giovedì 31 gennaio 2019

I Dieci Comandamenti



ALLA LUCE DELLE RIVELAZIONI A MARIA VALTORTA 



Il secondo comandamento: “Non nominare il nome di Dio invano”. 


Gesù è accusato di essere un bestemmiatore. 

Gesù viene spesso accusato di essere un bestemmiatore. Lui 
che amava e adorava il Padre Suo più della Sua stessa vita, che 
infatti donerà al Padre per fare la Sua Santa Volontà! 
Per capire quanto sopra basta leggere alcuni dei versetti più 
famosi del Nuovo Testamento26, a questo riguardo, paragonandoli 
poi con alcuni (corrispondenti o meno) stralci valtortiani: 

Matteo, 9 1Salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città. 
2Ed ecco, gli portavano un paralitico disteso su un letto. Gesù, vedendo la loro 
fede, disse al paralitico: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati». 3Allora 
alcuni scribi dissero fra sé: «Costui bestemmia». 4Ma Gesù, conoscendo i loro 
pensieri, disse: «Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? 
infatti è più facile: dire “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati e 
cammina”? 6Ma, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di 
perdonare i peccati: Àlzati – disse allora al paralitico –, prendi il tuo letto e va’ a 
casa tua». 7Ed egli si alzò e andò a casa sua.   

Giovanni 10, 
30Io e il Padre siamo una cosa sola». 31Di nuovo i Giudei 
raccolsero delle pietre per lapidarlo. 32Gesù disse loro: «Vi ho fatto vedere molte 
opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». 
risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una 
bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio». 

Fino ad arrivare all’ultima accusa che sarà quella che farà 
scattare la condanna a morte di Gesù: 

Marco 14,61Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il 
Cristo, il Figlio del Benedetto?». 62Gesù rispose: «Io lo sono! 
E vedrete il Figlio dell’uomo 
seduto alla destra della Potenza 
e venire con le nubi del cielo». 
63Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno 
abbiamo ancora di testimoni? 64Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». 
Tutti sentenziarono che era reo di morte. 
Matteo 26,65Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: «Ha 
bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Ecco, ora avete udito 
la bestemmia; 66che ve ne pare?». E quelli risposero: «È reo di morte!». 
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«[…] Non fate come i giudei del mio tempo mortale, che vollero 
chiudere il cuore alle mie istruzioni e, non potendomi eguagliare 
nel comprendere i misteri e le verità sopranaturali, mi chiamavano 
ossesso e bestemmiatore27». 
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[…] 8Si avviano verso l'uscita. E fuori della cinta viene riportato 
a Gesù che i capi dei sacerdoti e i farisei hanno rimproverato le 
guardie per non avere arrestato Gesù, e che esse si erano scusate 
dicendo che nessuno aveva mai parlato come Gesù. Risposta che 
aveva fatto imbestialire i principi dei sacerdoti e i farisei, fra i 
quali erano molti sinedristi. Tanto che, per provare alle guardie 
che solo gli stolidi potevano essere sedotti da un pazzo, volevano 
venire ad arrestarlo come bestemmiatore. Anche per insegnare 
alla folla a capire la verità. Ma Nicodemo, che era presente, si era 
opposto dicendo: «Non potete procedere contro di Lui. La nostra 
Legge vieta di condannare un uomo prima di averlo sentito e aver 
visto ciò che fa. E noi da Lui abbiamo sentito e visto soltanto cose 
non condannabili».28 
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[…] Gesù sta così qualche minuto. Poi riprende a parlare a 
questa turba venduta e vile, che ha perso ogni prepotenza 
soltanto per aver visto un baleno divino: «Ebbene? Che 
volete fare? Mi avete chiesto chi ero. Ve l'ho detto. Siete 
divenuti furenti. Vi ho ricordato quanto ho fatto, vi ho fatto 
vedere e ricordare molte opere buone provenienti dal Padre 
mio e compiute col potere che mi viene dal Padre mio.  
Per quale di queste opere mi lapidate? Per aver insegnato 
la giustizia? Per aver portato agli uomini la Buona Novella? 
Per essere venuto ad invitarvi al Regno di Dio? Per avere 
guarito i vostri malati, reso la vista ai vostri ciechi, dato moto 
ai paralitici, parola ai muti, liberato gli ossessi, risuscitato i 
morti, beneficato i poveri, perdonato ai peccatori, amato 
tutti, anche quelli che mi odiano: voi e quelli che vi 
mandano?  
Per quale dunque di queste opere voi mi volete 
lapidare?».  
«Non è per le opere buone che hai fatto che ti lapidiamo, ma 
per la tua bestemmia, perché Tu, essendo uomo, ti fai Dio».  
«Non è scritto nella vostra Legge: "Io dissi: voi siete dèi e 
figli dell'Altissimo"? Ora, se "dei" nominò Dio coloro ai quali 
parlò, dando un mandato: quello di vivere in modo che la 
somiglianza e l'immagine di Dio, che è nell'uomo, appaia 
manifesta e l'uomo non sia né demone né bruto; se "dèi" sono 
detti gli uomini nella Scrittura, tutta ispirata da Dio, e perciò 
la Scrittura non può essere modificata né annullata secondo 
il piacere e l'interesse dell'uomo; perché voi dite a Me che Io 
bestemmio, Io che il Padre ha consacrato ed inviato nel 
mondo, perché dico: "Sono Figlio di Dio"?  
Se Io non facessi le opere del Padre mio, avreste ragione di 
non credere a Me. Ma Io le faccio. E voi non volete credere a 
Me. Credete allora almeno a queste opere, affinché sappiate e 
riconosciate che il Padre è in Me e che Io sono nel Padre».  
La bufera degli urli e delle violenze rincomincia più forte 
di prima. Da uno dei terrazzi del Tempio, sul quale certo 
erano in ascolto e nascosti sacerdoti, scribi e farisei, 
gracchiano molte voci: «Ma impadronitevi di questo 
bestemmiatore. Ormai la sua colpa è pubblica. Tutti abbiamo 
sentito. A morte il bestemmiatore che si proclama Dio! 
Dategli lo stesso castigo che al figlio di Salumit di Dabri. Sia 
portato fuori dalla città e lapidato! È nel nostro diritto! È 
detto: "Il bestemmiatore sia messo a morte"». 
Gli incitamenti dei capi acuiscono l'ira dei giudei. I quali 
tentano di impadronirsi di Gesù e di darlo legato in mano 
dei magistrati del Tempio, che stanno accorrendo seguiti 
dalle guardie del Tempio. […] 
>>> 
 
