mercoledì 30 gennaio 2019

L’INFERNO



L’inferno interessa la demonologia in quanto è la sede e dimora abituale dei demoni e dei dannati. 
Per esigenza di tema noi ci interesseremo più dei primi che dei secondi, e dei secondi solo 
indirettamente.

Il demonio è sempre nell’inferno anche quando opera nel corpo degli ossessi o vaga nell’aria, 
secondo quello che dice san Paolo. L’inferno quindi, pur conservando il suo significato etimologico 
di «posto al di sotto», come spiegheremo subito, più che una delimitazione geografica o locale deve 
essere ritenuto una situazione psicologica, ossia lo stato di maledizione e di riprovazione che 
accompagna il demonio eternamente, dovunque e in qualunque istante si trovi, lontano da Dio e 
dalla sua visione, con le pene del senso e del danno che questo allontanamento comporta. Non è 
concepibile infatti che anche per un solo istante la pena dell’inferno sia per il demonio sospesa.

L’inferno, un’idea vaga del quale si riscontra in tutte le religioni, come vedremo, o in forma più 
definita, ma ancora incompleta e imperfetta, nell’Antico Testamento, prende una configurazione 
esatta, quale oggi si trova nella teologia e nella catechesi cattolica, solo nel Nuovo Testamento12.

Nelle mitologie antiche, indiana, persiana, babilonese,egiziana, greca, romana, l’inferno è 
raffigurato quasi sempre come un mondo sotterraneo, ingrato e sterile come un deserto, tuttavia 
popolato e recinto di mura.

È un luogo sempre oscuro e tuttavia in preda al fuoco. Secondo queste mitologie è abitato dai 
dannati e dai demoni, i quali ultimi sarebbero dèi decaduti. Riscontriamo in quelle antiche religioni 
una lontana somiglianza col dogma rivelato nell’Antico Testamento, il che fa vedere una traccia 
delle verità rivelate da Dio alla base delle religioni pagane.

Esiodo nella sua Teogonia descrive la lotta dei titani contro Zeus che trova un certo riscontro con la 
lotta di Michele contro Lucifero:

«I titani erano avvolti da una vampa di fuoco, una immensa fiamma si effondeva per l’etra divina, e 
per quanto gagliardi, essi si sentivano accecati dall’abbagliante guizzo dei lampi e delle folgori. Un 
prodigioso calore ardente invadeva gli spazi» (vv. 695-700).

Il Tartaro nel quale i titani ribelli sono precipitati è situato nelle profondità della terra ed è 
strutturato in modo che i condannati non ne possano uscire:

«Attorno a questo luogo si estende un recinto di bronzo. La notte circonda di un triplice giro il suo 
stretto passaggio. Là sono immersi nella caligine oscura i titani divini per volere di Zeus adunatore 
di nembi. Per essi non c’è uscita possibile: Poseidone vi ha messo porte di bronzo e un bastione 
cinge il luogo da ogni parte» (vv. 726-733).

Le stesse immagini, più o meno, ricorrono nelle teogonie e mitologie indiane, babilonesi, omeriche, 
talmudiche, virgiliane.

Secondo Omero, Ulisse scende nell’inferno e vi incontra molti trapassati «che dormono nella 
morte», e secondo Virgilio, Enea, guidato dalla Sibilla, entra in un’oscura regione coperta di paludi 
e di fiumi, lo Stige, il Cocito, l’Acheronte, e vi trova Minosse, il giudice dei morti, e poi i Campi 
Elisi e finalmente il Tartaro. Là Enea incontra i grandi criminali della storia. Non sono gli dèi 
infernali, Plutone e Proserpina, i loro tormentatori. Essi se ne stanno lontani, non hanno nessun 
contatto coi dannati. I castighi vengono inflitti da una folla mostruosa di personaggi misteriosi, le 
Furie, le Eumenidi, le Arpie, una folla di nere divinità che si accaniscono contro i criminali.

Per la mitologia pagana l’inferno non è eterno. È importante sottolineare che in tutte le concezioni 
pagane l’inferno si presenta come una prova temporanea seguita o da reincarnazione o da ascesa 
verso una zona felice dell’aldilà. In questi casi quello che è chiamato inferno non sarebbe che una 
forma di purgatorio. Questa concezione temporanea e transitoria dell’inferno manca del tutto nei 
libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.

