. 

Possono ancora essere materia di molta pazienza ad un uomo di soda  virtù il cattivo umore d’una persona con cui si trova, i difetti d’un servo,  l’ingratitudine d’un uomo beneficato. 

Finalmente gli incomodi propri del luogo, della stagione e delle  persone, sopportati in modo da far credere che non li avvertiamo, sono  occasioni di mortificarsi, piccole sì, ma la mortificazione in queste piccole  occasioni non è piccola, anzi è di grande merito, e si può dire che le grazie  maggiori e la santità più sublime dipendono, di solito, dalla generosità che  mettiamo nel mortificarci costantemente nelle piccole occasioni. Non è  davvero piccola mortificazione il non trascurare nessuno degli obblighi  della Comunità e conformarsi in tutto alla vita comune, senza considerare  affatto le proprie inclinazioni, gli uffici o l’età: questo genere di  mortificazione è tanto più notevole, in quanto è meno soggetto alla vanità  ed è più conforme allo spirito di Gesù Cristo. 

Ma se pure mancassero occasioni esterne di mortificarsi, non mancheranno occasioni interne. 

Senza grande spirito di mortificazione non possiamo conservarci a  lungo modesti, raccolti e riservati. L’onestà, la mansuetudine e la  gentilezza di modi possono essere frutto di educazione, ma il più delle volte  sono indizio di mortificazione continua. E senza questa virtù chi potrà  mantenersi sempre in pace, sempre uguale a se stesso? come potrà  compiere sempre con perfezione quello che fa, ed essere contento di far  sempre in tutto la volontà di Dio? 


§ 2. L’umiltà sincera. 

Il secondo mezzo consiste nell’umiltà sincera. Gesù Cristo, dice  S. Agostino, non ci dice: Imparate da me a far miracoli, ma imparate da me  che sono dolce e umile di cuore, per farei comprendere che senza umiltà  non c’è vera pietà. Noi certo siamo ben persuasi della necessità di questa  virtù, ma la difficoltà sta nel sapere in che consiste la vera umiltà. Molti si  credono veramente umili quando sentono bassamente di sé, ma se non  sono contenti che gli altri abbiano di loro lo stesso concetto, essi s’illudono.  Non basta riconoscere d’essere privi di ogni virtù e di merito, bisogna  crederlo ed essere contenti che lo credano anche gli altri. Il primo passo da  farsi per l’acquisto di questa virtù deve essere nel chiederla a Dio con  istanza, quindi di persuadersi con riflessioni serie e frequenti su noi stessi  della nostra povertà e delle nostre imperfezioni. 

Giova molto ad umiliarci il ricordo di ciò che fummo e il pensiero di ciò  che potremmo diventare. Le persone veramente buone pensano poco agili  altri, tua s’occupano soltanto delle proprie imperfezioni; quelle veramente  umili noti si scandalizzano di nulla, perché conoscono, assai bene la  propria debolezza, e si scorgono così vicine al precipizio ed hanno tale  paura di cadervi, che non si stupiscono s’altri vi cadano. Meno parliamo di  noi e più ci conformiamo alla vera umiltà. I discorsi affettati per cui  vorremmo far credere che ci stimiamo poco, il più delle volte servono per  attirarci le lodi. 

Il segno più sicuro di umiltà sincera è quello di prediligere in modo  speciale chi ci disprezza, di non sfuggire alcuna umiliazione che ci si  presenti; di non compiacerci in pensieri e progetti inutili sull’avvenire, che  servono solo a nutrire in noi la superbia segreta; di non parlare mai in  propria lode, di non lamentarci mai di tutto ciò che Dio permette che ci  avvenga, e non permettere che gli altri ci compiangano; di scusare le colpe  del prossimo e di non turbarci delle nostre cadute; di essere in tutto  deferenti verso gli altri; di non pigliare a fare mai nulla se non con  diffidenza di noi stessi, e di stimar poco quel che facciamo; finalmente di  pregar molto e di parlar poco. 

