domenica 22 marzo 2020

«Piango quel bimbo mai nato»



Allora mi parlavano di libertà oggi faccio i conti col dolore

Due compagne di liceo che si rincontrano per caso, per strada, entrambe con una bambina in passeggino. Sono passati vent’anni. Ci si abbraccia, si dicono le cose essenziali: “Sono medico ho due figlie” la vita coagulata in quattro parole nel rumore del traffico. La voglia di fermarsi, via, almeno un caffè. Anna sorride ancora come allora, in un liceo di Milano alla fine degli anni Settanta. La bimba le somiglia in modo particolare. Nell’incontro casuale si ritrova, come per un incantesimo, l’intimità da compagne di banco e si parla di figli. Tu ne hai tre, io ne ho due. Mi piacerebbe, dice Anna, averne un terzo, ma col lavoro è impossibile, e però mi dispiace, fra poco ho quarant'anni...
E' un attimo, un'ombra sulla sua faccia: «Ce ne sarebbe stato un altro». Una pausa. «E successo all'inizio dell'università. Alla vigilia di un capodanno ho scoperto di essere incinta. Mi ricordo ancora la farmacia dove ho fatto il test: è in centro, non ci sono mai più entrata. "E' positivo", m'han detto, e io mi sono sentita crollare il mondo addosso. I miei non mi avrebbero mai perdonato. E io, quel bambino non lo volevo: l'idea anzi che "qualcuno" vivesse dentro di me mi suscitava sgomento. E' stata una decisione veloce, e, credevo, semplice. I miei non hanno saputo niente. Il mio ragazzo ha cercato di "sdrammatizzare": «In fondo, m'ha detto, è un giorno in ospedale». Questa sua frase non l'ho mai dimenticata. Razionalmente ero d'accordo con lui, eppure una parte di me è stata ferita tanto che dopo poco l'ho lasciato. E poi c'erano le amiche, femministe come lo erano tante allora. Le due con cui ho parlato mi hanno aiutato materialmente: mi hanno consigliato un ginecologo "amico", e si sono offerte di accompagnarmi. Sono state solidali; ma non mi hanno detto di pensarci ancora».
Una pausa, un altro caffè. «Il ginecologo era, effettivamente, un medico "democratico", come si diceva allora. Non mi ha fatto problemi. Anzi, siccome la gravidanza era proprio all'inizio ha praticato un intervento in studio, un'aspirazione, m'ha detto, dolorosa ma rapida, e ho pagato solo la visita. Sono uscita sollevata. Ero pallida nello specchio dell'ascensore di casa, mia madre non si è accorta di niente. Mi sono messa a studiare. Poi improvvisamente sono scoppiata a piangere, come non avevo pianto mai: un pianto disperato. Ero sbalordita perchè, in realtà, io non capivo perchè piangevo. Ho telefonato alla mia amica: è il crollo ormonale, m'ha detto, poi ti passa.
E certo poi ti passa, e ho smesso di piangere, e anche, per anni, di pensarci. Io non sono credente, e la parola "rimorso" non mi appartiene, mi ricorda le lezioni di catechismo, tristi e noiose. E però, quando sono rimasta incinta di Chiara il ricordo di quel giorno è tornato. Al terzo mese ero molto apprensiva, e il medico per rassicurarmi m'ha consigliato un'ecografia. M'hanno fatto sentire il battito del cuore, quella luce piccolissima che s'accendeva e spegneva sul monitor. E io in quel momento ho detto a mia figlia grande un centimetro: eccoti, ciao, ti aspettavo. Poi non subito, ma piano, sotterraneo, l'altro pensiero; il pensiero di quello che non è nato. E dopo che è arrivata Chiara, e poi la sorella, continua a tornare questo pensiero, tagliente. Sai che cos'è di meraviglia un bambino di pochi mesi, se pensi: ce n'era un altro, come questo, con questi occhi, e io non l'ho voluto, ti manca il fiato».
Un silenzio. La bambina in passeggino dorme, l'altra sta quieta, intenta sul suo telefonino giocattolo. «Rimorso, non è una parola che mi appartiene - dice Anna - io sto parlando di un dolore. L'aborto, nel clima dei miei vent'anni, era prima di tutto un diritto da rivendicare. Le amiche mi hanno sostenuto: la nostra libertà sopra tutto. E quel giovane medico ha risolto in fretta il problema, senza fare domande. Sono stata io a non volere quel figlio: io ho scelto. Ma, nel clima di quegli anni, sembrava quasi che rifiutare un figlio fosse  un'affermazione positiva di libertà. Del dolore, non mi avevano parlato". E’ tardi, ci si saluta, ci vediamo, o forse no. Venti minuti di sincerità, di verità "private" su un figlio non avuto, parole taciute fra le tante gridate sui giornali.

di Marina Corradi

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