L’inferno, o Tartaro, nei libri sacri è sempre posto in basso e circondato di oscurità. Prega Giobbe:

«Lasciami dunque riposare un poco prima che io me ne vada, per non più tornare, al luogo 
tenebroso coperto dalla caligine di morte, alla regione delle ombre nere come la notte, tenebre senza
mezzogiorno e dove il chiarore è come l’ombra» (Gb 10,20 ss).

Nella lingua greca — e nella traduzione greca della Bibbia — l’inferno è chiamato Hades, Ade, cioè
«l’invisibile», «il luogo dove non si è visti». Nel Nuovo Testamento si parla di «tenebre esteriori» e 
nell’epistola di Giuda e nella seconda lettera di san Pietro di «tenebre profonde».

Altri elementi che si aggiungono alle tenebre sono i vermi. Le carni morte diventano preda dei 
vermi, e i vermi avviluppano e divorano le vittime:

«Sotto dite i vermi sono distesi come un letto — scrive Isaia — e i vermi ti faranno da coperta» (Is 
14,11).

E Giobbe con maggiore verismo:

«Se aspetto, lo Sheòl sarà la mia dimora; nelle tenebre stenderò il mio letto; dirò alla putredine: tu 
sei mio padre, e ai vermi: voi siete mia madre e mia sorella» (Gb17,13-14)13.

Il salmo chiama l’inferno «la terra del silenzio» (Sal. 94,17).

L’inferno è insomma un soggiorno di tristezza e di infelicità che ispira a tutti i vivi un istintivo 
terrore come quello di un mostro che ingoia la sua preda.

L’inferno — abbiamo detto — prende la sua configurazione più precisa e definitiva nel Nuovo 
Testamento dove la dimora dei dannati e dei demoni è chiamata alternativamente Inferno, Geenna, 
Tartaro, Ade.

Inferno è la traduzione della parola ebraica Scheòl, «luogo nascosto» che in latino varia in infernus, 
o inferus, o inferi. Il regno dei defunti — e dei demoni — è sotterraneo. La parola latina infernus o 
inferus significa infatti «ciò che si trova di sotto», in opposizione a superus, «che sta al di sopra». Ci
sono nei due Testamenti altre espressioni similari che indicano lo stesso concetto: pozzo, fossa, 
voragine (Is 38,18; Sal 28,1; Prov 1,12). Fossa «in cui si discende», «perché scavata nelle 
profondità della terra» (Sai 63,10; Ez 26,20; Ap 9,1), ed è formata da abissi così vasti che sono 
inesplorabili per l’uomo: Dio solo ne può misurare l’estensione e la vastità (Gb 26,6).

Geenna era una località presso Gerusalemme che prendeva il nome dall’antico proprietario gebuseo,
Hinnon, preceduto da Ge, valle, donde Ge-Hinnon, «valle di Hinnon». La sua triste reputazione 
derivava dal fatto che era stata il luogo dove si rendeva culto all’idolo Baal-Melek, che vuol dire 
«Baal-ree’, con sacrifici umani specialmente di bambini. L’uso ditali sacrifici e riti nefandi durò 
fino alla cattività babilonese nonostante le forti denunce e condanne dei profeti (Ger 19,4-7). Il Ge-
Hinnon dopo la cattività sarebbe diventato un immondezzaio e un ossario in cui si gettavano i 
cadaveri e le immondizie distrutte con un fuoco quasi continuo. Donde la espressione «Geenna del 
fuoco» o «Geenna ardente»14. Quel luogo d’orrore era diventato il simbolo appropriato delle pene 
future. Gesù io nomina parecchie volte nel vangelo:

«Se uno dice al fratello Maqa sarà condannato alla Geenna (Mt 5,22).

«Se la tua mano ti è cagione di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare monco nella vita che 
andare con le due mani nella geenna, nel fuoco inestinguibile... E se il tuo occhio ti scandalizza, 
strappalo: è meglio per te entrare con un occhio solo nel regno di Dio che essere gettato nella 
geenna con tutti e due» (Mc 9,43-47).