Da quanto sopra è dunque chiaro che Gesù fu condannato 
proprio perché si dichiarò Figlio di Dio. Gesù non ebbe mai 
paura di dare questa testimonianza al Padre Suo, anche se 
dai Vangeli canonici questo può sembrare poco chiaro, tanto 
che tutti i commentatori di Marco dichiarano che Marco 
scrisse il Suo Vangelo per arrivare a provare (alla fine) che 
veramente Gesù era il Figlio di Dio. 
Gesù tacque quando era giusto non parlare, ma parlò forte e 
chiaro quando si trattò di dare la Sua testimonianza al Padre e non 
ebbe paura neanche di Erode o di Pilato. 
Ora chiudo questo doveroso paragrafo con un ultimo 
significativo colloquio fra Gesù e Sua Madre, (poco prima 
dell’Ultima Cena) che ci permette di capire che per Gesù la Croce 
non fu solo dolore, ma soprattutto Amore e Gioia perché 
finalmente avrebbe potuto riportare al Padre il Suo Popolo di 
salvati. 
 
<<< 
[…] Gesù abbraccia sua Madre e la bacia in fronte. Maria 
bacia prima la mano al Figlio e poi la guancia destra. Gesù fa 
sedere Maria e si siede al suo fianco, su due sgabelli vicini. 
La fa sedere, accompagnandola ad essi per mano, e continua 
a tenere la mano anche quando Ella è seduta.  
Anche Gesù è assorto, pensieroso, triste, per quanto si sforzi 
a sorridere. Maria ne studia con ansia l'espressione. Povera 
Mamma, che per la grazia e per l'amore comprende che ora sia 
questa! Delle contrazioni di dolore scorrono sul viso di Maria, 
ed i suoi occhi si dilatano ad un'interna visione di spasimo. Ma 
non fa scene. È maestosa come il Figlio. Egli le parla. La saluta e 
si raccomanda alle sue preghiere.  
«Mamma, sono venuto per prendere forza e conforto da 
te. Sono come un piccolo bambino, Mamma, che ha bisogno 
del cuore della madre per il suo dolore e del seno della 
madre per sua forza. Sono tornato, in quest'ora, il tuo piccolo 
Gesù di un tempo. Non sono il Maestro, Mamma. Sono 
unicamente il Figlio tuo, come a Nazareth quando ero 
piccino, come a Nazareth prima di lasciare la vita privata. 
Non ho che te. Gli uomini, in questo momento, non sono 
amici, e leali, del tuo Gesù. Non sono neppure coraggiosi nel 
bene. Solo i malvagi sanno essere costanti e forti nell'operare 
il male. Ma tu mi sei fedele e sei la mia forza, Mamma, in 
quest'ora. Sostienimi col tuo amore e col tuo orare. Non ci sei 
che tu che in quest'ora sai pregare, fra chi più o meno mi 
ama. Pregare e comprendere. Gli altri sono in festa, assorbiti 
da pensieri di festa o da pensieri di delitto, mentre Io soffro 
di tante cose. Molte cose moriranno dopo quest'ora. E fra 
queste la loro umanità, e sapranno essere degni di Me, tutti 
meno colui che s'è perduto e che nessuna forza vale a 
ricondurre almeno al pentimento. Ma per ora sono ancora 
uomini tardi che non mi sentono morire, mentre essi 
giubilano credendo più che mai prossimo il mio trionfo. Gli 
osanna di pochi giorni or sono li hanno ubriacati. Mamma, 
sono venuto per quest'ora e soprannaturalmente la vedo 
giungere con gioia. Ma il mio Io anche la teme, perché 
questo calice ha nome tradimento, rinnegamento, ferocia, 
bestemmia, abbandono. Sostienimi, Mamma. Come quando 
col tuo pregare hai attirato su te lo Spirito di Dio, dando per 
Esso al mondo l'Aspettato delle genti, attira ora sul Figlio tuo 
la forza che m'aiuti a compiere l'opera per cui venni. 
Mamma, addio. Benedicimi, Mamma; anche per il Padre. E 
perdona a tutti. Perdoniamo insieme, da ora perdoniamo a 
chi ci tortura».  
Gesù è scivolato, parlando, ai piedi della Madre, in 
ginocchio, e la guarda tenendola abbracciata alla vita. Maria 
piange senza gemiti, col volto lievemente alzato per una interna 
preghiera a Dio. Le lacrime rotolano sulle guance pallide e 
cadono sul suo grembo e sul capo che Gesù le appoggia alla 
fine sul cuore. Poi Maria mette la sua mano sul capo di Gesù 
come per benedirlo e poi si china, lo bacia fra i capelli, glieli 
carezza, gli carezza le spalle, le braccia, gli prende il volto fra le 
mani e lo volge verso di Lei, se lo serra al cuore. Lo bacia 
ancora fra le lacrime, sulla fronte, sulle guance, sugli occhi 
dolorosi, se lo ninna, quel povero capo stanco, come fosse un 
bambino, come l'ho vista ninnare nella Grotta il Neonato 
divino. Ma non canta, ora. Dice solo: «Figlio! Figlio! Gesù! Gesù 
mio!».  
Ma con una tal voce che mi strazia.  
Poi Gesù si rialza. Si aggiusta il manto, resta in piedi di 
fronte alla Madre, che piange ancora, e a sua volta la 
benedice. Poi si dirige alla porta. Prima di uscire le dice: 
«Mamma, verrò ancora prima di consumare la mia Pasqua. 
Prega attendendomi». Ed esce.  
>>> 
 