Chi conosce sé per un miserabile non vede nessuna cattiveria nel  disprezzo degli altri verso di lui, perché sa che è giusto. L’umile, per quanto  lo trattino male, crede che gli si renda giustizia. Non mi stimano gli  uomini? Hanno ragione; sono d’accordo col giudizio di Dio e degli angeli.  Chi aveva già meritato l’inferno riconosce che il disprezzo gli è dovuto. 

Non diciamo che si debba accettare con piacere sensibile l’umiliazione,  ché il disprezzo naturalmente dispiace; ma il non lamentarsi affatto, tacere  nel disprezzo, ringraziarne Iddio, e pregarlo anche per quelli di cui Egli si è  servito per umiliarci, per quanto la natura ripugni a sottomettersi, ecco i  contrassegni certi di umiltà sincera, senza cui noti c’è nessuna virtù.  Dentro e fuori di noi, dice S. Paolo, stanno dei nemici che ci tendono  insidie per tutto. L’amore dell’umiltà, dell’abiezione, della vita oscura e  nascosta è una grande medicina a tanti mali. Non c’è pace se non nell’oblio  di se stessi, e chi vuol diventare perfetto deve risolversi a dimenticare  persino gl’interessi spirituali per non cercare che la sola gloria di Dio. 


§ 3. Gioia e dolcezze inseparabili dalla pratica della mortificazione e dell’umiltà. 

Non c’è vera devozione senza mortificazione completa, generosa e  costante, né senza umiltà sincera. Ma come si può parlare d’umiltà e di  mortificazione continua senza sgomentare le persone che vorrebbero amare  ardentemente Gesù Cristo? 

Alla sola proposta sì poco confacente, non si freme subito fin dal  principio? E chi potrà mirare, Senza sentirsi respingere indietro, una via  seminata di croci? Non è forse la vita più infelice che ci sia, questa, di  dover contrariare in tutto le proprie inclinazioni naturali, di ricusare ai  sensi ogni soddisfazione non puramente necessaria, di vivere ritirati, di  vivere nel silenzio senza ricercare la stima degli uomini, senza  commuoversi alle loro lodi, né affliggersi ai loro disprezzi? Ma intanto tutti  coloro che menano una tale vita si protestano pienamente felici. Il mondo  dice che una tale vita è insopportabile, ma Gesù invece dice ch’essa è  dolce, agevole, piena di gaudio e di consolazione. Il mondo lo dice, cioè chi  non sa niente, ma dicono il contrario quelli che hanno provato. 

S. Francesco di Sales chiama una tale vita la soavità delle soavità;  S. Efrem, nella pratica d’una vita sommamente mortificata, colmo di  consolazioni interne, gridava: «Basta, mio Dio, basta! non mi opprimere di  benefici, frena la tua liberalità, se non vuoi ch’io muoia, perché le delizie  ineffabili ch’io provo hanno la forza d’uccidermi!». S. Francesco Saverio,  scrivendo dal Giappone ai Gesuiti d’Europa, diceva: «Io sono in un paese  dove si è privi di ogni cosa agevole alla vita, quanto al resto però provo  tante consolazioni interne, che c’è pericolo ch’io perda la vista dal continuo  piangere d’allegrezza». 

Tanti milioni di Santi che noi confessiamo essere stati sapienti e  sinceri, sì sono forse data la parola per affermare tutto il contrario di ciò  che pensavano e provavano? 

Ammesso che secondo i mondani nell’esercizio della mortificazione  continua si sia infelici, come si spiega allora che quelli che vediamo più  mortificati sono sempre più contenti? Perché non si trovano sulla terra  altre persone che siano in perfetta letizia e in perfetta felicità se non quelle  che sono più mortificate? Se la vita mortificata non produce davvero questa  gioia inalterabile, con quale artificio tali persone si mantengono fino alla  morte in una dolcezza e in una pace, che nessuna occorrenza della vita può  alterare? 

Se ciò dipende da finzione, perché i mondani, tanto esperti nell’arte di  dissimulare, non sono riusciti fino ad ora a nascondere le inquietudini e  amarezze loro, benché la maggior parte trascorra la vita nei piaceri e nei  divertimenti? 

