Nell’epoca del coronavirus, si può parlare di tutto, ma ci sono certi temi che continuano a restare proibiti, soprattutto nel mondo cattolico. Il principale di questi temi forse è quello del giudizio e della retribuzione divina nella storia. L’esistenza di questa censura è una buona ragione per affrontare l’argomento.
Il Regno di Dio e la Sua giustizia
Non parto dall’Antico Testamento, dove i riferimenti ai castighi divini sono innumerevoli, ma dalle parole stesse di Nostro Signore che ci dice: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù” (Mt. 6, 31-33).
Queste parole del Vangelo sono un programma di vita per ognuno e ci ricordano una delle beatitudini: “Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati” (Mt, 5, 6).
La nozione di giustizia è una delle prime nozioni morali della nostra ragione: i filosofi la definiscono come l’inclinazione della volontà a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto. L’anelito alla giustizia è nel cuore di ogni uomo. Noi non cerchiamo solo ciò che è vero, buono, bello, ma anche ciò che è giusto. Tutti amano la giustizia e detestano l’ingiustizia. E poiché il mondo è colmo di ingiustizie e la giustizia umana, quella amministrata dai tribunali, è imperfetta, noi aspiriamo a una giustizia perfetta, che sulla terra non esiste, e che solo in Dio possiamo trovare.
Il più celebre processo della storia, quello a Nostro Signore Gesù Cristo, sancì la più clamorosa ingiustizia di tutti i tempi. Ma Dio è infinitamente giusto, perché dà infallibilmente a ciascuno il suo. La bellezza dell’universo sta nel suo ordine e l’ordine è il regno della giustizia, perché l’ordine è dare a ogni cosa il suo posto e la giustizia è dare a ciascuno il suo: unicuique suum, come stabiliva il diritto romano.
L’infinita giustizia di Dio
L’infinita giustizia di Dio ha la sua suprema manifestazione in due diversi giudizi che attendono l’uomo al termine della sua vita: il giudizio particolare, a cui è sottoposta ogni anima al momento della morte, e il giudizio universale, a cui saranno sottoposti tutti gli uomini, in anima e corpo, dopo la fine del mondo.
E’ fede della Chiesa: al temine della propria vita ogni uomo si presenta davanti a Dio, Signore e Giudice supremo, per riceverne il premio o il castigo. Per questo l’Ecclesiastico dice: Memor est judicii mei, sic enim erit et tuum (Eccl. 38). Ricordati del mio giudizio se vuoi anche tu imparare a giudicare bene.
Nel giudizio particolare, spiega il padre Garrigou-Lagrange, l’anima capisce spiritualmente di essere giudicata da Dio e sotto la luce divina la sua coscienza pronuncia lo stesso giudizio divino. “Questo accade nel primo istante in cui l’anima è separata dal corpo, cosicché tanto è vero dire di una persona che è morta, quanto è vero dire che è giudicata” (1). La sentenza è definitiva e l’esecuzione della sentenza è immediata.
Il giudizio di Dio è diverso da quello degli uomini. E’ celebre il caso di Raymond Diacres, celebre professore della Sorbona, morto nell’anno 1082. Tra i presenti al suo funerale, nella chiesa di Notre Dame di Parigi, vi era una moltitudine di persone, tra cui il suo allievo san Bruno di Colonia. Durante la cerimonia avvenne un fatto sconvolgente, esaminato in tutti i particolari dagli studiosi Bollandisti.
La salma era collocata nel mezzo della navata centrale, coperta, secondo l’uso di quel tempo, da un semplice velo. Cominciate le esequie, allorché il sacerdote disse le parole del rito: “Rispondimi: quante iniquità e peccati hai…?”, si udì una voce sepolcrale uscire da sotto il velo funebre: “Per giusto giudizio di Dio sono stato accusato!”.
Fu tolto subito il drappo mortuario, ma si trovò il defunto immobile e freddo. La funzione, improvvisamente interrotta, fu subito ripresa fra il turbamento generale. La domanda fu ripetuta e il defunto gridò con voce ancora più forte di prima: “Per giusto giudizio di Dio sono stato giudicato!”.