E poi tanti hanno il coraggio di bestemmiare i loro SS. Nomi! 


Riflessioni di Giovanna Busolini 

Per il Dono della Santa Comunione



Oh Ostia Celeste, riempi il mio corpo con il nutrimento di cui ha bisogno. 
Riempi la mia anima con la Divina Presenza di Gesù Cristo. 
Dammi la grazia di compiere la Santa Volontà di Dio. 
Colmami della pace e della tranquillità che vengono dalla tua Santa Presenza. 
Non permettere mai che io dubiti della Tua Presenza. 
Aiutami ad accettarTi in Corpo e Anima e, per la Santa Eucaristia,  
fa che le grazie concesse mi aiutino a proclamare  
la gloria del Signore Nostro Gesù Cristo. 
Purifica il mio cuore. 
Apri la mia anima e santificami quando ricevo  
il grande Dono della Santa Eucaristia. 
Accordami le grazie e i favori che dai a tutti i figli di Dio  
e concedimi l’immunità dal fuoco del Purgatorio. 
Amen. 

Non dovete mai rifiutare Dio a causa delle cattive azioni di coloro che affermano falsamente di servirLo



Mia amata figlia diletta, qualunque uomo  che si nasconde dietro alla religione per fare del 
male a delle persone appartenenti ad altre religioni, non proviene da Me. Le religioni che 
mascherano l‟odio e demonizzano le altre confessioni non servono Dio. 

Ogniqualvolta gli uomini usano Me, Gesù Cristo, come uno scudo dietro cui 
nascondersi, nel loro cercare di uccidere e di massacrare degli innocenti, 
commettono il più grande sacrilegio. Gli uomini, che credono in Dio, devono sapere chi è 
Dio, che cosa ha detto al mondo e come Egli ha istruito i Suoi figli, attraverso i Dieci 
Comandamenti, al fine di servirLo. 

Dio è Amore. Egli non tollera nessuna forma di odio. Se e quando voi vedete la 
gente usare come copertura la religione, allo scopo di infliggere del dolore agli 
altri, per un motivo qualsiasi, dovete sapere che questo non ha nulla a che fare con 
l‟amore per Dio. L‟odio ha origine da Satana che diffonde il suo veleno tra i religiosi 
più estremisti, pur di sfogare la sua rabbia contro Dio. Entrando nella mente di coloro 
che hanno una conoscenza distorta su Chi Io Sia, egli riesce a diffondere l‟odio contro Dio. La 
gente allora si chiederà: “Come può Dio permettere tanto male nel Suo Nome?”. La risposta è 
che il male si troverà sempre nei luoghi in cui Dio viene venerato, poiché sono 
questi i luoghi che il maligno ricerca più accuratamente per portare il discredito a 
tutte le religioni che onorano Dio. A causa delle sue azioni, le persone si allontaneranno 
da Dio, il quale sarà biasimato per ogni vile atto perpetrato da coloro che affermano di 
servirLo. 

L‟odio è sempre attento a mascherarsi. Di solito esso sarà presentato da coloro che 
pretendono di rappresentare Dio, affinché sembri che si voglia rendere giustizia ai nemici di 
Dio. Sarà visto come un „motivo di preoccupazione‟ e di condanna per tutto ciò che 
si vuole che il mondo consideri come un male. Le Chiese di diverse confessioni, in 
tutto il mondo, sono state infiltrate dai nemici di Dio dal loro interno. L‟obiettivo è 
quello di recare biasimo sul Nome del Mio Eterno Padre. Come risultato, è sorta in ogni parte 
del mondo una profonda diffidenza e la mancanza di fiducia in Dio. L‟ipotesi più logica è che i 
rappresentanti di Dio abbiano istigato il male nel Suo Nome e, quindi, la fede in Dio risulta 
errata. Questo è il motivo per cui il mondo è immerso nell‟odio, nella corruzione e 
nella guerra, in quanto il piano di Satana è quello di distruggere ogni religione che 
onora il Vero Dio. Coloro che causano questi mali non hanno amore nelle loro anime 