La sola virtù, dice S. Agostino, per quanto sembri austera, fa gustare i  veri piaceri; e nel mondo non si dà felicità perfetta, se non per chi lavora  seriamente a santificarsi. Egli libero dal turbamento delle passioni più  crudeli, che tiranneggiano i cattivi, ha durante la vita più dolcezze quanto  meno tribolazioni, e stando soggetto in tutto alla volontà del Signore, gode  quella tranquillità e pace profonda che il mondo non può dare. Questo  dolce riposo della coscienza è frutto ordinario della virtù. 

Quanto più si è avari con Dio, tanto meno si partecipa di questa gioia. 

Che dire dell’unzione segreta con la quale Dio addolcisce il giogo della  sua legge, degli istanti felici in cui si fa sentire dalle anime giuste, della  speranza sì dolce che fa loro pregustare le gioie del cielo, dei raggi di luce  che mostrano la vanità del mondo in un giorno sì bello, delle lacrime di  consolazione che talvolta versano dinanzi al Crocifisso, dove provano un  piacere più puro e più squisito di quello che si prova nelle feste più squisite  dei mondani? Questi piaceri e queste dolcezze interne, superiori ad ogni  immaginazione, sono misteri celati alle anime tiepide, per le quali essi sono  un linguaggio incomprensibile; ma datemi un’anima fervorosa, una  persona veramente umile e mortificata, un cuore compreso d’amore di  Gesù, e capirà, dice S. Agostino, ciò che dico. Da amantem et sentit quod  dico. 

È vero che la perfezione non esclude che si sentano delle volte le prove  della vita; le disgrazie possono produrre nell’uomo giusto un po’  d’agitazione, però non arrivano fino a metterlo nella desolazione, ché trova  sempre una risorsa nella sua virtù. Quando la via larga che battono  gl’imperfetti fosse priva affatto di croci, tutto contribuirebbe a farvene  nascere; mentre sulla strada di quelli che amano ardentemente Gesù  Cristo, qualora ce ne fossero, il cielo e la terra, per dir così, farebbero il  possibile per renderle soavi, perché lo stesso Figlio di Dio vuole portarle  con noi a fine di renderle meno pesanti.  

Da ultimo il pensiero della morte da solo spaventa i gaudenti del  mondo, mentre conforta e rallegra i buoni. Si è mai saputo che qualcuno in  punto di morte, quando si giudica così rettamente delle cose, si sia pentito  d’essersi mortificato e d’aver menato una vita perfetta, anzi che non sia  stato in disperazione se non l’avesse fatto? 

La mortificazione perfetta deve avere degli allettamenti che noi non  conosciamo, perché non siamo perfettamente mortificati. La nostra viltà  non ci fa esserlo abbastanza che per provarne la pena, ma non facciamo  tanto da gustarne le dolcezze. Sembra che non ci fidiamo di quello che ce  ne dicono i buoni e di ciò che Gesù stesso ci promette. Vorremmo ch’Egli ci  pagasse in anticipo e non si vuol capire che quello che costa non è che il  primo passo, cioè che tutta la pena sta nel risolversi a mortificarci. 

Gustate, dice il Profeta, e quindi vedete7. Gli occhi qui c’ingannano, si deve  giudicare dal gusto. Quelli che avevano visto la terra promesso soltanto da  lontano, ne erano spaventati e dicevano ch’essa divorava gli abitanti, ma  chi c’era stato diceva tutto l’opposto, e assicurava ch’era una terra dove  scorreva latte e miele. Facciamo questo sacrificio perfetto almeno per  quindici giorni: — la cosa è di ben poco valore se non merita che sé ne  faccia l’esperienza — e se dopo quindici giorni di mortificazione continua e  perfetta, noi non gustiamo punto quelle dolcezze sperimentate dagli altri,  accetto che si dica, (così un gran servo di Dio) che la vita di chi ama  veramente G. Cristo è fastidiosa, e che il giogo del Signore è pesante. 

C’è da stupirsi che ci voglia tanto a persuadersi ch6 si può essere felici  nella pratica della mortificazione continua, quando si vede ogni giorno  tanta gente inquieta e malcontenta in mezzo ai divertimenti più grandi. Se esistono mali invisibili, è forse impossibile che ci siano delle dolcezze  segrete? Certo ci sono e dipende da noi gustarne. 

