Risulta subito chiaro che la paternità spirituale raggiunge una notevole profondità di quelle che si è soliti chiamare relazioni umane e ne costituisce un caso privilegiato. Si tratta infatti di due esseri che si trovano di fronte, che sono chiamati a fare un pezzo di strada insieme e tra i quali
deve accadere un evento importante. Una scintilla di vita sprizzerà dall'uno verso l'altro: non una vita qualsiasi, ma la vita stessa di Dio, la luce e la forza del suo Spirito. Evento spirituale, senza dubbio,
ma che in nessun momento potrà essere separato dall'intensità della relazione che unisce questi due individui.
Questa stessa intensità si trova al servizio del mistero della Parola di Dio che ancora
una volta è destinata a compiersi ma, come sempre, incarnandosi negli uomini che siamo noi. Ne consegue l'importanza capitale, in materia di paternità spirituale, della qualità stessa di questa relazione:
è proprio la qualità dell'esperienza vissuta in comune e non la quantità - cioè la frequenza dei contatti, il numero o la lunghezza delle lettere o dei colloqui - a permettere all'evento
di sbocciare; anzi, la quantità in alcuni casi rischierebbe di impedire che qualcosa avvenga e manterrebbe i due protagonisti in una stasi che presto si rivelerebbe futile e in ogni caso inefficace. Si può arrivare
a dire che l'accompagnamento spirituale è una delle forme più alte della relazione umana? Secondo il filosofo danese Kierkegaard, il padre spirituale è più di un amico, mentre Dante, parlando
di Virgilio, sua guida spirituale, confessa che per lui è più di un padre. L'antico termine celtico ananchara significa "padre della mia anima", e il linguaggio buddista usa l'espressione lama, "madre incomparabile"; possiamo ricordare anche il termine greco-ortodosso che indica il monaco come kalégeros, "bel vecchio", immagine che suggerisce sapienza e calore al contempo. Qual è questa qualità dell'essere al cui contatto la vita scaturisce?
Ha un nome solo: agépe, amore, perché è interamente a immagine di Dio e del Figlio suo tra di noi, di cui chi accompagna un fratello tende a diventare
l'icona.
Sul volto di un uomo e attraverso il suo modo di agire finiamo per percepire l'amore di Dio e tutte le sue sfaccettature di tenerezza e di fermezza. Ne veniamo sconvolti, trasformati: è come se una
profondità sconosciuta venisse scavata in noi. A volte abbiamo l'impressione di sapere finalmente chi siamo e perché esistiamo, ci viene svelato un nuovo nome, il nostro, quello vero: è come una rinascita,
un essere generati alla vera vita. La forza di un simile sconvolgimento spiega come mai, fin dalle prime generazioni cristiane, si utilizzano per descriverlo i termini di paternità e maternità. Eppure Gesù
sembra aver chiesto il contrario: "Non fatevi chiamare padre, né maestro... uno solo è il vostro Padre, uno solo il vostro Maestro". Ma già Paolo, in diversi passi delle sue lettere, descrive
la propria attività di apostolo come quella di un padre o addirittura come quella di una madre. E’ padre, come sostiene, perché attraverso l'evangelo ha generato dei figli in Cristo Gesù (cf.
iCor 4,14-15). Ma è anche madre, dato che altrove confessa di soffrire nel proprio corpo i dolori del parto finché Cristo non sia formato nei suoi discepoli (cf. Gal 4,19). Padre e madre nel contempo, a immagine
di Dio che è Padre al di là di ogni paternità e anche Madre al di là di ogni maternità terrena. D'altronde Gesù ha chiesto solo di non farsi chiamare padre: questa ingiunzione corrisponde a una delle condizioni essenziali per un accompagnamento spirituale fruttuoso.
Nessuno si arroga da sé una paternità,
non ci si può erigere a guida di un altro. Anzi, avviene il contrario: non è il padre che sceglie il discepolo, è invece il discepolo che discerne il proprio padre, a volte dopo averlo cercato a lungo.
In un certo senso possiamo addirittura dire che spetta al figlio far sbocciare una paternità, spetta al discepolo consentire al maestro di rivelarsi. Ci sarà quindi un atteggiamento del discepolo assolutamente
indispensabile affinché l'avvenimento possa prodursi: sarà un atteggiamento di completa disponibilità, di apertura, di attesa che riuscirà a ridestare in un altro la guida e il maestro che ancora
sonnecchia.
Un detto dei monaci del deserto lo diceva un po' bruscamente: "Perché i monaci di oggi non hanno più parole da offrire? - chiedeva un anziano - Perché i figli non sanno più
ascoltare". Detto cristiano che ricorda un proverbio indù: "Quando il discepolo è pronto, appare il maestro". Esiste infatti una certa correlazione, una sottilissima reciprocità precedente
tra il discepolo e il maestro.
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