Non dovete mai rifiutare Dio a causa delle cattive azioni di coloro che falsamente affermano di 
servirLo. Se lo fate, e per tale motivo ve ne allontanate allora siete caduti, e ciò proprio a 
causa delle menzogne che Satana vuole farvi inghiottire. Non dovete mai giudicare gli altri in 
base alla loro fede, buona o cattiva. Non dovete mai giudicare il Padre Eterno o Me, Gesù 
Cristo, il Suo diletto Figlio, per i peccati che commettono coloro che servono le Sue Chiese. 
L‟uomo è, e sempre sarà, un peccatore su questa terra. Il peccato sarà sempre la maledizione 
dell‟uomo, finché Io non verrò di nuovo, accusare Dio di peccato equivale ad un terribile 
sacrilegio, tanto più perché questo è impossibile. 

Svegliatevi al fatto che Satana esiste e che egli stia molto attento a nascondere questo 
fatto, in modo che possa ingannare le anime fino a farle bestemmiare Dio, il Creatore di tutto 
ciò che è e sempre sarà. Presto, tutte queste atrocità finiranno e ogni Gloria sarà Mia. Non 
passerà molto tempo prima che Satana venga distrutto e che il genere umano sia in grado di 
vedere chiaramente Chi Io Sono e la Vita Gloriosa che Io porterò con la Mia Seconda Venuta. 

Dovete stare attenti a tutto ciò che viene presentato nel Mio Santo Nome, poiché vi 
accorgerete che non tutto proviene da Me. 

Il vostro Gesù 

29 Giugno 2014



mercoledì 30 gennaio 2019

L’INFERNO



L’inferno interessa la demonologia in quanto è la sede e dimora abituale dei demoni e dei dannati. 
Per esigenza di tema noi ci interesseremo più dei primi che dei secondi, e dei secondi solo 
indirettamente.

Il demonio è sempre nell’inferno anche quando opera nel corpo degli ossessi o vaga nell’aria, 
secondo quello che dice san Paolo. L’inferno quindi, pur conservando il suo significato etimologico 
di «posto al di sotto», come spiegheremo subito, più che una delimitazione geografica o locale deve 
essere ritenuto una situazione psicologica, ossia lo stato di maledizione e di riprovazione che 
accompagna il demonio eternamente, dovunque e in qualunque istante si trovi, lontano da Dio e 
dalla sua visione, con le pene del senso e del danno che questo allontanamento comporta. Non è 
concepibile infatti che anche per un solo istante la pena dell’inferno sia per il demonio sospesa.

L’inferno, un’idea vaga del quale si riscontra in tutte le religioni, come vedremo, o in forma più 
definita, ma ancora incompleta e imperfetta, nell’Antico Testamento, prende una configurazione 
esatta, quale oggi si trova nella teologia e nella catechesi cattolica, solo nel Nuovo Testamento12.

Nelle mitologie antiche, indiana, persiana, babilonese,egiziana, greca, romana, l’inferno è 
raffigurato quasi sempre come un mondo sotterraneo, ingrato e sterile come un deserto, tuttavia 
popolato e recinto di mura.

È un luogo sempre oscuro e tuttavia in preda al fuoco. Secondo queste mitologie è abitato dai 
dannati e dai demoni, i quali ultimi sarebbero dèi decaduti. Riscontriamo in quelle antiche religioni 
una lontana somiglianza col dogma rivelato nell’Antico Testamento, il che fa vedere una traccia 
delle verità rivelate da Dio alla base delle religioni pagane.

Esiodo nella sua Teogonia descrive la lotta dei titani contro Zeus che trova un certo riscontro con la 
lotta di Michele contro Lucifero:

«I titani erano avvolti da una vampa di fuoco, una immensa fiamma si effondeva per l’etra divina, e 
per quanto gagliardi, essi si sentivano accecati dall’abbagliante guizzo dei lampi e delle folgori. Un 
prodigioso calore ardente invadeva gli spazi» (vv. 695-700).

Il Tartaro nel quale i titani ribelli sono precipitati è situato nelle profondità della terra ed è 
strutturato in modo che i condannati non ne possano uscire:

«Attorno a questo luogo si estende un recinto di bronzo. La notte circonda di un triplice giro il suo 
stretto passaggio. Là sono immersi nella caligine oscura i titani divini per volere di Zeus adunatore 
di nembi. Per essi non c’è uscita possibile: Poseidone vi ha messo porte di bronzo e un bastione 
cinge il luogo da ogni parte» (vv. 726-733).

Le stesse immagini, più o meno, ricorrono nelle teogonie e mitologie indiane, babilonesi, omeriche, 
talmudiche, virgiliane.

Secondo Omero, Ulisse scende nell’inferno e vi incontra molti trapassati «che dormono nella 
morte», e secondo Virgilio, Enea, guidato dalla Sibilla, entra in un’oscura regione coperta di paludi 
e di fiumi, lo Stige, il Cocito, l’Acheronte, e vi trova Minosse, il giudice dei morti, e poi i Campi 
Elisi e finalmente il Tartaro. Là Enea incontra i grandi criminali della storia. Non sono gli dèi 
infernali, Plutone e Proserpina, i loro tormentatori. Essi se ne stanno lontani, non hanno nessun 
contatto coi dannati. I castighi vengono inflitti da una folla mostruosa di personaggi misteriosi, le 
Furie, le Eumenidi, le Arpie, una folla di nere divinità che si accaniscono contro i criminali.