Lo spavento dei presenti giunse al colmo. Alcuni medici si avvicinarono al cadavere e constatarono che era veramente morto. Tra lo spavento e lo sconcerto generale, le autorità ecclesiastiche decisero di rimandare il funerale al giorno successivo.
II giorno seguente fu ripetuto l’ufficio funebre, ma giunti alla stessa frase prevista dal rito: “Rispondimi: quante iniquità e peccati hai…?”. Il cadavere si alzò da sotto il velo funebre e gridò: “Per giusto giudizio di Dio sono stato condannato all’inferno per sempre!” (2).
Davanti a questa terribile testimonianza, cessarono i funerali e si decise di non seppellire il cadavere nel cimitero comune. Sul feretro del dannato furono scritte le parole che egli pronuncerà al momento della resurrezione: Justo Dei judicio accusatus sum; Justo Dei judicio judicatus sum: Justo Dei judicio condemnatus sum.
L’accusa, la condanna, l’assoluzione: questo è ciò che aspetterà i reprobi il giorno del Giudizio universale.
Per questo sant’Agostino, nella Città di Dio, dice: “coloro che necessariamente moriranno non devono preoccuparsi molto di ciò che avviene per farli morire, ma del luogo dove saranno costretti ad andare dopo morti” (3). E questo luogo, aggiungiamo noi, è l’inferno o il paradiso.
Il Messaggio di Fatima si apre con la terrificante visione dell’inferno e ci ricorda che la nostra vita sulla terra è molto seria, perché ci pone di fronte a una scelta drammatica: il paradiso o l’inferno: la felicità eterna o l’eterna dannazione. A seconda della nostra scelta saremo giudicati e la sentenza, una volta pronunciata, sarà inappellabile.
Il giudizio universale
Ma un secondo giudizio ci aspetta dopo la morte: il giudizio universale.
L’esistenza di un giudizio universale, che seguirà al giudizio particolare, è una proposizione di fede. Sant’Agostino sintetizza l’insegnamento della Chiesa in queste parole: “Nessuno mette in dubbio o nega che Gesù Cristo come lo annunzia la Sacra Scrittura, pronunzierà l’ultimo giudizio” (4). Sarà l’ultimo giudizio, a cui nessuno potrà sottrarsi.
Nell’ora del Giudizio universale, Gesù-Cristo, l’Uomo-Dio, apparirà dall’alto dei Cieli, preceduto dalla Croce circondato da schiere di Angeli e di Santi (Mt 24, 30-31), seduto in un trono di maestà (Mt 25, 30). Il ruolo di Giudice gli è stato attribuito dal Padre, come Gesù stesso ci rivela nel Vangelo: “Da me io non posso fare nulla; io giudico secondo che ascolto e il mio giudizio è giusto perché non cerco il mio volere ma il volere di Colui che mi ha mandato” (Gv 5, 30).
Ma perché è necessario un giudizio universale, dato che Dio giudica ogni anima immediatamente dopo la morte e nel giudizio universale sarà confermata la sentenza già data nel giudizio particolare? Non basterebbe un solo giudizio?
San Tommaso risponde: “Ogni uomo è una persona a sé ed è nello stesso tempo parte di tutto il genere umano; perciò gli si deve un duplice giudizio: l’uno particolare, dopo la sua morte, quando riceverà secondo quello che fece in vita, sebbene non interamente, perché riceverà non quanto al corpo, ma solo quanto all’anima; ma un altro giudizio dovrà esserci secondo che noi siamo parte del genere umano: il giudizio universale di tutto il genere umano, per mezzo dell’universale separazione dei buoni dai cattivi” (5).
Lo stesso Dottore Angelico spiega, in un altro passo, che, sebbene la vita temporale dell’uomo termina con la morte, essa si prolunga in qualche modo nel futuro, perché continua a vivere nella memoria degli uomini, a cominciare dai figli. Inoltre la vita dell’uomo continua negli effetti delle sue opere. Per esempio, dice san Tommaso, “dall’impostura di Ario e degli altri impostori pullula l’incredulità fino alla fine del mondo; e fino a codesto termine si dilaterà la fede in forza della predicazione degli apostoli” (6).
