LA DIVOZIONE AL S. CUORE DI N. S. GESÙ CRISTO
È cosa certa che la tiepidezza, l’amor proprio, l’orgoglio segreto o altra passione di cui si è negletta la mortificazione, sono le sorgenti principali dei difetti e gli ostacoli più grandi che c’impediscono di ricavare il debito frutto dalla devozione al S. Cuore di Gesù. La nostra carità è debole e languida, alleviamo in noi stesi i nemici più pericolosi, mentre di fuori il demonio ci tenta, il mondo ci attrae. Gli oggetti ci lusingano, le occasioni ci circondano, gli esempi ci trascinano. Perciò se non stiamo sempre sulla difensiva e non chiudiamo le porte dei sensi a questi nemici che ci assediano, presto si renderanno padroni del nostro cuore.
È strano, dice un gran servo di Dio, con quanti nemici si deve combattere quando ci risolviamo a farci santi: pare che ogni cosa si scateni; il demonio coi suoi inganni, la natura con la resistenza che oppone alle nostre buone aspirazioni, le lodi dei buoni, i motteggi dei malvagi, le sollecitazioni dei tiepidi, gli esempi di quelli che sono stimati devoti e non lo sono. Se Dio ci visita, è da temere la vanità, se si ritira, l’abbattimento; al maggior fervore può succedere la disperazione. Ci tentano gli amici con la condiscendenza che siamo soliti di avere verso di loro, gl’indifferenti col timore di disgustarli. Nel fervore c’è da temere l’indiscrezione, nella moderazione la sensualità, dappertutto l’amore proprio.
Che faremo dunque?
Tanto più che la santità non consiste nel rimanere fedeli per un giorno o per un anno, ma nell’essere costanti e nel crescere fino alla morte.
Ci serviremo dei mezzi che i Santi tutti e Gesù stesso ci assicurano essere i più efficaci per indebolire e distruggere l’amor proprio e la superbia segreta, che sono l’origine di tutti gli impedimenti.
Questi mezzi sono la mortificazione e l’umiltà. Bisogna scegliere una delle due, o non aver giammai l’amore perfetto di Gesù, o essere veramente umili e interamente mortificati.
§ 1. La vera mortificazione.
La mortificazione è, talmente necessaria per amare con verità Gesù Cristo, ch’Egli stesso l’insegnò per prima a quelli che vogliono essere suoi discepoli, e senza di essa non c’è da sperare di diventar mai discepoli di Lui. Chi vuol venire dietro a me, dice l’amabile Salvatore, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi seguiti: chi non porta la sua croce e non odia se stesso, non può essere mio discepolo, e non è degno di me. Perciò i Santi tutti nessun altro segno più sincero danno di pietà solida che la mortificazione perfetta. S. Ignazio a chi gli lodava la virtù sublime di qualcuno chiedeva subito: — È assai mortificata questa persona? — volendo far intendere con ciò che la vera mortificazione è inseparabile dalla vera pietà, non solo perché non c’è nessuna virtù che possa durare a lungo senza la mortificazione generale e costante, ma anche perché senza di questa non esiste affatto la vera virtù.
Ci sono due modi di mortificarsi; uno esterno, che consiste solo nella macerazione del corpo, l’altro interno, ed è propriamente la mortificazione dello spirito e del cuore: tutti e due sono necessari per giungere alla perfezione, e l’uno senza l’altro non potrebbe durare a lungo. I digiuni, le veglie, i cilizi e altre simili mortificazioni del corpo sono mezzi potenti per diventare veramente spirituali e veramente perfetti, e quando si usano con discrezione, servono mirabilmente a fortificare la natura sempre fiacca verso il bene e vivamente portata al male; inoltre servono a rintuzzare gli assalti, a evitare le insidie del nemico comune, a impetrare finalmente dal Padre delle misericordie gli aiuti necessari a tutti i giusti, specialmente ai principianti.