Per la mitologia pagana l’inferno non è eterno. È importante sottolineare che in tutte le concezioni 
pagane l’inferno si presenta come una prova temporanea seguita o da reincarnazione o da ascesa 
verso una zona felice dell’aldilà. In questi casi quello che è chiamato inferno non sarebbe che una 
forma di purgatorio. Questa concezione temporanea e transitoria dell’inferno manca del tutto nei 
libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.

L’inferno, o Tartaro, nei libri sacri è sempre posto in basso e circondato di oscurità. Prega Giobbe:

«Lasciami dunque riposare un poco prima che io me ne vada, per non più tornare, al luogo 
tenebroso coperto dalla caligine di morte, alla regione delle ombre nere come la notte, tenebre senza
mezzogiorno e dove il chiarore è come l’ombra» (Gb 10,20 ss).

Nella lingua greca — e nella traduzione greca della Bibbia — l’inferno è chiamato Hades, Ade, cioè
«l’invisibile», «il luogo dove non si è visti». Nel Nuovo Testamento si parla di «tenebre esteriori» e 
nell’epistola di Giuda e nella seconda lettera di san Pietro di «tenebre profonde».

Altri elementi che si aggiungono alle tenebre sono i vermi. Le carni morte diventano preda dei 
vermi, e i vermi avviluppano e divorano le vittime:

«Sotto dite i vermi sono distesi come un letto — scrive Isaia — e i vermi ti faranno da coperta» (Is 
14,11).

E Giobbe con maggiore verismo:

«Se aspetto, lo Sheòl sarà la mia dimora; nelle tenebre stenderò il mio letto; dirò alla putredine: tu 
sei mio padre, e ai vermi: voi siete mia madre e mia sorella» (Gb17,13-14)13.

Il salmo chiama l’inferno «la terra del silenzio» (Sal. 94,17).

L’inferno è insomma un soggiorno di tristezza e di infelicità che ispira a tutti i vivi un istintivo 
terrore come quello di un mostro che ingoia la sua preda.

L’inferno — abbiamo detto — prende la sua configurazione più precisa e definitiva nel Nuovo 
Testamento dove la dimora dei dannati e dei demoni è chiamata alternativamente Inferno, Geenna, 
Tartaro, Ade.

Inferno è la traduzione della parola ebraica Scheòl, «luogo nascosto» che in latino varia in infernus, 
o inferus, o inferi. Il regno dei defunti — e dei demoni — è sotterraneo. La parola latina infernus o 
inferus significa infatti «ciò che si trova di sotto», in opposizione a superus, «che sta al di sopra». Ci
sono nei due Testamenti altre espressioni similari che indicano lo stesso concetto: pozzo, fossa, 
voragine (Is 38,18; Sal 28,1; Prov 1,12). Fossa «in cui si discende», «perché scavata nelle 
profondità della terra» (Sai 63,10; Ez 26,20; Ap 9,1), ed è formata da abissi così vasti che sono 
inesplorabili per l’uomo: Dio solo ne può misurare l’estensione e la vastità (Gb 26,6).

Geenna era una località presso Gerusalemme che prendeva il nome dall’antico proprietario gebuseo,
Hinnon, preceduto da Ge, valle, donde Ge-Hinnon, «valle di Hinnon». La sua triste reputazione 
derivava dal fatto che era stata il luogo dove si rendeva culto all’idolo Baal-Melek, che vuol dire 
«Baal-ree’, con sacrifici umani specialmente di bambini. L’uso ditali sacrifici e riti nefandi durò 
fino alla cattività babilonese nonostante le forti denunce e condanne dei profeti (Ger 19,4-7). Il Ge-
Hinnon dopo la cattività sarebbe diventato un immondezzaio e un ossario in cui si gettavano i 
cadaveri e le immondizie distrutte con un fuoco quasi continuo. Donde la espressione «Geenna del 
fuoco» o «Geenna ardente»14. Quel luogo d’orrore era diventato il simbolo appropriato delle pene 
future. Gesù io nomina parecchie volte nel vangelo:

«Se uno dice al fratello Maqa sarà condannato alla Geenna (Mt 5,22).

«Se la tua mano ti è cagione di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare monco nella vita che 
andare con le due mani nella geenna, nel fuoco inestinguibile... E se il tuo occhio ti scandalizza, 
strappalo: è meglio per te entrare con un occhio solo nel regno di Dio che essere gettato nella 
geenna con tutti e due» (Mc 9,43-47).

Il Tartaro è di evidente derivazione greca ed è usato una sola volta nel Nuovo Testamento:

«Dio non ha risparmiato gli angeli peccatori ma li ha precipitati nel Tàrtaro (traduzione della CEI: 
“negli abissi tenebrosi dell’inferno”) serbandoli per il giudizio» (2 Pt 2,4).