Il giudizio di Dio dunque non si conclude con la morte, ma si estende fino alla fine dei tempi, perché fino alla fine dei tempi potrà estendersi l’influenza buona dei santi o quella cattiva dei reprobi. San Benedetto, san Francesco e san Domenico meriteranno di essere ricompensati per tutto il bene che la loro opera ha continuato a fare fino alla fine del mondo, mentre Lutero, Voltaire e Marx dovranno essere puniti per tutto il male che le loro opere hanno fatto fino alla fine del mondo.
Per questo deve esserci un giudizio finale, in cui venga giudicato perfettamente e palesemente tutto ciò che riguarda ciascun uomo in qualsiasi maniera. Mentre nel giudizio particolare sarà giudicato il singolo soprattutto per quanto riguarda la rettitudine dell’intenzione con cui ha operato, nel giudizio universale saranno giudicate le sue opere oggettive, soprattutto per gli effetti che hanno avuto sulla società.
Dopo il giudizio immediato, di fronte a Dio, al momento della morte, è necessario che ci sia un giudizio pubblico di fronte non solo a Dio, ma a tutti gli uomini, agli angeli, ai santi, alla beatissima Vergine Maria, perché, dice il Vangelo: “nulla vi è di nascosto che non sia palesato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto” (Lc, 12, 2).
E’ giusto che coloro che hanno guadagnato il Cielo, grazie a sofferenze e persecuzioni, siano glorificati e che tanti empi e perversi che hanno condotto davanti agli uomini una vita felice, siano pubblicamente disonorati. Il padre Schmaus dice che nel giudizio finale verrà rivelata la verità o la menzogna delle opere culturali, scientifiche, artistiche degli uomini; la verità, o la menzogna degli indirizzi filosofici, delle istituzioni politiche, delle forze religiose e morali che hanno mosso la storia; il significato delle sette e delle eresie, delle guerre e delle rivoluzioni (7).
I corpi di Ario, di Lutero, di Robespierre, di Marx sono già in polvere, ma nel giorno del giudizio i loro libri, le loro statue, i loro nomi, dovranno essere pubblicamente esecrati.
Aggiungiamo che l’uomo nasce e vive all’interno di una nazione e la sua azione contribuisce a trasformare, nel bene o nel male, le nazioni e i popoli in cui egli vive, e anche questi popoli e queste nazioni, andranno giudicati nella loro cultura, nelle loro istituzioni, nelle loro leggi. Per questo il Vangelo dice che quando il Figlio dell’Uomo verrà nella sua gloria “si aduneranno intorno a lui tutte le nazioni, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai suoi capretti: e metterà le pecorelle alla sua destra e i capretti alla sinistra” (Mt 25, 31-46).
Il giudizio dunque non sarà pronunziato solo sopra i singoli, uomini ed angeli. Anche le nazioni sono chiamate a compiere i disegni della Divina Provvidenza e devono quindi conformarsi alla volontà divina che regge e regola l’universo. Al giudizio universale sarà manifestato se e quanto ciascun popolo ha adempiuto al compito assegnatogli da Dio (8).
“Ragioni di sapienza mantengono dei segreti nel corso dei tempi, – scrive monsignor Antonio Piolanti – ma il tempo alla fine dovrà versare il suo tesoro davanti agli occhi dell’universale assemblea. Tutte le maschere cadranno e i fariseismi felici recheranno il marchio di una incancellabile infamia” (9).
Il giudizio si estenderà a tutta la storia umana, che sarà pubblicamente svelata, a maggior gloria di Dio. Sarà il trionfo della Divina Provvidenza che nel corso della storia guida, in maniera invisibile e impenetrabile, i destini degli uomini e dei popoli.
Tutti nella valle di Giosafat, di fronte alla sentenza inappellabile proclameranno la grande parola. Iustus es Domine, et rectum iudicium tuum (Ps 117, 137): Tu sei giusto o Signore, e il tuo giudizio è pieno di equità.
Il giudizio particolare e il giudizio universale sono i due momenti supremi in cui si manifesta il giudizio di Dio sugli uomini e sulle nazioni. A questo giudizio divino segue un premio o un castigo. Ma agli uomini, il premio o il castigo si applica, sia durante la vita, sia per l’eternità, dopo la morte, mentre alle nazioni, che non hanno vita eterna, il premio o il castigo viene applicato solo nella storia. E poiché il giudizio universale chiude la storia, Gesù Cristo, in quel momento, non condanna le nazioni alla pena eterna, ma svela agli occhi di tutta l’umanità riunita, come le nazioni sono state premiate o punite nel corso della storia, in seguito alle loro virtù o ai loro peccati.
