lunedì 2 marzo 2020

LO CONOSCI GESU’?



«La croce accentua il bisogno di aderire a Dio. E si fa preghiera»

Ci scandalizzeremo per quella immensa folla di credenti che prega soltanto quando è nella morsa del dolore?
Non odiano forse la sofferenza? Non vogliono forse tirare la Provvidenza divina dalla loro parte? Non rifiutano il valore del sacrificio accettato per la gloria di Dio e per il bene del Prossimo? Non è il caso di spegner e uno stoppino dalla fiamma smorta! (cf. Mt 12, 20).
Purché ci si ricordi del Signore, ben vengano le preghiere interessate alla guarigione, alla promozione, all'aumento dello stipendio, alla vittoria della propria squadra, e a cose simili.
Ciò che conta è vivere alla presenza di Dio.
Se questioni di scarso valore possono indurre a guardare più in su delle tegole del tetto, non sono da disprezzare.
Dio, ricco di misericordia, spia il momento buono per riabilitare qualche figlio prodigo: aspetta anche sulle tribune di uno stadio, come - infinite volte - nelle corsie degli ospedali.
Anche le croci, frutto di una vivace fantasia, nei disegni della Provvidenza, possono scombussolare una vita e condurre sulla retta strada.
La croce si conficca nel tessuto quotidiano, nei rapporti sociali soliti, dappertutto, ma il suo scopo è quello di portare in alto, a Dio.
Tanto più in alto, quanto più radicata nell'intimo. Ci sono tanti modi di soffrire e altrettanti di pregare. Bisogna che manchi la terra sotto i piedi perché ci si attacchi al Signore e - grazie a Lui - ritorni la speranza.
E il buon Dio non vede l'ora di venirci incontro: «Chi ha confidato nel Signore ed è rimasto deluso? O chi lo ha invocato ed è stato da lui trascurato? Perché il Signore è clemente e misericordioso, rimette i peccati e salva al momento della tribolazione» (Sir 2, 10-11).
Artista insuperabile il dolore!
Nessuno come lui sa educare alla preghiera. Nessuno come lui sa adattarsi a ciascuno al fine di ricondurre a Dio. Il dolore crea gli eroi, i santi, i martiri, i veri apostoli, i corredentori.
Le grandi sofferenze o tante minute sofferenze (tanti poco fanno assai) distaccano da quanto non è Dio e riconducono alla casa del Padre, al Suo amore misericordioso.
Il beato don Giacomo Alberione parla di abbandono totale, in linea con lo stile dei veri amici di Cristo: «Prego il Signore di togliere da me ogni mia volontà, gusto, preferenza, perché faccia quanto e come vuole di me e tutto quanto mi riguarda per il tempo e per l'eternità. Desidero che il Signore possa liberamente fare e usare di me come vuole.
Mi riduca pure a nulla, se crede, per la salute, la stima, il posto, le occupazioni, le cose più interne come le esterne. Tutto e solo per la gloria di Dio, per l'esaltazione della sua misericordia, in isconto dei miei peccati».
È risaputo che il dolore ha intriso tutta la lunga vita del Fondatore delle Famiglie Paoline ed è il dolore che l'ha portato ad un eroico abbandono.
Una vita senza fastidi, senza tentazioni, senza traumi, non genera di questi gesti di totale fiducia. La fiducia nella Provvidenza non è possibile fuori di un terreno arato dal dolore. Chi possiede tutto quanto, sogna, guarda sempre più in basso: non sente il bisogno di alzare gli occhi al cielo... Il santo Cottolengo esclamava: «Stiamo allegri: non ho che tre centesimi; con tutto questo, allegri e abbiamo fede nella Divina Provvidenza... La Divina Provvidenza di domani, della settimana ventura e degli anni avvenire è quella medesima di quest'oggi. Dunque, niente paura e avanti in Domino».
Nella Piccola Casa il dolore era incontestabile padrone; appunto per questo, tra quelle mura l'orazione era incessante; e i miracoli... all'ordine del giorno.
È fonte continua di entusiasmo la certezza che anche le spine sono contate non meno che i petali delle rose, che ogni nostro vagare sui sentieri del Calvario è seguito fino nei minimi particolari da un Cuore immensamente buono.
«O Dio, i passi del mio vagare tu li hai contati, le mie lacrime nell'otre tuo raccogli; non sono forse scritte nel tuo libro?» (Sal 55, 9).
Di amarezza in amarezza, di sconfitta in sconfitta, di vergogna in vergogna: dove finiremo per non disperarci?
Dove per respirare un po' di conforto? «Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba» (Sal 29, 3-4).
La guarigione delle guarigioni sarà quella che ci libera finalmente da un costume di vita mondano. Quanto è facile rimanere abbacinati dal benessere, dal piacere, dalla vanità!
Oggi sembra se ne abbia più fame che mai.
Chi ci potrà riscattare da catene, pagate al prezzo di monili?
Non si sanno apprezzare spesso le semplici gioie della vita, che perdono, ogni giorno più, il loro fascino.
Sono per i poveri di spirito i tratti più fini e delicati della Divina Provvidenza, compresa la possibilità di riprendere quota, appena si voglia, attraverso il sacramento della Riconciliazione.
In un recente corso di esercizi spirituali, tenuto a sacerdoti e religiosi, il card. Martini ha detto: «Un ultimo disordine è quello sulla confessione e lo spiego segnalando due errori frequenti. Primo errore: pensare che una confessione sia più facile se più rara. No! Una confessione quanto più è frequente, tanto più è facile.
Secondo errore: pensare che una confessione sia più efficace quando è più breve.
Al contrario è più facile quando è un po' più prolungata e articolata; quando non solo ci accusiamo delle colpe formali, ma cominciamo col ringraziamento a Dio e mettiamo sul tavolo anche i nostri disordini, le nostre vanità, le nostre mondanità, le nostre antipatie, le nostre paure, le nostre vigliaccherie e le lasciamo purificare dalla grazia.
Questa è una confessione che aiuta molto perché non caratterizzata dalla fretta e dalla supeficialità» (Le Ali della Libertà, Piemme).

di PADRE STEFANO IGINO SILVESTRELLI

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