Il P. de la Colombière col permesso dei superiori s’era legato con voto  all’osservanza di tutte le regole, e in modo speciale s’era obbligato, a  mortificarsi continuamente in ogni cosa. 

Quelli a cui sembrano un giogo insopportabile i tre voti essenziali dei  Religiosi, che cosa avrebbero pensato di questo gran servo di Dio? Non  l’avrebbero giudicato un infelice? Ecco pertanto che cosa ne scrisse egli  stesso nei suoi Ritiri spirituali, dove a imitazione delle persone sodamente  virtuose e che hanno fatto il proposito di avanzare sempre più nella via  della perfezione, egli notava i sentimenti ispiratigli da Dio e le grazie da Lui  ricevute, per rammentarsi di ringraziarlo ed incitarsi ogni giorno più ad  amarlo:  

«Il sesto giorno, così egli, meditando sul voto particolare che ho fatto,  mi son sentito muovere a grande riconoscenza verso Dio, che mi ha  concesso di fare questo voto. Non m’era mai capitata tanta comodità di  considerarlo così bene. Nel vedermi legato con tante catene a fare la  volontà di Dio ho provato una grande allegrezza. Il pensiero di questo  legame invece di spaventarmi mi rallegra, perché mi sembra che, ben lungi  dal rendermi schiavo, io sia entrato nel regno della libertà e della pace. 

«Quando sono tutto di me stesso, dice altrove, mi sento, per la  misericordia infinita di Dio, in tale libertà di cuore, da provare una gioia  incomparabile. Mi pare che nulla possa rendermi infelice e, in quel tempo  almeno, mi trovo distaccato da tutto; ché sebbene ciò non impedisca ch’io  senta ogni giorno i moti di quasi tutte le passioni, basta però un po’ di  riflessione a calmarli. 

«Spesso ho sentito grande allegrezza interna al pensiero d’essere al  servizio di Dio, e che questo valeva assai più di tutti i favori dei re. Le  occupazioni delle persone mondane mi sono sembrate assai disprezzabili in  confronto di ciò che si fa per Iddio. Io mi sento innalzato sopra tutti i re  della terra dall’onore che ho di essere di Dio. 

«Mi sento crescere sempre più il desiderio di darmi all’osservanza delle  regole e mi compiaccio sopratutto di praticarle: quanto più le osservo  esattamente, tanto più mi sembra d’entrare in libertà perfetta. È certo che  ciò non mi tormenta punto, anzi considero questa cosa come la grazia più  grande ricevuta in vita mia». 

Non c’è dubbio che questo gran Servo di Dio non sia vissuto nella  mortificazione continua di tutte le cose, dopo averne fatto espressamente  voto. Anche nell’ultima sua infermità, quando il male non gli permetteva di  stare a letto, lo si vide passare tutti i giorni parecchie ore seduto su una  sedia senza punto appoggiarvisi, perseverando così nella mortificazione  perfetta fino alla morte. E questa vita mortificata l’ha colmato di tante  consolazioni e di tale allegrezza interna, da fargli confessare che si possono  sentire, ma per nulla esprimere. 

«La visita di Gesù, dic’egli, mi rende la Croce così cara da sembrarmi  che fuori di essa io non possa essere felice. Considero con riverenza quelli  che Dio prova con umiliazioni e avversità di ogni sorta, perché certamente  essi sono i suoi prediletti; e finché starò nelle prosperità, per umiliarmi, non ho che a paragonarmi con loro. Queste parole: — Semplicità,  confidenza, umiltà, abbandono totale, nessuna riserva, volontà di Dio,  Regole — non mi si presentano mai alla mente senza che non v’entrino nel  medesimo tempo, come a me pare, la luce, la pace, la libertà, la  mansuetudine e l’amore». 

L’esperienza di questo gran serve di Dio ci fa vedere che, non solo i  Santi che ci hanno preceduto hanno provato tante dolcezze nell’esercizio  della mortificazione universale e costante, ma che quegli stessi coi quali  viviamo, esperimentano lo stesso, non appena si fanno generosi nel  mortificarsi continuamente. 

P. GIOVANNI CROISET S.J. 

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