E’ importante comprendere che, sia per i singoli uomini, che per le nazioni, il giudizio universale è il momento culminante del giudizio divino, ma Dio non si limita a giudicare solo in quell’ora: giudica, si può dire, fin dal momento della creazione dell’universo.
All’origine della storia universale, c’è un giudizio: quello portato da Dio contro Lucifero e gli angeli ribelli, così come all’origine della creazione dell’uomo c’è il giudizio portato contro Adamo ed Eva. Da allora, fino alla fine dei tempi, il giudizio di Dio non cessa di applicarsi alle sue creature, perché la Divina Provvidenza mantiene nell’essere e dirige al suo fine il divenire dell’universo creato. Tutti i movimenti del mondo fisico, del mondo morale e del mondo soprannaturale sono voluti da Dio, escluso il peccato, che ha come sua unica causa la creatura libera.
Gesù dice che tutti i capelli del nostro capo sono contati (Lc 12, 8). A maggior ragione ogni nostro atto, sia pur minimo è giudicato da Dio. Ma Dio non è solo infinitamente giusto, è anche infinitamente misericordioso (10), e non c’è giudizio divino che non sia privo di misericordia, così come non c’è espressione della divina misericordia che non sia priva di profondissima giustizia.
L’esempio forse più bello di questo abbraccio tra giustizia e misericordia ci è dato dall’immenso dono del sacramento della Penitenza. In questo sacramento, in cui il peccatore viene giudicato ed assolto, il sacerdote, che agisce in persona Christi, esercita il potere giudiziario della Chiesa, ma esercita anche la materna misericordia di Dio, assolvendoci dai nostri peccati. La giustizia di Dio interviene per ristabilire l’ordine attraverso le pene che la colpa merita, la divina Misericordia si manifesta attraverso il perdono dei nostri peccati, grazie a cui Dio ci libera dalle pene eterne.
Il castigo delle nazioni
Ciò vale per gli uomini, ma vale anche per le nazioni. Dio non è assente dalla storia, è anzi sempre presente in essa con la sua immensità e non c’è un punto o momento del tempo creato in cui non si manifesti la giustizia e la misericordia divina sui popoli.
Tutte le sciagure che colpiscono le nazioni nella loro storia hanno un significato. Le loro cause talvolta ci sfuggono, ma è certo che l’origine di ogni male permesso da Dio sta nel peccato dell’uomo.
San Prospero di Aquitania, allievo di sant’Agostino, dice che “spesso dell’operato divino rimangono occulte le cause e si vedono solo gli effetti” (11). Un punto è certo: quali che siano le cause seconde, Dio è sempre la causa prima, tutto dipende da Lui.
C’è da chiedersi a questo punto in quale modo Dio giudichi e punisca il comportamento dei popoli nella storia. La risposta della Sacra Scrittura, dei teologi e dei santi è univoca.
Tria sunt flagella quibus dominus castigat: guerra, pestilenza e fame. Con questi tre flagelli, spiega san Bernardino da Siena (12), Dio punisce i tre principali vizi degli uomini: la superbia, la lussuria e l’avarizia; la superbia, quando l’anima si ribella a Dio (Apoc 12, 7-9), la lussuria quando il corpo si ribella all’anima (Gen 6, 5-7), l’avarizia quando le cose si ribellano all’uomo (Ps 96, 3). La guerra è il castigo contro la superbia dei popoli, le epidemie sono il castigo contro la loro lussuria e la fame è il castigo contro la loro avarizia.
I segni attraverso cui possiamo conoscere che i giudizi di Dio sono vicini
San Bernardino, nei suoi Sermoni, analizza il Salmo che dice: Tempus faciendi dissipaverunt legem tuam (Ps 118, 26): “E’ tempo di agire Signore, hanno dissipato la tua legge”.