Spesso il sacro testo parla di «inferi» al plurale, perché nell’antica legge esistevano due inferni, 
l’inferiore e il superiore. L’inferno inferiore è l’abisso che accoglie i demoni e le anime dei dannati. 
E il soggiorno caratterizzato dalla duplice pena del senso e del danno di cui parleremo tra poco. 
L’inferno superiore invece accoglie i giusti ed è chiamato in ebraico Sheòl, in greco Hades, e più 
tardi dai Padri della Chiesa Limbus Patrum, il limbo dei patriarchi. Lo stesso Sheòl è indicato con 
l’espressione «seno di Abramo», immaginando che i giusti, vissuti nella fede di Abramo, siano 
accolti sulle ginocchia del padre dei credenti o rifugiati sotto il suo mantello.

Anche gli abitanti dello Sheòl sono privati della visione di Dio, ma sono sostenuti dalla speranza, 
anzi dalla certezza di arrivarvi un giorno. Le loro tenebre non sono come quelle dei dannati, esse si 
potrebbero definire meglio una penombra. L’anima nel limbo non soffre, vive in una letargia 
pacifica. Nella liturgia romana si prega ancora per coloro che «dormono il sonno della pace». Tutto 
il contrario per coloro che abitano nell’inferno propriamente detto, l’abisso che sta sotto lo Sheòl-
Limbo.

E' facile dedurre dal vangelo che inferno e limbo siano vicini tra loro. Gesù parla del povero 
Lazzaro e del ricco gaudente:

«Un giorno il povero (Lazzaro) morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il 
ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti levò gli occhi e vide di lontano Abramo e 
Lazzaro nel suo seno» (Lc 16,22-24).

San Luca ha vagliato molto bene i termini del suo racconto: il povero Lazzaro è «nel seno di 
Abramo», cioè nello Sheòl, mentre il ricco è all’inferno. Il ricco «alza gli occhi» perché l’inferno è 
più in basso dello Sheòl, tuttavia lo può vedere perché è vicino all’abisso dove si trova.

Le anime dei giusti dell’Antico Testamento trattenute nello Sheòl-Limbo sono state liberate da Gesù
nell’intervallo tra la morte e la risurrezione quando descendit ad inferos, come dice il Simbolo 
apostolico.

E' stata questa «discesa» di Gesù che ha messo fine al regime di attesa che era lo Sheòl. Noi 
saremmo ancora sotto questo regime se non fosse venuto il Salvatore a salvarci. Da che cosa ci ha 
salvati Cristo? Ci ha salvati dall’inferno.

Il Sheòl-Limbo era perciò temporaneo. Quale anticamera del paradiso era destinato a terminare e 
cessare un giorno e a realizzare la speranza e l’attesa di coloro che vi abitavano. L’inferno vero e 
proprio invece è eterno, destinato a durare per sempre senza cessare mai.

L’eternità dell’inferno. Per l’uomo, la cui vita è condizionata e regolata dal tempo, il concetto di 
eternità si presenta come un mistero. L’uomo non capirà mai l’eternità, la quale sfuggirà sempre a 
tutti i suoi computi.

Che l’inferno — come il paradiso — sia eterno non c’è dubbio. I libri sacri parlano chiaramente, e 
ripetutamente, di un «fuoco eterno»:

«Andate maledetti nel fuoco eterno (greco: pjr aionion) che è stato preparato per il diavolo e per gli 
angeli suoi» (Mt 25).

«Il fuoco dell’inferno non si estingue» leggiamo in Marco (Mc 9,43), è «inestinguibile ed eterno» 
(Giud 7), e san Giovanni scrive nell’Apocalisse:

«Il fumo dei loro tormenti s’innalza per i secoli dei secoli e non hanno riposo né di giorno né di 
notte gli adoratori della bestia e della sua immagine» (Ap 14,11).

Tutti i problemi che si presentano al nostro studio si fondano su queste parole, ma gli uomini non 
sono mai a corto di argomenti tutte le volte che si tratta di allontanare dal loro spirito le verità che li 
turbano e li infastidiscono. Fin dai primi del secolo V sant’Agostino si sentiva in dovere di 
confutare certi sofisti i quali, pur riconoscendo che il fuoco dell’inferno è eterno, dicevano che non 
lo sarà la combustione dei dannati. I dannati, dopo un certo periodo di pena, ormai purificati, ne 
usciranno, dicevano i sofisti, equiparando così l’inferno a una specie di purgatorio.

Del resto, oltre i libri ispirati, ci sono le ragioni del cuore che stentano ad accettare l’idea di un 
inferno eterno: perché far durare un’eternità la punizione di un peccato commesso in un tempo 
brevissimo? Come conciliare un castigo eterno con la bontà di un Dio che è Padre? Difficoltà 
sempre vecchia e sempre nuova che vorrebbe opporsi al dogma delle pene eterne. San Giovanni 
Crisostomo cerca di rispondere:

«Per la medesima ragione l’uomo colpevole di un omicidio, commesso in pochissimo tempo, è 
condannato a vita alle miniere... Se la vita in cielo è eterna, anche il suplizio deve essere eterno. Il 
fornicatore, l’adultero, l’uomo che ha commesso milioni di peccati godrà della stessa felicità di cui 
godranno il casto e il santo?»15.

