giovedì 19 marzo 2020

«COLUI CHE È»



(Il problema ―dell‘esistenza‖ di Dio in S. Tommaso) 

Il bilancio tuttavia non è assolutamente negativo. Al termine della lunga questione sulla conoscenza di Dio a cui l‘uomo può pretendere di pervenire in questa vita, Tommaso poteva riassumere così il risultato del suo studio:  «Quindi conosciamo di Dio la sua relazione con le creature, che cioè è la causa di tutte; sappiamo cosa lo differenzia da queste creature, che cioè egli non è niente di quanto causato da lui sappiamo infine che ciò che si elimina da lui; non lo si elimina a causa di una mancanza, ma a causa di un eccesso» 90 .   Se ci si ricorda che questa triplice certezza è alla base di tutti gli sforzi di Tommaso, si può allora capire come anche i testi più «negativi» possono sfociare in una vigorosa affermazione:  ―Possiamo dire che alla fine del nostro procedimento conosciamo Dio come sconosciuto, poiché lo spirito scopre allora che è avanzato al massimo della sua conoscenza. Quando ha saputo che l‘essenza divina è al di sopra di tutto ciò che può carpire nello stato della vita presente; e sebbene di Dio gli resta ignoto ciò che è, sa tuttavia che egli è‖ 91 . La conoscenza per grazia non può che rinforzare questa certezza, ma fondamentalmente non cambia niente alla struttura di questa conoscenza fintantoché noi siamo su questa terra. Essa ci permette di conoscere Dio tramite gli effetti più estesi e ci rivela di lui dati ai quali la sola ragione non potrebbe pervenire, ma nemmeno essa può accedere al quid est di Dio. La questione che allora si pone è di sapere se malgrado tutto è possibile parlare di Dio in un altro modo che non sia per iperbole o per metafore poetiche. Si tratta di sapere come «chiameremo» Dio, dato che «gli esseri li nominiamo a partire da ciò che ne sappiamo» 92 .Teologo e predicatore Tommaso non può rinunciare a questa ambizione senza rischiare di vedere la missione del suo Ordine e la propria messe radicalmente in causa.  Conseguentemente a tutto ciò che ha già detto, egli concederà fin dall‘inizio che, «se possiamo nominare Dio a partire dalle creature, ciò non accade in modo tale da pretendere di esprimere l‘essenza divina così come è in se stessa». Si può ben dire in questo senso con Dionigi che: «Dio non ha nome, oppure che è al di sopra di ogni denominazione» 93 . Ma significherebbe proprio conoscere male Tommaso per pensare che egli si limiti a questo: il suo apofatismo non è un agnosticismo. Simile a Giacobbe che lotta con l‘Angelo e pretende di sapere il suo nome, egli non vuole demordere prima di essere stato benedetto. Pazientemente, si interroga sulla possibilità di dire qualcosa di Dio a partire dai suoi effetti creati e a quali condizioni. Concede certamente che i nomi predicati di Dio metaforicamente (roccia, fortezza) convengono primariamente alle creature; ma non così accade per quanto riguarda i nomi di perfezioni (saggezza o bontà). Poiché esse si trovano in Dio prima che nelle creature, non si può propriamente negarle di Dio. Se ha un senso il detto di Dionigi secondo cui questi nomi sono negati di Dio con maggiore verità di quanto non gli siano attribuiti, ciò significa che «la realtà significata dal nome non conviene a Dio sotto la forma stessa in cui il nome li esprime, ma in un modo più eccellente» 94 . La distinzione tra realtà significata e modo propriamente divino di realizzarla rivela qui la sua utilità. Se Tommaso non vuole a nessun costo rinchiudere Dio in un concetto, egli pretende però dirne qualcosa.  