È vero che la santità non sta nelle penitenze esterne, e queste non sono incompatibili con l’ipocrisia; ma ciò non si verifica nella mortificazione interna, ch’è sempre un indizio, certo di vera pietà, e perciò è anche più necessaria dell’esterna e nessuno a ragione può esimersene. È essa una violenza continua che bisogna farsi per acquistare il regno dei Cieli.
Non tutti sono in grado di digiunare, di portare il cilizio, ma non c’è nessuno che non possa tacere nel caso in cui la passione ci porti a rispondere, e la vanità a parlare; nessuno c’è che non possa frenare il suo carattere, i desideri, le passioni. Ecco appunto in che consiste principalmente la mortificazione interna, per la quale si indebolisce e si riduce alla ragione l’amor proprio, e per cui mezzo ci si libera dalle imperfezioni. Invano ci illudiamo d’amare G. Cristo se non ci mortifichiamo, ché tutti i più bei sentimenti di pietà, tutte le pratiche di devozione senza la mortificazione perfetta diventano sospette.
Ci meravigliamo dopo tanti esercizi di pietà e dopo tante Comunioni di trovarci tanto imperfetti e di sentire tutte le passioni agitarsi nel nostro cuore; non ci accorgiamo che l’origine di queste sollevazioni dipende proprio dalla mancanza di questa mortificazione perfetta?
Bisogna dunque decidersi se si vuole indebolire e distruggere l’amor proprio, da cui prendono alimento le passioni, bisogna, dico, risolversi a mortificarsi con generosità e costanza.
Non basta mortificarsi per qualche tempo e in parte, ma, se si può, in tutto e sempre con prudenza e discrezione. Se voi date alla natura una soddisfazione sregolata, basta questa a renderla più fiera, per dir così, e ribelle di quanto non l’abbiano indebolita cento vittorie riportate su di lei. La tregua con tali nemici è una vittoria per essi.
Fratelli miei cari, diceva S. Bernardo, ciò che è tagliato rispunta, ciò ch’è estinto si riaccende, ciò ch’è assopito si risveglia. Per mantenere lo spirito interno della devozione bisogna impedire all’anima di diffondersi al di fuori coll’assieparla tutto intorno di spine, come dice il Profeta. Questo appunto noi non facciamo, e perciò tante tiepidezze, rilassamenti e mancanze di devozione. Se infatti mortifichiamo la natura in una cosa, subito la risarciamo col darle un’altra soddisfazione; se ci teniamo raccolti durante il ritiro spirituale, non appena ne usciamo apriamo tutte le porte dei sensi agli oggetti che ci possono rendere dissipati.
La pratica della mortificazione interna, tanto comune ai Santi, è nota a chiunque desideri veramente la perfezione. Basta prestare attenzione allo spirito di Dio. L’amore verso Gesù è tanto ingegnoso in questo punto, da suggerire subito, anche alle anime più rozze, industrie e mezzi tali per mortificarsi che superano l’ingegno delle persone più dotte, e si possono considerare come piccoli miracoli. Non c’è nulla che non dia loro appiglio a contrariare le loro inclinazioni naturali, né tempo o luogo che non sembri loro adatto per mortificarsi, senza uscire mai dai dettami del vero buon senso. Basta che si sentano una gran voglia di guardare o di parlare, perché sì credano in dovere d’abbassare gli occhi o di tacere. Il desiderio di saper notizie o di conoscere ciò che succeda, si faccia o si dica, è per loro occasione continua di mortificarsi con tanto più merito, in quanto essa è più comune e non ha altro testimonio che Dio. In conversazione una scappata felice, una burla spiritosa possono recare onore, ma possono anche diventare materia d’un bel sacrificio.
Non c’è quasi ora del giorno che non ci offra qualche motivo di mortificazione: si stia seduti o in piedi, non mancherà mai un sito o una posizione incomoda, senza che nulla apparisca al di fuori. Se cento volte ci fanno interrompere un’occupazione di molta importanza, cento volte risponderemo con dolcezza e cortesia, come se non fossimo occupati affatto.