E Agostino incalza:

«Molti considerano come un’ingiustizia che uno sia castigato a castighi eterni per colpe gravi, è 
vero, ma commesse in un breve spazio di tempo: come se la giustizia avesse di mira di punire 
ciascuno nel medesimo spazio di tempo che egli ha impiegato a fare ciò per cui è punito. Alcune 
pene inflitte in questa vita, come l’esilio, la schiavitù, il carcere, avuto riguardo alla brevità di 
questa vita, sembrano pene eterne. Infatti, se non sono eterne, è perché la vita stessa che ne è 
colpita, non dura eternamente»16.

Per eludere questa terribile realtà si è ricorsi a diverse ipotesi: a quella dell’Apokatàstasis t6n 
pànton, la «riabilitazione universale» di Origene, secondo il quale Dio farebbe dia fine dei tempi 
un’amnistia generale; o a quella della reincarnazione secondo le teorie indù, o a quella 
dell’annientamento e della distruzione, teoria dettata dalla disperazione, a cui qualcuno è ricorso.

L’inferno è luogo di tormento e di pena: «In questo luogo di tormenti» dice il ricco ad Abramo (Lc 
16,28). Nell’inferno si trovano i «maledetti» (Mt 25,30), che là troveranno « pianto e lo stridor di 
denti» (Mt 8,12), senza essere mai liberati dai «dolori dell’inferno» (At 2,24). In quest’ultimo passo
la parola usata nell’originale greco è odfnas tou thanàthou, «le doglie del parto che danno la morte».
Come la luce e la gioia sono l’appannaggio degli eletti e costituiscono parte integrante della 
configurazione del cielo, così il demonio vive nelle tenebre. L’opposizione radicale tra gioia e 
dolore, tra luce e tenebre, è la stessa che esiste tra Cristo e satana, principe delle tenebre, di modo 
che il soggiorno degli angeli decaduti non può essere che un abisso tenebroso (1 Pt 2,4) e «da 
quell’abisso si sprigiona un fumo di grande fornace che oscura la faccia del sole» (Ap 9,4).

I tormenti dei demoni sono principalmente due, definiti pena del senso e pena del danno.

— La pena del senso consiste in sofferenze fisiche, la cui natura non è facile determinare perché 
indirizzate a esseri spirituali, non materiali. La pena del senso trova la sua espressione più chiara e 
più comune nel fuoco. Quando si tratta dell’inferno in senso stretto il fuoco è sempre menzionato in 
rapporto alla sua funzione di bruciare e di far soffrire. Il fuoco biblico designa soltanto un dolore 
estremo, l’intensità di misteriosi tormenti. Parlando dell’antico Sheòl i sacri testi insistono più sul 
tormento dei vermi che del fuoco, nel Nuovo Testamento invece si insiste maggiormente, anzi 
esclusivamente, sul fuoco riserbato ai dannati e ai demoni:

«Il retaggio dei molli e degli infedeli, degli esecrandi e degli omicidi, dei fornicatori e degli 
avvelenatori, degli idolatri e di tutti i mentitori, è lo stagno di fuoco e di zolfo che è la seconda 
morte» (Ap 21,8).

Non è detto con ciò che il fuoco dell’inferno possa essere messo sullo stesso piano del fuoco 
materiale che noi conosciamo. Gli si dà il nome di fuoco non perché s’identifichi col nostro fuoco 
terrestre, ma perché presenta con questo una certa analogia, analogia d’altra parte difficile a stabilire
se non nel senso che per i demoni e i dannati è causa di acute sofferenze che si possono paragonare 
alle bruciature prodotte dal fuoco sul nostro organismo. Si tratta di un fuoco reale, non simbolico, di
natura speciale, proprio dell’aldilà, il quale ha la proprietà di non spegnersi mai, di conservare le 
sue vittime invece di consumarle, e di non risplendere. Un fuoco che reca dolore ma non estinzione,
che arde ma non illumina. Le sue bruciature sono dolorose e continue, ma non mortali. I demoni, 
dovunque si trovino, sono sempre immersi in queste fiamme, dalle quali sono inseparabili.

In che modo una realtà materiale può agire su uno spirito? Tra le molte spiegazioni dei teologi 
fermiamoci su iuella di san Tommaso che è la più plausibile e la più rationale. Per sé uno spirito 
puro come il demonio ha, nelle situazioni normali, il potere di agire là dove gli piace nella pienezza della sua intelligenza e della sua volontà, libero da ogni ostacolo corporale. Ora, il fuoco dell’inferno esercita sullo spirito 
reprobo una forza coattiva che ne limita l’attività intellettuale e volitiva. In altre parole il fuoco 
eterno ha un potere di costrizione che lega in un dato luogo gli spiriti perversi e lascia ad essi 
appena quel tanto (li attività spirituale che Dio stima di concedere loro. Castigo terribile per uno 
spirito che non chiede e non cerca che di espandersi nella luce e di vivere intensamente la sua vita 
spirituale.

