GLI STUDI GINNASIALI
La strada che da Riese conduce a Castelfranco Veneto non stancò mai la costanza di Giuseppe Sarto, a cui ardeva in petto l'ansia del sapere per un alto e non terreno ideale.
Eppure erano 14 chilometri al giorno — sette nell'andare ed altrettanti nel ritornare dalla scuola — che egli percorreva a piedi, allegro e contento, senza mai lamentarsi ne di fitte nebbie nella stagione invernale o di estenuanti calori nell'estate, imparando così a temprare la sua anima a quella vita di sacrificio e di continuo lavoro che avrebbe più tardi spiegato come Sacerdote, come Vescovo e come Papa (13).
Era povero: lo diceva quel suo vestito di stoffa comune, tagliato e cucito dalla madre; quel paio di scarpe buttate sulle spalle per non consumarle troppo presto; quel sacchettino a tracolla che, insieme ai quaderni, nascondeva un pane od una semplice fetta di polenta spesso, senza companatico, insufficienti a calmare gli stimoli dell'appetito che qualche volta lo costringevano a domandare ai compagni di scuola qualche cosa per sfamarsi (14).
Era povero: ma i punti migliori nella scuola erano i suoi.
Era sempre il primo tra i più assidui allo studio, il primo tra i più encomiati.
Il Conte Lauro Quirini, ricordando quegli anni, durante i quali ebbe condiscepolo a Castelfranco Giuseppe Sarto, così testimoniava: “Io ero studente interno, Sarto frequentava quelle scuole come esterno.
Ricordo benissimo: vestiva dimessamente e talvolta gli si vedeva spuntare dalla saccoccia un pane che portava con sé per la colazione. Come era buono!
Era carissimo a tutti, gioviale, sereno, diligentissimo, il migliore della classe era sempre lui” (15).
“Era un angelo di bontà — attestava un altro suo condiscepolo — un angelo di purezza ed amantissimo dello studio. Era sempre il primo in tutto: in disciplina, in diligenza, nei componimenti italiani e latini e nelle altre materie. Soavissimo con i compagni, egli era l'ammirazione dei Professori, i quali avevano sempre in bocca il nome di lui a lode e non si stancavano di additarlo ad esempio a tutta la classe per la prontezza dell'ingegno, per il suo instancabile amore allo studio e per la sua specchiata condotta. Era la delizia dei preti di Riese” (16).
***
Tra la scuola del mattino e quella del pomeriggio si recava presso la famiglia di Giovanni Battista Finazzi — esattore delle imposte — il quale era amico del cursore di Riese.
Qui mangiava quel poco che si era portato da casa, a cui la buona moglie del Finazzi aggiungeva qualche altra cosa, e, quando il fanciullo doveva per esigenze di scuola trattenersi tutta la settimana a Castelfranco, gli preparava anche un altarino, perché sapeva che egli godeva di imitare le cerimonie della Messa che vedeva all'altare della sua Parrocchia (17).
Di ritorno dalla scuola non fantasticava: studiava, aiutava il padre nello sbrigare qualche commissione, assisteva la madre in quello che poteva; mentre, per il grande amore che portava allo studio ed alla vita di sacrificio, sapeva trovare anche il tempo per dare lezioni di scuola ai figlioli di una agiata famiglia del paese (18).
Nei giorni di vacanza, con un branco di vivaci fanciulli della sua età, si recava al Santuario della Madonna delle Cendròle, appena fuori del villaggio, dove, in una dolcezza temprata di silenzio, inginocchiato ai piedi della Vergine, intonava le Litanie, e, dopo una breve preghiera, con accesa parola, incitava i compagni a tenersi lontani dal male ed a crescere nel santo timore di Dio (19)
E i fanciulli di Riese ascoltavano volentieri quel loro compagno che rideva sempre di cuore, che aveva sempre qualche buona parola da dire o qualche cosa di bene da proporre e del quale le loro mamme parlavano con ammirazione ed invidia, perché lo vedevano accostarsi ogni otto giorni a ricevere il mistico “Pane della vita” con quella stessa pietà e con quello stesso raccoglimento, con cui vi si era accostato, non ancora dodicenne, la prima volta, il 6 Aprile 1847: terza festa di Pasqua (20).
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