In questa espressione del salmista, egli distingue tre momenti: Tempus: il tempo che la misericordia di Dio concede ai popoli per emendarsi. In questo spazio di tempo Dio offre ai peccatori la possibilità di sospendere la sentenza, di revocare la pena, di rimettere le offese, di offrire la grazia. Dio attende perché vuole la conversione dei peccatori. Il tempo dell’attesa può essere lungo, ma ha un limite. Se durante questo tempo manca il pentimento, il castigo è logico e necessario.
Il secondo momento è quello in cui Dio prepara la punizione per i peccatori impenitenti: un tempo che è espresso dalle parole faciendi Domine, che riassumono, secondo san Bernardino, “l’aspra vendetta e la dura punizione di Dio”, se il popolo non si vuole emendare (13). Il castigo però è un atto di misericordia del Padre, che non vuole la morte eterna dei peccatori, ma la loro vita, e attraverso i flagelli che infligge loro, cerca ancora di ottenere la loro conversione. E’ il tempo in cui la scure è posta alla radice dell’albero: securis ad radicem arboris posita est (Mt 3, 10).
Il terzo momento è quello dell’offesa consumata: dissipaverunt legem tuam. E’ l’ora di impugnare la falce e mietere la messe, come dice l’angelo dell’Apocalisse: “Metti mano alla tua falce e mieti; poiché è giunta l’ora di mietere, perché la mèsse della terra è matura” (Apoc 14, 15).
Quali sono i segni che indicano che la messe è matura? San Bernardino ne enumera sette:
▪. l’esistenza di molti ed orrendi peccati, come a Sodoma e a Gomorra;
▪. il fatto che il peccato viene commesso con piena avvertenza e deliberato consenso;
▪. che questi peccati siano commessi da tutto un popolo, nel suo insieme;
▪. che ciò accada in maniera pubblica e invereconda;
▪. che avvenga con tutta l’affezione del cuore dei peccatori;
▪. che i peccati siano commessi con attenzione e diligenza;
▪. che tutto ciò venga fatto in maniera continua e perseverante (14).
E’ questa l’ora in cui Dio punisce i peccati della superbia, della lussuria e dell’avarizia, con i flagelli della peste, della guerra, della fame.
Tempus faciendi Domine, dissipaverunt legem tuam
E’ tempo di agire, o Signore, hanno violato la tua legge.
Un altro grande santo dalla voce profetica, san Luigi Maria Grignion di Montfort, nella sua Preghiera infuocata, fa ecco a san Bernardino, ed esclama: “E’ tempo che Voi agiate, Signore, secondo la vostra promessa. La divina legge è trasgredita, il vostro Vangelo abbandonato, i torrenti di iniquità inondano sulla terra e travolgono perfino i vostri servi. Tutta la terra si trova in uno stato deplorevole, l’empietà regna sovrana; il vostro santuario è profanato e l’abominio è fin nel luogo santo. Giusto Signore, Dio delle vendette, lascerete nel vostro zelo, che tutto vada in rovina? Ogni luogo diverrà alla fine come Sodoma e Gomorra? Continuerete a tacere in eterno, a pazientare in eterno?”.
San Luigi Maria scrive queste parole all’inizio del XVIII secolo. Due secoli dopo la Madonna a Fatima ha annunciato che se il mondo continuerà ad offendere Dio, esso sarà punito per mezzo della guerra, della fame e di persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre e “diverse nazioni saranno annientate”.
Ma oggi, cento anni dopo le apparizioni di Fatima, trecento anni dopo la morte di san Luigi Maria, il mondo ha smesso di offendere Dio? La divina legge è forse meno trasgredita, il Vangelo meno abbandonato, il santuario meno profanato? Non vediamo peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, come l’aborto e la sodomia, giustificati, esaltati, protetti dalle leggi degli Stati? Non abbiamo visto l’idolo del Pachamama essere accolto e venerato perfino all’interno del recinto sacro del Vaticano? Tutto questo non esige di essere giudicato da Dio, fin da ora? E chi ama Dio non deve amare e desiderare l’ora della sua giustizia, per ripetere, come nel giorno del giudizio finale: Iustus es Domine, et rectum iudicium tuum (Ps 117, 137): Tu sei giusto o Signore, e il tuo giudizio è pieno di equità?