Il Tartaro è di evidente derivazione greca ed è usato una sola volta nel Nuovo Testamento:

«Dio non ha risparmiato gli angeli peccatori ma li ha precipitati nel Tàrtaro (traduzione della CEI: 
“negli abissi tenebrosi dell’inferno”) serbandoli per il giudizio» (2 Pt 2,4).

Spesso il sacro testo parla di «inferi» al plurale, perché nell’antica legge esistevano due inferni, 
l’inferiore e il superiore. L’inferno inferiore è l’abisso che accoglie i demoni e le anime dei dannati. 
E il soggiorno caratterizzato dalla duplice pena del senso e del danno di cui parleremo tra poco. 
L’inferno superiore invece accoglie i giusti ed è chiamato in ebraico Sheòl, in greco Hades, e più 
tardi dai Padri della Chiesa Limbus Patrum, il limbo dei patriarchi. Lo stesso Sheòl è indicato con 
l’espressione «seno di Abramo», immaginando che i giusti, vissuti nella fede di Abramo, siano 
accolti sulle ginocchia del padre dei credenti o rifugiati sotto il suo mantello.

Anche gli abitanti dello Sheòl sono privati della visione di Dio, ma sono sostenuti dalla speranza, 
anzi dalla certezza di arrivarvi un giorno. Le loro tenebre non sono come quelle dei dannati, esse si 
potrebbero definire meglio una penombra. L’anima nel limbo non soffre, vive in una letargia 
pacifica. Nella liturgia romana si prega ancora per coloro che «dormono il sonno della pace». Tutto 
il contrario per coloro che abitano nell’inferno propriamente detto, l’abisso che sta sotto lo Sheòl-
Limbo.

E' facile dedurre dal vangelo che inferno e limbo siano vicini tra loro. Gesù parla del povero 
Lazzaro e del ricco gaudente:

«Un giorno il povero (Lazzaro) morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il 
ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti levò gli occhi e vide di lontano Abramo e 
Lazzaro nel suo seno» (Lc 16,22-24).

San Luca ha vagliato molto bene i termini del suo racconto: il povero Lazzaro è «nel seno di 
Abramo», cioè nello Sheòl, mentre il ricco è all’inferno. Il ricco «alza gli occhi» perché l’inferno è 
più in basso dello Sheòl, tuttavia lo può vedere perché è vicino all’abisso dove si trova.

Le anime dei giusti dell’Antico Testamento trattenute nello Sheòl-Limbo sono state liberate da Gesù
nell’intervallo tra la morte e la risurrezione quando descendit ad inferos, come dice il Simbolo 
apostolico.

E' stata questa «discesa» di Gesù che ha messo fine al regime di attesa che era lo Sheòl. Noi 
saremmo ancora sotto questo regime se non fosse venuto il Salvatore a salvarci. Da che cosa ci ha 
salvati Cristo? Ci ha salvati dall’inferno.

Il Sheòl-Limbo era perciò temporaneo. Quale anticamera del paradiso era destinato a terminare e 
cessare un giorno e a realizzare la speranza e l’attesa di coloro che vi abitavano. L’inferno vero e 
proprio invece è eterno, destinato a durare per sempre senza cessare mai.

L’eternità dell’inferno. Per l’uomo, la cui vita è condizionata e regolata dal tempo, il concetto di 
eternità si presenta come un mistero. L’uomo non capirà mai l’eternità, la quale sfuggirà sempre a 
tutti i suoi computi.

Che l’inferno — come il paradiso — sia eterno non c’è dubbio. I libri sacri parlano chiaramente, e 
ripetutamente, di un «fuoco eterno»:

«Andate maledetti nel fuoco eterno (greco: pjr aionion) che è stato preparato per il diavolo e per gli 
angeli suoi» (Mt 25).

«Il fuoco dell’inferno non si estingue» leggiamo in Marco (Mc 9,43), è «inestinguibile ed eterno» 
(Giud 7), e san Giovanni scrive nell’Apocalisse:

«Il fumo dei loro tormenti s’innalza per i secoli dei secoli e non hanno riposo né di giorno né di 
notte gli adoratori della bestia e della sua immagine» (Ap 14,11).