Possono ancora essere materia di molta pazienza ad un uomo di soda virtù il cattivo umore d’una persona con cui si trova, i difetti d’un servo, l’ingratitudine d’un uomo beneficato.
Finalmente gli incomodi propri del luogo, della stagione e delle persone, sopportati in modo da far credere che non li avvertiamo, sono occasioni di mortificarsi, piccole sì, ma la mortificazione in queste piccole occasioni non è piccola, anzi è di grande merito, e si può dire che le grazie maggiori e la santità più sublime dipendono, di solito, dalla generosità che mettiamo nel mortificarci costantemente nelle piccole occasioni. Non è davvero piccola mortificazione il non trascurare nessuno degli obblighi della Comunità e conformarsi in tutto alla vita comune, senza considerare affatto le proprie inclinazioni, gli uffici o l’età: questo genere di mortificazione è tanto più notevole, in quanto è meno soggetto alla vanità ed è più conforme allo spirito di Gesù Cristo.
Ma se pure mancassero occasioni esterne di mortificarsi, non mancheranno occasioni interne.
Senza grande spirito di mortificazione non possiamo conservarci a lungo modesti, raccolti e riservati. L’onestà, la mansuetudine e la gentilezza di modi possono essere frutto di educazione, ma il più delle volte sono indizio di mortificazione continua. E senza questa virtù chi potrà mantenersi sempre in pace, sempre uguale a se stesso? come potrà compiere sempre con perfezione quello che fa, ed essere contento di far sempre in tutto la volontà di Dio?
§ 2. L’umiltà sincera.
Il secondo mezzo consiste nell’umiltà sincera. Gesù Cristo, dice S. Agostino, non ci dice: Imparate da me a far miracoli, ma imparate da me che sono dolce e umile di cuore, per farei comprendere che senza umiltà non c’è vera pietà. Noi certo siamo ben persuasi della necessità di questa virtù, ma la difficoltà sta nel sapere in che consiste la vera umiltà. Molti si credono veramente umili quando sentono bassamente di sé, ma se non sono contenti che gli altri abbiano di loro lo stesso concetto, essi s’illudono. Non basta riconoscere d’essere privi di ogni virtù e di merito, bisogna crederlo ed essere contenti che lo credano anche gli altri. Il primo passo da farsi per l’acquisto di questa virtù deve essere nel chiederla a Dio con istanza, quindi di persuadersi con riflessioni serie e frequenti su noi stessi della nostra povertà e delle nostre imperfezioni.
Giova molto ad umiliarci il ricordo di ciò che fummo e il pensiero di ciò che potremmo diventare. Le persone veramente buone pensano poco agili altri, tua s’occupano soltanto delle proprie imperfezioni; quelle veramente umili noti si scandalizzano di nulla, perché conoscono, assai bene la propria debolezza, e si scorgono così vicine al precipizio ed hanno tale paura di cadervi, che non si stupiscono s’altri vi cadano. Meno parliamo di noi e più ci conformiamo alla vera umiltà. I discorsi affettati per cui vorremmo far credere che ci stimiamo poco, il più delle volte servono per attirarci le lodi.
Il segno più sicuro di umiltà sincera è quello di prediligere in modo speciale chi ci disprezza, di non sfuggire alcuna umiliazione che ci si presenti; di non compiacerci in pensieri e progetti inutili sull’avvenire, che servono solo a nutrire in noi la superbia segreta; di non parlare mai in propria lode, di non lamentarci mai di tutto ciò che Dio permette che ci avvenga, e non permettere che gli altri ci compiangano; di scusare le colpe del prossimo e di non turbarci delle nostre cadute; di essere in tutto deferenti verso gli altri; di non pigliare a fare mai nulla se non con diffidenza di noi stessi, e di stimar poco quel che facciamo; finalmente di pregar molto e di parlar poco.
Chi conosce sé per un miserabile non vede nessuna cattiveria nel disprezzo degli altri verso di lui, perché sa che è giusto. L’umile, per quanto lo trattino male, crede che gli si renda giustizia. Non mi stimano gli uomini? Hanno ragione; sono d’accordo col giudizio di Dio e degli angeli. Chi aveva già meritato l’inferno riconosce che il disprezzo gli è dovuto.