— La seconda pena dei demoni e dei dannati nell’inferno è quella del danno, cioè la privazione 
della visione di Dio. Il fuoco è la pena sulla quale si insiste di più perché è più facile descriverla, ma
in realtà la pena del danno è molto più grave per i demoni e per i dannati, tanto che se fosse 
possibile avere nell’inferno, anche per un breve tempo, la visione di Dio come si ha in cielo, il 
tormento del fuoco e tutti gli altri tormenti con quello collegati, passerebbero in seconda linea fino 
ad essere del tutto trascurati e dimenticati. A noi, legati ancora al corpo e ai sensi, non è possibile 
concepire l’enorme gravità della perdita della visione di Dio, aspirazione somma di tutti gli esseri 
creati, angeli e uomini. Finché l’uomo è legato alla vita sensitiva, il mondo esteriore lo occupa, lo 
preoccupa, lo soddisfa e gli fa dimenticare Dio, al quale raramente pensa, al quale non sente il 
bisogno di pensare se non in pochi e rari momenti della sua vita. Ma dopo la morte, quando l’anima 
nuda si trova di fronte all’eternità, non è la stessa cosa. L’angelo decaduto, che viene 
dall’esperienza celeste della visione e del godimento di Dio, ora che ne è privo ne sente una 
vivissima, pungente e tormentosissima nostalgia resa ancora più dolorosa dalla certezza che essa 
non avrà mai termine né potrà mai essere appagata.

L’angelo decaduto sa che in Dio sono l’essere, la vita, la bontà, la bellezza, la perfezione assoluta, 
cose tutte che egli ama dal più profondo della sua natura. Egli sa ormai con perfetta evidenza che 
avrebbe potuto possederle tutte e che ora ne è privato per sempre. Questo è causa per lui di grande 
dolore. Ma non dolore di pentimento della sua colpa, cioè in ordine a Dio che sa di avere offeso, ma
solo in ordine a se stesso. Il demonio desidera vedere Dio solo per una soddisfazione propria, per 
rispondere a una esigenza che è superiore a lui e alla quale non può soddisfare altrimenti, che nasce 
dall’egoismo e non dall’amore. Il demonio è incapace di amare. Una volta allontanato da Dio non sa
che ripiegarsi su se stesso, rodersi nel suo odio, chiudersi nel suo egoismo che gli impedisce 
qualunque movimento di amore disinteressato. Non pensa che a sé, non piange che per sé, e il suo 
dolore per la colpa commessa non è altro che la disperazione per aver perduto la propria felicità e 
per sapere di non poterla più riacquistare.

San Giovanni Crisostomo descrive con la sua abituale maestria lo stato delle anime condannate a 
essere «via da lui» e «maledette» nell’inferno; quello che il santo dottore dice dei dannati si può 
applicare pari pari al demonio:

«Dal momento in cui uno è condannato al fuoco, evidente egli perde il regno ed è questa la 
disgrazia più grande. Lo so, molti tremano al solo nome della geenna, ma per me la perdita di quella
gloria superiore è più terribile dei tormenti della geenna. E una cosa intollerabile la geenna, è un 
terribile castigo, ma ci minacciassero mille geenne, non sarebbe niente in confronto della perdita di 
quella gloria che doveva renderci eternamente felici.

Quale supplizio essere oggetto di avversione da parte di Cristo, di sentire dalla sua bocca: Io non vi 
conosco più, essere accusati da lui di non avere voluto dargli da mangiare quando ne aveva 
bisogno! E meglio cadere sotto il colpo di mille folgori piuttosto che vedere quel volto così dolce 
voltarsi via dalla nostra faccia e quell’occhio così sereno guardarci con indignazione!»17.

Inferno, pena del senso, pena del danno, mancanza della visione di Dio, eternità: questo è l’inferno, 
diventato ormai la dimora definitiva del demonio. Ci sono per il demonio gioie nell’inferno? 
Sant’Agostino risponde di sì e ne segnala alcune, non tutte: «Il diavolo gode moltissimo dei peccati 
di lussuria e di idolatria».

Gioie effimere certamente, soffocate e annientate dal cumulo delle altre pene che potranno essere —
anche per i demoni — più o meno gravi o più o meno leggere; ma sempre superiori a quelle di 
questa vita. Le peggiori sofferenze di questa vita, per la ragione che la più leggera delle pene 
dell’aldilà, perché eterne, supera sempre le pene temporali che passano, sono un nulla in confronto 
di quelle. Di più, e pene dell’aldilà si espandono su una vita di cui la vita di questo mondo non 
potrebbe rappresentarci mai tutta l’immensità.

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10 Acacia, rivista massonica, Ottobre 1931.
11 Josef Stimpile, vescovo di Augsburg, in Quaderni di Cristianità, Piacenza, n. 4, 1986, 50.
12 La parolainferno si trova nel Nuovo Testamento 11 volte, la parola geenna 10, la parola tartaro una volta sola.
13 Un altro passo di Giobbe (10,21) che parla dell’inferno è ancora più suggestivo, specialmente nella versione latina della Vulgata: Terram tenebrosam et opertarn mortis caligine, terrarn miseriae et tenebrarum, ubi umbra mortis et nullus ordo, sed sempiternus horror inhabitat.
14 Il francese géne è una contrazione di Géhenne, oggi è sinonimo di scomodit , privazione, disagio. Originariamente indicava il questionario sottoposto agli accusati per strappar loro la confessione; poi, per estensione, le torture usate per ottenere la confessione (C. Spicq O.P., La rivelazione dell’inferno nellaa sacra Scrittura, in L’infèrno, Brescia, Morcelliana, 1953, 87).
15 S. Giovanni Crisostorno, in Epist. ad Romanos, Ornelia 25,5-6.
16 S. Agostino, De Czmtate Dei, libro 21, cap. 11.
17 S. Giovanni Cnsostorno, Commento a Matteo, Omelia 23,7-8.

Paolo Calliari