Tutti i problemi che si presentano al nostro studio si fondano su queste parole, ma gli uomini non 
sono mai a corto di argomenti tutte le volte che si tratta di allontanare dal loro spirito le verità che li 
turbano e li infastidiscono. Fin dai primi del secolo V sant’Agostino si sentiva in dovere di 
confutare certi sofisti i quali, pur riconoscendo che il fuoco dell’inferno è eterno, dicevano che non 
lo sarà la combustione dei dannati. I dannati, dopo un certo periodo di pena, ormai purificati, ne 
usciranno, dicevano i sofisti, equiparando così l’inferno a una specie di purgatorio.

Del resto, oltre i libri ispirati, ci sono le ragioni del cuore che stentano ad accettare l’idea di un 
inferno eterno: perché far durare un’eternità la punizione di un peccato commesso in un tempo 
brevissimo? Come conciliare un castigo eterno con la bontà di un Dio che è Padre? Difficoltà 
sempre vecchia e sempre nuova che vorrebbe opporsi al dogma delle pene eterne. San Giovanni 
Crisostomo cerca di rispondere:

«Per la medesima ragione l’uomo colpevole di un omicidio, commesso in pochissimo tempo, è 
condannato a vita alle miniere... Se la vita in cielo è eterna, anche il suplizio deve essere eterno. Il 
fornicatore, l’adultero, l’uomo che ha commesso milioni di peccati godrà della stessa felicità di cui 
godranno il casto e il santo?»15.

E Agostino incalza:

«Molti considerano come un’ingiustizia che uno sia castigato a castighi eterni per colpe gravi, è 
vero, ma commesse in un breve spazio di tempo: come se la giustizia avesse di mira di punire 
ciascuno nel medesimo spazio di tempo che egli ha impiegato a fare ciò per cui è punito. Alcune 
pene inflitte in questa vita, come l’esilio, la schiavitù, il carcere, avuto riguardo alla brevità di 
questa vita, sembrano pene eterne. Infatti, se non sono eterne, è perché la vita stessa che ne è 
colpita, non dura eternamente»16.

Per eludere questa terribile realtà si è ricorsi a diverse ipotesi: a quella dell’Apokatàstasis t6n 
pànton, la «riabilitazione universale» di Origene, secondo il quale Dio farebbe dia fine dei tempi 
un’amnistia generale; o a quella della reincarnazione secondo le teorie indù, o a quella 
dell’annientamento e della distruzione, teoria dettata dalla disperazione, a cui qualcuno è ricorso.

L’inferno è luogo di tormento e di pena: «In questo luogo di tormenti» dice il ricco ad Abramo (Lc 
16,28). Nell’inferno si trovano i «maledetti» (Mt 25,30), che là troveranno « pianto e lo stridor di 
denti» (Mt 8,12), senza essere mai liberati dai «dolori dell’inferno» (At 2,24). In quest’ultimo passo
la parola usata nell’originale greco è odfnas tou thanàthou, «le doglie del parto che danno la morte».
Come la luce e la gioia sono l’appannaggio degli eletti e costituiscono parte integrante della 
configurazione del cielo, così il demonio vive nelle tenebre. L’opposizione radicale tra gioia e 
dolore, tra luce e tenebre, è la stessa che esiste tra Cristo e satana, principe delle tenebre, di modo 
che il soggiorno degli angeli decaduti non può essere che un abisso tenebroso (1 Pt 2,4) e «da 
quell’abisso si sprigiona un fumo di grande fornace che oscura la faccia del sole» (Ap 9,4).

I tormenti dei demoni sono principalmente due, definiti pena del senso e pena del danno.