Non diciamo che si debba accettare con piacere sensibile l’umiliazione, ché il disprezzo naturalmente dispiace; ma il non lamentarsi affatto, tacere nel disprezzo, ringraziarne Iddio, e pregarlo anche per quelli di cui Egli si è servito per umiliarci, per quanto la natura ripugni a sottomettersi, ecco i contrassegni certi di umiltà sincera, senza cui noti c’è nessuna virtù. Dentro e fuori di noi, dice S. Paolo, stanno dei nemici che ci tendono insidie per tutto. L’amore dell’umiltà, dell’abiezione, della vita oscura e nascosta è una grande medicina a tanti mali. Non c’è pace se non nell’oblio di se stessi, e chi vuol diventare perfetto deve risolversi a dimenticare persino gl’interessi spirituali per non cercare che la sola gloria di Dio.
§ 3. Gioia e dolcezze inseparabili dalla pratica della mortificazione e dell’umiltà.
Non c’è vera devozione senza mortificazione completa, generosa e costante, né senza umiltà sincera. Ma come si può parlare d’umiltà e di mortificazione continua senza sgomentare le persone che vorrebbero amare ardentemente Gesù Cristo?
Alla sola proposta sì poco confacente, non si freme subito fin dal principio? E chi potrà mirare, Senza sentirsi respingere indietro, una via seminata di croci? Non è forse la vita più infelice che ci sia, questa, di dover contrariare in tutto le proprie inclinazioni naturali, di ricusare ai sensi ogni soddisfazione non puramente necessaria, di vivere ritirati, di vivere nel silenzio senza ricercare la stima degli uomini, senza commuoversi alle loro lodi, né affliggersi ai loro disprezzi? Ma intanto tutti coloro che menano una tale vita si protestano pienamente felici. Il mondo dice che una tale vita è insopportabile, ma Gesù invece dice ch’essa è dolce, agevole, piena di gaudio e di consolazione. Il mondo lo dice, cioè chi non sa niente, ma dicono il contrario quelli che hanno provato.
S. Francesco di Sales chiama una tale vita la soavità delle soavità; S. Efrem, nella pratica d’una vita sommamente mortificata, colmo di consolazioni interne, gridava: «Basta, mio Dio, basta! non mi opprimere di benefici, frena la tua liberalità, se non vuoi ch’io muoia, perché le delizie ineffabili ch’io provo hanno la forza d’uccidermi!». S. Francesco Saverio, scrivendo dal Giappone ai Gesuiti d’Europa, diceva: «Io sono in un paese dove si è privi di ogni cosa agevole alla vita, quanto al resto però provo tante consolazioni interne, che c’è pericolo ch’io perda la vista dal continuo piangere d’allegrezza».
Tanti milioni di Santi che noi confessiamo essere stati sapienti e sinceri, sì sono forse data la parola per affermare tutto il contrario di ciò che pensavano e provavano?
Ammesso che secondo i mondani nell’esercizio della mortificazione continua si sia infelici, come si spiega allora che quelli che vediamo più mortificati sono sempre più contenti? Perché non si trovano sulla terra altre persone che siano in perfetta letizia e in perfetta felicità se non quelle che sono più mortificate? Se la vita mortificata non produce davvero questa gioia inalterabile, con quale artificio tali persone si mantengono fino alla morte in una dolcezza e in una pace, che nessuna occorrenza della vita può alterare?
Se ciò dipende da finzione, perché i mondani, tanto esperti nell’arte di dissimulare, non sono riusciti fino ad ora a nascondere le inquietudini e amarezze loro, benché la maggior parte trascorra la vita nei piaceri e nei divertimenti?
