sabato 28 marzo 2020

La battaglia continua



LA LINGUA LATINA

L’abbandono della lingua latina, come lingua della Chiesa, avvenne il 30 novembre 1969, quando ebbe inizio - obbligatorio! - l’uso del “Missale Romanum Novi Ordinis”; da allora cessò, praticamente, di esistere in tutti i Riti della Liturgia, cominciando dal rito stesso della santa Messa.
L’enciclica “Mediator Dei” di Pio XII ne aveva già parlato, denunciando le gravissime conseguenze dell’abbandono della lingua latina in Liturgia, ma il Vaticano II, con deliberato proposito, le ignorò, sapendo bene dove si doveva arrivare.
Ecco cosa scrisse Pio XII nella sua “Mediator Dei”:

«... È severamente da riprovarsi il temerario ardimento di coloro che, di proposito, introducono nuove consuetudini liturgiche».
«Così, non senza grande dolore, sappiamo che accade non soltanto in cose di poca, ma anche di gravissima importanza. Non manca, difatti, chi usa la lingua volgare nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico; chi trasferisce ad altri tempi, feste fissate già per ponderate ragioni...».
«L’uso della lingua latina, come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina...».

Anche nella sua “Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale” aveva detto:

«Da parte della Chiesa, la liturgia attuale esige una preoccupazione di progresso, ma anche di conservazione e di difesa;.. crea del nuovo nelle cerimonie stesse, nell’uso della lingua volgare, nel canto popolare... Sarebbe, tuttavia, superfluo ricordare, ancora una volta, che la Chiesa ha serie ragioni per conservare fermamente, nel rito latino, l’obbligo incondizionato, per il Sacerdote Celebrante, di usare la lingua latina, come pure di esigere, quando il canto gregoriano accompagna il Santo Sacrificio, che questo si faccia nella lingua della Chiesa...».

Ma il Vaticano II fu di parere diverso. Il problema della lingua latina fu deciso con l’art. 36 della “Commissione Liturgica”, mediante quattro paragrafi, i due ultimi dei quali distruggono ciò che il primo aveva garantito, impegnando la parola solenne del Concilio! Ecco il contenuto dell’intero capitolo 36:

1) “l’uso della lingua latina sia conservato nei riti...”;
2) “... si possa concedere l’uso della lingua volgare in alcune preghiere, in alcuni canti, ... ecc.”;
3) le forme e le misure erano lasciate alla discrezione e decisione delle Autorità ecclesiastiche territoriali;
4) ma finisce con annullare, praticamente, tutto!..

Il testo della prima “Instructio, art. 57: Inter Oecum. Concilii”, dichiarava che la competente Autorità territoriale poteva introdurre il volgare in tutte le parti della Messa (escluso il Canone). Ma, ad avvilire anche il Canone ci pensò un’altra “Instructio”, la “Tres abhinc annos” con l’art. 28,
in cui si legge:

«la competente Autorità ecclesiastica territoriale, osservando quanto prescrive l’art. 36, par. 3° e 4° della Costituzione Liturgica, può stabilire che la lingua parlata possa usarsi anche nel Canone della Messa...».

Quindi, con l’art. 57 della “Inter Oecum. Conc.”, la competente Autorità territoriale poteva chiedere al Papa la facoltà di “violare” i confini segnati dall’art. 36 della Costituzione Liturgica! Una “violazione” che, de facto, si considerava “una corretta esecuzione della legge”!.. La “tres abhinc annos”, invece, saltò lo steccato allegramente, come si espresse, infatti, con un linguaggio da caserma, Mons. Antonelli, il 20 febbraio 1968:

«Con la recita del Canone in lingua italiana, decisa dalla Conferenza Episcopale Italiana... l’ultimo baluardo della Messa in latino... viene a crollare».

Così, mentre la lingua araba è tuttora il veicolo dell’islamizzazione che tiene uniti i musulmani nella loro fede e li spinge contro i cristiani d’ogni paese, al contrario, la soppressione della lingua latina nella Chiesa cattolica fu il “delitto perfetto” di Paolo VI col quale infranse l’unione di tutto il popolo cristiano proprio nella loro unica vera Fede! I modernisti, così, poterono benedire il Vaticano II per aver ottenuto questo, e in maniera “ch’era follìa sperar”! (Manzoni).
Con questo ennesimo atto fraudolento, Paolo VI veniva a “canonizzare” le istanze ereticali del Conciliabolo di Pistoia, condannate da Pio VI con la Bolla “Auctorem fidei”, e da Pio XII con la “Mediator Dei”!..
Il “MODERNISMO”, con Paolo VI, era salito al potere, nonostante che la Tradizione e il Diritto canonico fossero contro la riforma liturgica. Difatti, la “Costituzione Liturgica” conteneva obblighi e impegni solenni:

1) L’uso della lingua latina nei Riti Latini, rimane la norma, non la eccezione (Art. 36, paragrafo 1°);
2) L’art. 54, comma 2°, vuole che i sacerdoti abbiano a “provvedere” (“provideatur”) che i fedeli sappiano cantare e recitare, anche in lingua latina, le parti dello “Ordinario”.
3) L’art. 114 fa obbligo, anche ai Vescovi, di conservare il patrimonio della musica sacra tradizionale, e di tenere fiorenti le “scholae cantorum” per la esecuzione di quella musica della Tradizione.
4) L’art. 116 fa obbligo “di dare la preminenza” al canto gregoriano.