Due nomi privilegiati si offrono qui alla nostra considerazione. Consacrato dall‘uso, il nome stesso «Dio» non è privo di vantaggi. Se viene applicato ad altri all‘infuori di Dio, ciò non può verificarsi che in apparenza, «secondo l‘opinione», poiché la natura divina non è comunicabile a vari individui come lo è la natura umana. Non diversamente da un altro nome, questo non ci permette di conoscere la natura divina, ma corona molto bene la dialettica ascendente di eminenza, di causalità e di negazione, poiché «esso è destinato precisamente a designare un essere che è al di sopra di tutto, che è il principio di tutto e separato da tutto. Ciò che precisamente tutti intendono significare quando dicono ―Dio‖» 95 .  Il secondo nome che conviene massimamente a Dio è quello con cui egli stesso si è rivelato a Mosè (Es 3, 14): «Colui che è». Tommaso ha già avuto varie volte l‘occasione di commentarlo 96 , ma quando lo ritrova nella Somma egli enumera tre ragioni che gli sembrano giustificare questa eminenza. In primo luogo «a causa del suo significato, visto che non designa una forma particolare di esistenza, ma l‘essere stesso». Poiché — è solo il caso di Dio — il suo essere è identico alla sua essenza, nessun altro nome potrebbe denominano in modo più appropriato, giacché ogni essere è denominato dalla sua forma. In secondo luogo è a causa della sua universalità che questo nome conviene a Dio, dato che ciò che è determinato e limitato non potrebbe convenirgli, mentre tutto ciò che è assoluto e generale si applica molto meglio a lui. E per questo che san Giovanni Damasceno reputa «Colui che è» come il nome principale di Dio, perché esso comprende tutte le cose in se stesso come un oceano di sostanza infinita e senza limiti. Mentre ogni altro nome determina un certo modo della sostanza della cosa, questo nome «Colui che è» non determina nessun modo di essere particolare; esso si comporta in maniera indeterminata nei confronti di tutti. Infine, a causa di ciò che esso include nel suo significato (consignificatio): questo nome significa l‘essere al presente, ciò che conviene sovranamente a Dio, il cui essere non conosce né passato né avvenire.  A leggere questo testo, Tommaso sembra definitivo: nessun altro nome potrebbe essere più conveniente per designare Dio. Tuttavia, le cose sono più sfumate e una risposta complementare mette in competizione, per così dire, i due nomi principali che abbiamo appena esaminato:  «Il nome ―Colui che è‖ designa Dio con più proprietà di quanto lo faccia lo stesso nome ―Dio‖, se ci si riferisce all‘origine del nome (id a quo imponitur), cioè l‘essere, e al suo modo di significare e di ―consignificare‖. Tuttavia, se si considera ciò che esso intende significare (id ad quod imponitur nomen) il nome ―Dio‖ è più adatto poiché è utilizzato per significare la natura divina».  Il nome «Dio» non dice niente indubbiamente dell‘essenza divina, ma ha il vantaggio di designarla come se si applicasse a un individuo singolare un nome universale in un modo che gli sarebbe proprio: per esempio, «uomo» applicato a Pietro. Al contrario, il nome «Colui che è», che designa Dio tramite una perfezione che si ritrova in tutti gli esistenti, non presenta gli stessi vantaggi d‘incomunicabilità. Se il teologo non rinuncia per questo al vocabolario dell‘essere è perché, sottomettendosi alla rivelazione del «Colui che è», ha ricevuto conferma della validità di esso: «Di conseguenza, abbiamo due nomi: ―Dio‖, che esprime bène la natura divina ma in maniera puramente indicativa, ed ―essere‖, che esprime bene la perfezione sovreminente di Dio, ma a partire dalle creature. E per questo che ―Dio‖ afferma il modo di significare senza raggiungere il modo di essere, e ―Colui che è‖ enuncia il modo di essere senza significarlo. Nessuno dei due rinchiude l‘essenza divina ed è per questo che in ultima analisi il ―Colui che è‖ tomasiano designa Dio come ineffabile» 97 .  

di P.Tito S. Centi  e P. Angelo Z.

Nessun commento:

Posta un commento