— La pena del senso consiste in sofferenze fisiche, la cui natura non è facile determinare perché 
indirizzate a esseri spirituali, non materiali. La pena del senso trova la sua espressione più chiara e 
più comune nel fuoco. Quando si tratta dell’inferno in senso stretto il fuoco è sempre menzionato in 
rapporto alla sua funzione di bruciare e di far soffrire. Il fuoco biblico designa soltanto un dolore 
estremo, l’intensità di misteriosi tormenti. Parlando dell’antico Sheòl i sacri testi insistono più sul 
tormento dei vermi che del fuoco, nel Nuovo Testamento invece si insiste maggiormente, anzi 
esclusivamente, sul fuoco riserbato ai dannati e ai demoni:

«Il retaggio dei molli e degli infedeli, degli esecrandi e degli omicidi, dei fornicatori e degli 
avvelenatori, degli idolatri e di tutti i mentitori, è lo stagno di fuoco e di zolfo che è la seconda 
morte» (Ap 21,8).

Non è detto con ciò che il fuoco dell’inferno possa essere messo sullo stesso piano del fuoco 
materiale che noi conosciamo. Gli si dà il nome di fuoco non perché s’identifichi col nostro fuoco 
terrestre, ma perché presenta con questo una certa analogia, analogia d’altra parte difficile a stabilire
se non nel senso che per i demoni e i dannati è causa di acute sofferenze che si possono paragonare 
alle bruciature prodotte dal fuoco sul nostro organismo. Si tratta di un fuoco reale, non simbolico, di
natura speciale, proprio dell’aldilà, il quale ha la proprietà di non spegnersi mai, di conservare le 
sue vittime invece di consumarle, e di non risplendere. Un fuoco che reca dolore ma non estinzione,
che arde ma non illumina. Le sue bruciature sono dolorose e continue, ma non mortali. I demoni, 
dovunque si trovino, sono sempre immersi in queste fiamme, dalle quali sono inseparabili.

In che modo una realtà materiale può agire su uno spirito? Tra le molte spiegazioni dei teologi 
fermiamoci su iuella di san Tommaso che è la più plausibile e la più rationale. Per sé uno spirito 
puro come il demonio ha, nelle situazioni normali, il potere di agire là dove gli piace nella pienezza della sua intelligenza e della sua volontà, libero da ogni ostacolo corporale. Ora, il fuoco dell’inferno esercita sullo spirito 
reprobo una forza coattiva che ne limita l’attività intellettuale e volitiva. In altre parole il fuoco 
eterno ha un potere di costrizione che lega in un dato luogo gli spiriti perversi e lascia ad essi 
appena quel tanto (li attività spirituale che Dio stima di concedere loro. Castigo terribile per uno 
spirito che non chiede e non cerca che di espandersi nella luce e di vivere intensamente la sua vita 
spirituale.

— La seconda pena dei demoni e dei dannati nell’inferno è quella del danno, cioè la privazione 
della visione di Dio. Il fuoco è la pena sulla quale si insiste di più perché è più facile descriverla, ma
in realtà la pena del danno è molto più grave per i demoni e per i dannati, tanto che se fosse 
possibile avere nell’inferno, anche per un breve tempo, la visione di Dio come si ha in cielo, il 
tormento del fuoco e tutti gli altri tormenti con quello collegati, passerebbero in seconda linea fino 
ad essere del tutto trascurati e dimenticati. A noi, legati ancora al corpo e ai sensi, non è possibile 
concepire l’enorme gravità della perdita della visione di Dio, aspirazione somma di tutti gli esseri 
creati, angeli e uomini. Finché l’uomo è legato alla vita sensitiva, il mondo esteriore lo occupa, lo 
preoccupa, lo soddisfa e gli fa dimenticare Dio, al quale raramente pensa, al quale non sente il 
bisogno di pensare se non in pochi e rari momenti della sua vita. Ma dopo la morte, quando l’anima 
nuda si trova di fronte all’eternità, non è la stessa cosa. L’angelo decaduto, che viene 
dall’esperienza celeste della visione e del godimento di Dio, ora che ne è privo ne sente una 
vivissima, pungente e tormentosissima nostalgia resa ancora più dolorosa dalla certezza che essa 
non avrà mai termine né potrà mai essere appagata.