Perché i popoli non si rendono conto dei castighi che incombono su di loro
Tra i cattolici, quando si abbattono le sciagure su un popolo, c’è chi dice di non sapere se si tratti di un castigo o di una prova. Ma a differenza che per gli uomini, i mali delle nazioni sono sempre castighi. Può succedere infatti che un uomo virtuoso debba soffrire molto per essere provato nella sua pazienza, come accadde a Giobbe. Le sofferenze che i singoli uomini incontrano nella loro vita non sono sempre un castigo, ma più spesso una prova che li prepara a guadagnarsi un’eternità felice. Ma nel caso delle nazioni, le sofferenze dovute a guerre, epidemie o terremoti, sono sempre un castigo, proprio perché esse non hanno eternità. Affermare che una sciagura possa essere “una prova” per una nazione non ha senso. Può essere una prova per i singoli uomini di una nazione, ma non per la nazione nel suo complesso, perché è nel tempo e non nell’eternità che le nazioni ricevono il loro castigo.
I castighi di una nazione aumentano in proporzione dei peccati di una nazione. E in proporzione dei peccati aumenta, da parte dei malvagi, il rifiuto dell’idea di castigo, come fece Voltaire nel suo blasfemo Poema sul disastro di Lisbona, scritto dopo il terribile terremoto che distrusse la capitale del Portogallo nel 1755.
Alle blasfemie degli atei la Chiesa ha sempre risposto ricordando che tutto ciò che accade dipende da Dio e ha un significato. Ma quando sono gli stessi uomini di Chiesa a negare l’idea di castigo, vuol dire che il castigo è già in corso ed è irrimediabile.
Nei giorni del coronavirus, l’arcivescovo di Milano mons. Mario Delpini è arrivato al punto di affermare che “è da pagani pensare a un Dio che manda flagelli”. In realtà ciò che è, non da pagani, ma da atei, è pensare a un Dio che non manda flagelli.
Il fatto che questo sia il pensiero di tanti vescovi nel mondo, significa che l’episcopato mondiale è immerso nell’ateismo. E questo è un segno del castigo divino in corso.
San Bernardino spiega che quanto più il castigo di Dio è vicino, tanto meno i popoli che lo meritano se ne rendono conto (15). La ragione di questa cecità delle menti è la superbia, initium omnis peccati (Ecclesiastico 10, 15). La superbia ottenebra l’intelletto, impedendo di vedere quanto è prossima la rovina, e Dio, con questo accecamento, vuole umiliare i superbi.
Con l’aiuto di san Bernardino possiamo anche interpretare una sentenza dei Salmi che è stata ripresa da Leone XIII nel suo Esorcismo contro gli Angeli ribelli: “Veniat illi laqueus quem ignorat, et captio quam abscondit, apprehendat eum et laqueum cadat in ipsum” (Ps 34, 8). La traduzione libera di questo passo potrebbe essere: venga il laccio, cioè la trappola a cui egli non pensa e le manovre che egli nasconde colgano lui ed egli cada nel suo stesso laccio di morte.
San Bernardino dice che questo passo dei Salmi può essere interpretato sotto tre aspetti.
Dalla parte di Dio: Veniat illi laqueus quem ignorat. La prima causa di questa ignoranza viene da Dio, che per nascondere i suoi piani si serve delle epidemie e delle carestie: “laqueus est pestis vel fames et consimilia” (16), dice san Bernardino. Innanzitutto Dio sottrae ai popoli le loro guide: non solo le guide politiche e quelle spirituali, ma anche gli angeli che presiedono alle nazioni. Dio sottrae poi il lumen veritatis, che è una grazia, come ogni bene che viene da Dio. Infine, Dio permette ai popoli peccatori di cadere in mano dei propri vizi, dei demoni che sostituiscono gli angeli e di malvagi, che li guidano verso l’abisso.
Et captio quam abscondit, apprehendat eum. Una volta sottratta loro ogni guida e luce di verità, i popoli impenitenti, quando Dio annuncia il castigo, non solo non si emendano, ma aumentano i loro peccati. E la moltiplicazione dei peccati aumenta l’accecamento dei popoli.