La sola virtù, dice S. Agostino, per quanto sembri austera, fa gustare i veri piaceri; e nel mondo non si dà felicità perfetta, se non per chi lavora seriamente a santificarsi. Egli libero dal turbamento delle passioni più crudeli, che tiranneggiano i cattivi, ha durante la vita più dolcezze quanto meno tribolazioni, e stando soggetto in tutto alla volontà del Signore, gode quella tranquillità e pace profonda che il mondo non può dare. Questo dolce riposo della coscienza è frutto ordinario della virtù.
Quanto più si è avari con Dio, tanto meno si partecipa di questa gioia.
Che dire dell’unzione segreta con la quale Dio addolcisce il giogo della sua legge, degli istanti felici in cui si fa sentire dalle anime giuste, della speranza sì dolce che fa loro pregustare le gioie del cielo, dei raggi di luce che mostrano la vanità del mondo in un giorno sì bello, delle lacrime di consolazione che talvolta versano dinanzi al Crocifisso, dove provano un piacere più puro e più squisito di quello che si prova nelle feste più squisite dei mondani? Questi piaceri e queste dolcezze interne, superiori ad ogni immaginazione, sono misteri celati alle anime tiepide, per le quali essi sono un linguaggio incomprensibile; ma datemi un’anima fervorosa, una persona veramente umile e mortificata, un cuore compreso d’amore di Gesù, e capirà, dice S. Agostino, ciò che dico. Da amantem et sentit quod dico.
È vero che la perfezione non esclude che si sentano delle volte le prove della vita; le disgrazie possono produrre nell’uomo giusto un po’ d’agitazione, però non arrivano fino a metterlo nella desolazione, ché trova sempre una risorsa nella sua virtù. Quando la via larga che battono gl’imperfetti fosse priva affatto di croci, tutto contribuirebbe a farvene nascere; mentre sulla strada di quelli che amano ardentemente Gesù Cristo, qualora ce ne fossero, il cielo e la terra, per dir così, farebbero il possibile per renderle soavi, perché lo stesso Figlio di Dio vuole portarle con noi a fine di renderle meno pesanti.
Da ultimo il pensiero della morte da solo spaventa i gaudenti del mondo, mentre conforta e rallegra i buoni. Si è mai saputo che qualcuno in punto di morte, quando si giudica così rettamente delle cose, si sia pentito d’essersi mortificato e d’aver menato una vita perfetta, anzi che non sia stato in disperazione se non l’avesse fatto?
La mortificazione perfetta deve avere degli allettamenti che noi non conosciamo, perché non siamo perfettamente mortificati. La nostra viltà non ci fa esserlo abbastanza che per provarne la pena, ma non facciamo tanto da gustarne le dolcezze. Sembra che non ci fidiamo di quello che ce ne dicono i buoni e di ciò che Gesù stesso ci promette. Vorremmo ch’Egli ci pagasse in anticipo e non si vuol capire che quello che costa non è che il primo passo, cioè che tutta la pena sta nel risolversi a mortificarci.
Gustate, dice il Profeta, e quindi vedete7. Gli occhi qui c’ingannano, si deve giudicare dal gusto. Quelli che avevano visto la terra promesso soltanto da lontano, ne erano spaventati e dicevano ch’essa divorava gli abitanti, ma chi c’era stato diceva tutto l’opposto, e assicurava ch’era una terra dove scorreva latte e miele. Facciamo questo sacrificio perfetto almeno per quindici giorni: — la cosa è di ben poco valore se non merita che sé ne faccia l’esperienza — e se dopo quindici giorni di mortificazione continua e perfetta, noi non gustiamo punto quelle dolcezze sperimentate dagli altri, accetto che si dica, (così un gran servo di Dio) che la vita di chi ama veramente G. Cristo è fastidiosa, e che il giogo del Signore è pesante.
C’è da stupirsi che ci voglia tanto a persuadersi ch6 si può essere felici nella pratica della mortificazione continua, quando si vede ogni giorno tanta gente inquieta e malcontenta in mezzo ai divertimenti più grandi. Se esistono mali invisibili, è forse impossibile che ci siano delle dolcezze segrete? Certo ci sono e dipende da noi gustarne.
