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A questo punto vorrei dire alcune cose, anche se molto succintamente sulla sua famiglia. Di lei si diceva che era figlia di una famiglia dipendente dei conti di Spanheim, la famiglia di Jutta. Invece studi recenti hanno fatto conoscere vari membri della sua famiglia. Su un registro cominciato l’anno dopo la morte di Ildegarda che raccoglie tutte le donazioni di beni che sono state fatte al convento, a cominciare dall’anno 1147, l’anno della fondazione. Fra questi donatori si riesce a trovare i vari nomi, tra cui Ildeberto di Bernersheim, Ugo, figlio di Ildeberto, “Ugo cantore”, primo cerimoniere del vescovo di Magonza, che viene nominato anche da Ildegarda nelle sue lettere. Attraverso questo nome di Ugo si riesce a trovare i fratelli di Ugo, in modo che si ricostruiscono i nomi di otto membri della famiglia di Ildegarda: Ugo, Drutwin, Odilia, Irmingarda, Jutta, Clemenzia, Rorich; mancano solo due. Tutti questi fratelli fanno donazione completa al convento di Rupertsberg, cosicché sembra che la famiglia si sia estinta. Forse gli altri due erano donne sposate, tuttavia nei più di mille documenti esaminati non si trovano altre tracce di nomi che si riferissero a questa famiglia. Bisogna pensare che era il tempo della seconda crociata (1146-49) e che se erano maschi, forse vi avevano partecipato e erano morti.
Conosciamo dei nipoti dalle lettere e da altri documenti e il cugino di Ildegarda, il vescovo di Treviri, Arnoldo di Walencourt, una famiglia della Lorena. Lui scrive in una sua lettera: “L’amicizia tra parenti è cosa celeste, l’età non le porta impedimento, anzi l’accresce, è sincera, non conosce tregua, piuttosto aumenta di giorno in giorno. Ma mentre entrambi noi sin dal principio della nostra vita siamo stretti da vera amicizia, ci chiediamo con meraviglia perché mai Voi (Ildegarda) abbiate più caro l’adulatore del vero amico, mentre il profeta dice: ‘l’olio del peccatore non impingua il mio capo’, e il nostro fratello, il prevosto di Sant’Andrea in Colonia, noi lo riteniamo un adulatore. Ildegarda gli risponde in una lettera molto amabile, ma sulla parentela non una parola, forse per l’allusione negativa fatta da lui al riguardo del fratello Wezelin.
Si vorrebbe maggior informazione sulla famiglia di Ildegarda, ma ciò che risulta è che aveva moltissimi contatti con la famiglia di Staufen. Lo zio di Federico Barbarossa aveva i suoi possedimenti confinanti con quelli di Bermersheim, i luoghi della famiglia di Ildegarda. Il primo benefattore del nuovo monastero di Rupertsberg è il conte Palatino Ermanno di Stahleck, la cui moglie era sorella del re Corrado. Ildegarda ottiene l’esenzione per il suo monastero dall’Imperatore Federico Barbarossa, in data del 18 aprile 1163. A lui scrive lettere con una straordinaria audacia, muovendogli rimproveri e minacciandogli dei castighi di Dio, quando alla morte dell’antipapa Vittorio IV Federico si accinge di eleggere il suo successore, Pascasio III. Dice: “Nella mia visione mistica vedo Te come fossi un pargolo e uno che vive senza ragione dinanzi agli occhi del Dio vivente”. E in un’altra lettera dice: “Dio dice così: ‘Guai, guai, io distruggo la protervia orgogliosa, la superbia e la contraddizione di quelli che mi disprezzano. Riduco in frantumi la mia stessa opera. Guai, guai a Te, ascolta quel che Ti dico se vuoi vivere, altrimenti la mia spada Ti percuoterà”. Così erano i suoi rapporti con Federico Barbarossa. Dopo la sua morte il fratello di Federico, Corrado, conte Palatino di Tureno, fondò una donazione in suo nome a favore di Rupertsberg e depone anche un lascito alla sua memoria.
La franchezza di linguaggio che aveva Ildegarda con i potenti di questo mondo è forse in parte dovuta alla sue condizione sociale, per cui se lo poteva permettere. E soprattutto dovuta al suo profondo senso di giustizia. Ci restano trecentonovanta lettere, di cui è stata ultimata qualche settimana fa l’edizione critica. Si rivolge ad abati, a sacerdoti, a laici, a persone semplici, all’Imperatrice di Bisanzio, al re d’Inghilterra, a membri di tutte le classi sociali con una franchezza, una chiarezza e un coraggio indicibile.
Gli anni che seguono dal 1151 fino alla morte di Ildegarda sono ricchi di avvenimenti e pieni di attività esterne. Delle difficoltà di ogni genere all’inizio, a causa del rifiuto dei monaci di consegnare alla monache la loro dote, Ildegarda dice: “Io rimasi in quel posto con venti giovani monache di famiglie ricche e nobili, alle quali era finora nulla mancato, in una grande penuria.
Non vi era altra abitazione nel vicinato che quella di una persona anziana e dei suoi figli e figlie”.
Poi si aggiungeva a questa situazione difficile la critica assai malevola della gente a proposito. “I monaci e la gente del vicinato si chiedevano per qual motivo avessimo lasciato una regione ricca di pingui campi e vigne, com’era Disibodenberg, e così amena, per andare a finire in un luogo arido e solitario, in cui non c’era da aspettarsi alcun vantaggio e si mettevano insieme per andarci contro e c’era chi mi diceva vittima di false apparizioni”.
Non ultima cosa a farla soffrire era la reazione di alcune sue figlie: “Si separarono da me e alcune più tardi vivevano così disordinatamente, da far dire a molti che il loro operato di per sé rivelava che avevano peccato contro lo Spirito Santo e contro chi mosso dallo Spirito parlava loro. Quante poi mi volevano bene si domandavano con stupore come mai io venissi così provata, mentre non altro volevo che fare del bene”. Anche in seguito per alcuni anni ebbe a soffrire da parte delle sue figlie, che, come lei diceva, avendole viste nella visione, “…erano avvolte nella rete di spiriti aerei, che combattevano contro di noi e che le avevano catturate per mezzo di vanità. Alcune mi guardavano con occhi torvi e di nascosto mi mordevano con le loro critiche, dicendo che non potevano sottomettersi alla stretta della disciplina regolare, alla quale io le volevo costringere. Ma Dio mi diede sollievo per mezzo delle altre consorelle buone e sagge”. Nel Liber vitae meritorum (= “Libro dei meriti di vita”), la seconda grande opera di Ildegarda, in cui sono stati descritti trentacinque vizi, si dice che per descrivere questi vizi lei non dovesse fare altro che guardare alcune delle sue figlie!
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Sr. ANGELA CARLEVARIS osb
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