Et laqueum cadat in ipsum. I popoli peccatori ignorano l’ora del castigo, che giunge improvviso e inaspettato. Le manovre che essi tentano per distruggere il bene si rivolgono contro di loro. Essi non sono solo puniti, ma umiliati. Si compie così la profezia di Isaia: “Verrà sopra di te la sciagura, né saprai da dove nasca, piomberà su di te una calamità che non potrai scongiurare; verrà repentinamente su di te una catastrofe che non penserai” (Isaia 47, 11).
Il timore e la paura
Quando inizia il castigo, il demonio, che vede sconvolti suoi piani, diffonde nei popoli il sentimento della paura, anticamera di quello della disperazione. I malvagi negano l’esistenza della catastrofe, i buoni ne comprendono l’arrivo, ma invece di cogliere nel castigo l’occasione della loro rinascita, sono tentati di vedervi l’ora della propria rovina. Ciò accade quando essi rinunziano a vedere dietro gli eventi la mano sapiente di Dio, per inseguire le manovre degli uomini.
Un autore caro a san Luigi Maria di Montfort, l’arcidiacono Henri-Marie Boudon scrive: “Dieu ne frappe que pour être regardé; et l’on n’arrête les yeux que sur les créatures” (17). Dio colpisce per essere contemplato e noi invece di volgere lo sguardo a lui, lo soffermiamo sulle creature.
Ciò non significa che le manovre delle forze rivoluzionarie non debbano essere osservate, analizzate e combattute, ma senza mai dimenticare che la Rivoluzione è sempre sconfitta nella storia, per il carattere autodistruttivo del male che ha in sé, e la Contro-Rivoluzione vince sempre, per la fecondità del bene che porta in sé.
L’ateismo è l’espulsione di Dio da ogni ambito dell’attività umana. La grande vittoria dei nemici di Dio non sta nel sopprimere la nostra vita o nel restringere la nostra libertà fisica, ma nel rimuovere l’idea di Dio dalla nostra mente e dal nostro cuore. Tutti i ragionamenti, le speculazioni filosofiche, storiche o politiche in cui Dio non tiene il primo posto, sono false e illusorie.
Bossuet dice che: “Toutes nos pensées qui n’ont pas Dieu pour objet sont du domaine de la mort” (18). E’ vero e noi potremmo dire che tutti i pensieri che hanno Dio per oggetto appartengono al campo della vita, perché Gesù Cristo, Giudice e Salvatore dell’umanità, è “via, verità e vita” (Gv 14, 6). Parlare del giudizio di Dio nella storia e sulla storia non è dunque parlare di morte, ma parlare di vita, e chi ne parla non è “profeta di sventura”, ma annunciatore di speranza.
Coloro che oggi con più forza rifiutano l’idea di castigo sono gli uomini di Chiesa ed essi rifiutano il castigo, perché rifiutano il giudizio di Dio, a cui sostituiscono il giudizio del mondo. Ma il timor di Dio nasce dall’umiltà, la paura del mondo nasce dall’orgoglio.
Temere Dio è la più alta sapienza: Timor Domini initium Sapientiae, dice il libro dell’Ecclesiastico, che si conclude con queste parole: Deum time, et mandata ejus serva: hoc est enim omnis homo (Eccl 12, 13): “Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto”.
Chi non teme Dio, sostituisce ai comandamenti divini i comandamenti del mondo, per paura di essere isolato, censurato e perseguitato dal mondo. La paura del mondo, che è una conseguenza del peccato, spinge alla fuga, il timor di Dio incita alla lotta.
Un grande autore francese, Ernest Hello dice: “Temere il nome di Dio vuol dire non aver paura di niente” (19). E lo stesso Hello, ci ricorda che una parola della Sacra Scrittura di cui noi non conosceremo mai la profondità: laetetur cor meum ut timeat nomen tuum (Ps 85, 11): “gioisca il mio cuore affinché tema il tuo nome”.
C’è gioia solo dove c’è la presenza di Dio e Dio non può essere presente se non c’è il timore di Lui. Lo Spirito Santo dice che non vi è cosa migliore del timore di Dio: Nihil melius est quam timor Domini (Eccl 23, 37); lo chiama fonte di vita: Timor Domini fons vitae (Prov 14, 27); giubilo e letizia: Timor Domini gloria, gloriatio et laetitia et corona exultationis! (Eccl 1, 11).