Il P. de la Colombière col permesso dei superiori s’era legato con voto all’osservanza di tutte le regole, e in modo speciale s’era obbligato, a mortificarsi continuamente in ogni cosa.
Quelli a cui sembrano un giogo insopportabile i tre voti essenziali dei Religiosi, che cosa avrebbero pensato di questo gran servo di Dio? Non l’avrebbero giudicato un infelice? Ecco pertanto che cosa ne scrisse egli stesso nei suoi Ritiri spirituali, dove a imitazione delle persone sodamente virtuose e che hanno fatto il proposito di avanzare sempre più nella via della perfezione, egli notava i sentimenti ispiratigli da Dio e le grazie da Lui ricevute, per rammentarsi di ringraziarlo ed incitarsi ogni giorno più ad amarlo:
«Il sesto giorno, così egli, meditando sul voto particolare che ho fatto, mi son sentito muovere a grande riconoscenza verso Dio, che mi ha concesso di fare questo voto. Non m’era mai capitata tanta comodità di considerarlo così bene. Nel vedermi legato con tante catene a fare la volontà di Dio ho provato una grande allegrezza. Il pensiero di questo legame invece di spaventarmi mi rallegra, perché mi sembra che, ben lungi dal rendermi schiavo, io sia entrato nel regno della libertà e della pace.
«Quando sono tutto di me stesso, dice altrove, mi sento, per la misericordia infinita di Dio, in tale libertà di cuore, da provare una gioia incomparabile. Mi pare che nulla possa rendermi infelice e, in quel tempo almeno, mi trovo distaccato da tutto; ché sebbene ciò non impedisca ch’io senta ogni giorno i moti di quasi tutte le passioni, basta però un po’ di riflessione a calmarli.
«Spesso ho sentito grande allegrezza interna al pensiero d’essere al servizio di Dio, e che questo valeva assai più di tutti i favori dei re. Le occupazioni delle persone mondane mi sono sembrate assai disprezzabili in confronto di ciò che si fa per Iddio. Io mi sento innalzato sopra tutti i re della terra dall’onore che ho di essere di Dio.
«Mi sento crescere sempre più il desiderio di darmi all’osservanza delle regole e mi compiaccio sopratutto di praticarle: quanto più le osservo esattamente, tanto più mi sembra d’entrare in libertà perfetta. È certo che ciò non mi tormenta punto, anzi considero questa cosa come la grazia più grande ricevuta in vita mia».
Non c’è dubbio che questo gran Servo di Dio non sia vissuto nella mortificazione continua di tutte le cose, dopo averne fatto espressamente voto. Anche nell’ultima sua infermità, quando il male non gli permetteva di stare a letto, lo si vide passare tutti i giorni parecchie ore seduto su una sedia senza punto appoggiarvisi, perseverando così nella mortificazione perfetta fino alla morte. E questa vita mortificata l’ha colmato di tante consolazioni e di tale allegrezza interna, da fargli confessare che si possono sentire, ma per nulla esprimere.
«La visita di Gesù, dic’egli, mi rende la Croce così cara da sembrarmi che fuori di essa io non possa essere felice. Considero con riverenza quelli che Dio prova con umiliazioni e avversità di ogni sorta, perché certamente essi sono i suoi prediletti; e finché starò nelle prosperità, per umiliarmi, non ho che a paragonarmi con loro. Queste parole: — Semplicità, confidenza, umiltà, abbandono totale, nessuna riserva, volontà di Dio, Regole — non mi si presentano mai alla mente senza che non v’entrino nel medesimo tempo, come a me pare, la luce, la pace, la libertà, la mansuetudine e l’amore».
L’esperienza di questo gran serve di Dio ci fa vedere che, non solo i Santi che ci hanno preceduto hanno provato tante dolcezze nell’esercizio della mortificazione universale e costante, ma che quegli stessi coi quali viviamo, esperimentano lo stesso, non appena si fanno generosi nel mortificarsi continuamente.
P. GIOVANNI CROISET S.J.
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