Quindi, ogni singola legge esecutiva delle Conferenza Episcopali doveva essere eseguita - per obbligo “sub gravi”! - da ogni Autorità a tutti i livelli; un obbligo che avevano assunto con “giuramento”, indicato da Paolo VI in data 4 dicembre 1963, quando firmò la “Costituzione Liturgica”, scrivendo: “In Spiritu Sancto approbamus” - “omnia et singula, quae in hac costitutione Constituzione edicta sunt”. Quindi, furono illegittime le disposizioni arbitrarie della Conferenza Episcopale, come quella dell’uso volgare nella Messa, appunto perché tale facoltà era negata dal testo del par. 3 dell’art. 36:

«spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale... decidere circa la “ammissione” (quindi, non circa l’obbligo!)la “estensione” (ma solo come concessione, non “obbligo” di adottarla!) della lingua volgare».

A render più manifesto l’abuso di potere da parte dell’Episcopato del Vaticano II, ci sarebbe il Canone 9 della Sessione XXII del Concilio di Trento che dice:

«Si quis dixerit lingua tantum vulgari celebrari debet... anathema sit!».

Ora, questa “scomunica” non fu mai abrogata, né lo poteva essere, in quanto l’uso della lingua latina, da parte del sacerdote celebrante, è obbligatorio per evitare un sicuro pericolo di corruzione della dottrina sul mistero del Sacrificio Eucaristico1.

È certo, ormai, che il testo dell’Offertorio e delle tre Preci Eucaristiche dei Canoni, aggiunti al Canone Romano Antico, è infetto di formule che si possono dire “eretiche”.
Ad esempio: la formula, in lingua italiana, della Consacrazione della specie del vino nel Calice - ove la traduzione è a doppio titolo - si legge: “Qui pro vobis, et pro multis, effundetur” (tempo futuro semplice, forma passiva = a: “sarà sparso”), la CEI, invece, ha fatto tradurre: “È il Sangue... sparso (participio passato) per voi e per tutti”.
Ora, questa traduzione della CEI del “pro multis effundetur” in “sparso... per tutti”, è un’offesa all’intelligenza dei preti - che dovrebbero sapere anche di “latino”! - ma, soprattutto, è un’offesa a Cristo che, “pridie cum pateretur”
(cioè, quando istituì il sacrificio della Messa) non poteva dire:
“Prendete e bevete, questo è il Mio Sangue, sparso per voi”, perché era ancora da spargere!
Quid dicendum, allora?.. Come non porsi il gravissimo problema di coscienza che ne è scaturito? Papa Innocenzo XI, condannando 65 proposizioni contenenti altrettanti “errori” di morale lassa, stabilì anche il principio - obbligante la coscienza “sub gravi”! - che non è lecito seguire un’opinione solamente probabile, bensì è necessario seguire la sentenza più sicura quando si tratta della validità dei Sacramenti. Ora, la Messa contiene il problema dogmatico della Consacrazione! Come non porsi anche questo problema della “traduzione” dal latino in italiano (e nelle altre lingue volgari), tanto più che l’art. 40 della Instructio “Inter Oecum. Concilii” dice chiaramente:

«Le traduzioni dei testi liturgici si facciano sul testo Liturgico Latino»!..

Ci riempie di stupore anche il modo in cui fu tradotto, e poi imposto dalle Conferenze Episcopali di recitare in volgare, durante la Consacrazione delle sacre specie, anche il testo della formula consacratoria, che, in luogo di “... Corpus meum, quod pro vobis tradetur” (= a: per voi tradito, o consegnato), fu tradotto: “mio Corpo, per voi offerto” (participio passato, che indica solo un ricordo, un “memoriale”, ma che è smentito dal “pridie quam pateretur”, per cui il participio passato non avrebbe senso!).
Peggio ancora nella formula di consacrazione del Calice: In luogo di: “... Sanguinis mei... qui pro vobis et pro multis effundetur”, fu messa la traduzione: “Questo è il Calice del mio Sangue”... poi, viene ripetuta di nuovo la parola:
Sangue, ma che non c’è nel testo latino corrispondente. “È il Sangue... sparso” (participio passato, in luogo del tempo futuro: sarà sparso: “effundetur”), “per voi e per tutti” (in luogo di “per voi e per molti” (del corrispondente testo latino, riconfermato anche dalla Costituzione Apostolica di Paolo VI!).
Anche qui, allora, ci possiamo avvalere del diritto che ci conferisce lo stesso Vaticano II, al cap. 2 della “Declaratio de libertate religiosa”, secondo la quale

«... in materia religiosa, nessuno sia sforzato ad agire contro la sua coscienza, né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa coscienza... privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata...».

Perciò, chi è fedele alla Tradizione, “in rebus maximi momenti”, secondo la legge liturgica pre-conciliare, è certamente dentro i “debiti limiti”, più e meglio di chi sta, al contrario, dentro l’altra linea post-conciliare!

sac. dott. Luigi Villa 

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