E’ questo timore di Dio che ci spinge a riconoscere la mano divina nei tragici eventi del nostro tempo e a disporci con tranquillo coraggio alla lotta.
Il cavaliere, la morte e il diavolo
Il cavaliere, la morte e il diavolo è un’incisione su lastra di rame di Albrecht Dürer, realizzata nel 1513. L’opera raffigura un cavaliere, con un elmo sul capo e armato di spada e di lancia, che cavalca su di un maestoso destriero, sfidando la morte, che gli mostra una clessidra col tempo della vita che fugge, e il diavolo, raffigurato come un animale cornuto che impugna un’alabarda.
Plinio Corrêa de Oliveira, in un articolo pubblicato sulla rivista Catolicismo quasi settant’anni fa, nel febbraio del 1951, evocava quest’immagine per evocare lo scontro tra la Rivoluzione che non può retrocedere, e la Chiesa che, nonostante tutto, non è riuscita a vincere.
Egli scriveva:
“La guerra, la morte e il peccato si apprestano a devastare nuovamente il mondo, questa volta in proporzioni maggiori che mai. Nel 1513 il talento incomparabile di Dürer li rappresentò sotto forma di un cavaliere che parte per la guerra, completamente rivestito dell’armatura e accompagnato dalla morte e dal peccato, quest’ultimo rappresentato da un unicorno. L’Europa, già allora immersa negli sconvolgimenti che precedettero la Pseudo-Riforma, si avviava verso l’età tragica delle guerre religiose, politiche e sociali che il protestantesimo scatenò.
“La prossima guerra, senza essere esplicitamente e direttamente una guerra di religione, toccherà in modo tale i più sacri interessi della Chiesa che un vero cattolico non può fare a meno di vedere in essa principalmente l’aspetto religioso. E la strage che si scatenerà sarà per certo incomparabilmente più devastante di quelle dei secoli scorsi.
“Chi vincerà? La Chiesa?
“Le nubi che abbiamo davanti non sono rosee. Ma ci anima una certezza invincibile e cioè che non solo la Chiesa — com’è ovvio, data la promessa divina — non scomparirà, ma che otterrà ai nostri giorni un trionfo maggiore di quello di Lepanto.
“Come? Quando? Il futuro appartiene a Dio. Molte cause di tristezza e di apprensione si parano davanti a noi, perfino nel guardare alcuni fratelli nella fede. Nel calore della lotta è possibile e perfino probabile che vi siano terribili defezioni. Ma è assolutamente certo che lo Spirito Santo continua a suscitare nella Chiesa mirabili e indomabili energie spirituali di fede, purezza, ubbidienza e dedizione che al momento opportuno copriranno ancora una volta di gloria il nome cristiano.”
Plinio Corrêa de Oliveira, concludeva il suo articolo con la speranza che il secolo XX sarebbe stato “non soltanto il secolo della grande lotta, ma soprattutto il secolo dell’immenso trionfo”. Ci facciamo eco di questa speranza che estendiamo al secolo XXI, il nostro secolo, l’epoca del coronavirus, e di nuove tragedie, ma anche il tempo di una rinnovata fiducia nella promessa di Fatima. Una fiducia che vogliamo esprimere con le parole che papa Pio XII rivolgeva all’Azione Cattolica nel 1948:
“Voi conoscete, diletti figli, i misteriosi cavalieri di cui parla l’Apocalisse. Il secondo, il terzo e il quarto sono la guerra, la fame e la morte. Chi è il primo cavaliere sul bianco destriero? « Su questo sedeva uno che aveva un arco, e fu data a lui una corona ed egli uscì da vincitore » (6, 2). È Gesù Cristo. Il veggente Evangelista non mirò soltanto le rovine cagionate dal peccato, guerra, fame e morte; egli vide anche in primo luogo la vittoria di Cristo. Ed invero il cammino della Chiesa attraverso i secoli è bensì una via crucis, ma è anche in ogni tempo una marcia di trionfo. La Chiesa di Cristo, gli uomini della fede e dell’amore cristiano, sono sempre quelli che alla umanità senza speranza portano la luce, la redenzione e la pace. Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula (Hebr. 13, 8). Cristo è la vostra guida, di vittoria in vittoria. Seguitelo” (20).