L’angelo decaduto sa che in Dio sono l’essere, la vita, la bontà, la bellezza, la perfezione assoluta, 
cose tutte che egli ama dal più profondo della sua natura. Egli sa ormai con perfetta evidenza che 
avrebbe potuto possederle tutte e che ora ne è privato per sempre. Questo è causa per lui di grande 
dolore. Ma non dolore di pentimento della sua colpa, cioè in ordine a Dio che sa di avere offeso, ma
solo in ordine a se stesso. Il demonio desidera vedere Dio solo per una soddisfazione propria, per 
rispondere a una esigenza che è superiore a lui e alla quale non può soddisfare altrimenti, che nasce 
dall’egoismo e non dall’amore. Il demonio è incapace di amare. Una volta allontanato da Dio non sa
che ripiegarsi su se stesso, rodersi nel suo odio, chiudersi nel suo egoismo che gli impedisce 
qualunque movimento di amore disinteressato. Non pensa che a sé, non piange che per sé, e il suo 
dolore per la colpa commessa non è altro che la disperazione per aver perduto la propria felicità e 
per sapere di non poterla più riacquistare.

San Giovanni Crisostomo descrive con la sua abituale maestria lo stato delle anime condannate a 
essere «via da lui» e «maledette» nell’inferno; quello che il santo dottore dice dei dannati si può 
applicare pari pari al demonio:

«Dal momento in cui uno è condannato al fuoco, evidente egli perde il regno ed è questa la 
disgrazia più grande. Lo so, molti tremano al solo nome della geenna, ma per me la perdita di quella
gloria superiore è più terribile dei tormenti della geenna. E una cosa intollerabile la geenna, è un 
terribile castigo, ma ci minacciassero mille geenne, non sarebbe niente in confronto della perdita di 
quella gloria che doveva renderci eternamente felici.

Quale supplizio essere oggetto di avversione da parte di Cristo, di sentire dalla sua bocca: Io non vi 
conosco più, essere accusati da lui di non avere voluto dargli da mangiare quando ne aveva 
bisogno! E meglio cadere sotto il colpo di mille folgori piuttosto che vedere quel volto così dolce 
voltarsi via dalla nostra faccia e quell’occhio così sereno guardarci con indignazione!»17.

Inferno, pena del senso, pena del danno, mancanza della visione di Dio, eternità: questo è l’inferno, 
diventato ormai la dimora definitiva del demonio. Ci sono per il demonio gioie nell’inferno? 
Sant’Agostino risponde di sì e ne segnala alcune, non tutte: «Il diavolo gode moltissimo dei peccati 
di lussuria e di idolatria».

Gioie effimere certamente, soffocate e annientate dal cumulo delle altre pene che potranno essere —
anche per i demoni — più o meno gravi o più o meno leggere; ma sempre superiori a quelle di 
questa vita. Le peggiori sofferenze di questa vita, per la ragione che la più leggera delle pene 
dell’aldilà, perché eterne, supera sempre le pene temporali che passano, sono un nulla in confronto 
di quelle. Di più, e pene dell’aldilà si espandono su una vita di cui la vita di questo mondo non 
potrebbe rappresentarci mai tutta l’immensità.

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10 Acacia, rivista massonica, Ottobre 1931.
11 Josef Stimpile, vescovo di Augsburg, in Quaderni di Cristianità, Piacenza, n. 4, 1986, 50.
12 La parolainferno si trova nel Nuovo Testamento 11 volte, la parola geenna 10, la parola tartaro una volta sola.
13 Un altro passo di Giobbe (10,21) che parla dell’inferno è ancora più suggestivo, specialmente nella versione latina della Vulgata: Terram tenebrosam et opertarn mortis caligine, terrarn miseriae et tenebrarum, ubi umbra mortis et nullus ordo, sed sempiternus horror inhabitat.
14 Il francese géne è una contrazione di Géhenne, oggi è sinonimo di scomodit , privazione, disagio. Originariamente indicava il questionario sottoposto agli accusati per strappar loro la confessione; poi, per estensione, le torture usate per ottenere la confessione (C. Spicq O.P., La rivelazione dell’inferno nellaa sacra Scrittura, in L’infèrno, Brescia, Morcelliana, 1953, 87).
15 S. Giovanni Crisostorno, in Epist. ad Romanos, Ornelia 25,5-6.
16 S. Agostino, De Czmtate Dei, libro 21, cap. 11.
17 S. Giovanni Cnsostorno, Commento a Matteo, Omelia 23,7-8.

Paolo Calliari

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