IL SOVRANO DI ROMA
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Questa fermezza verso i propri parenti e questo suo distacco, conosciuti in città, gli conciliarono il rispetto e la venerazione dei romani. Il suo governo del resto si ispirava a una scrupolosa equità; e se nel suo sigillo aveva fatto imprimere come divisa il versetto del Salmista 1 : Utinam dirigantur viae meae ad custodiendas iustificationes tuas, non l'aveva fatto per vanagloria; ma l'applicava vegliando all'osservanza esatta del diritto. La sua riputazione di uomo integro era talmente nota, che nessuno avrebbe osato attendere da lui non dico una piccola infrazione alla giustizia, ma neppure la pili leggera transazione con la legge.
Per quel che riguarda la revisione da lui ordinata del processo dei Caraffa, si deve attribuire non già alla idea di voler biasimare la condotta di Pio IV, ma alla rettitudine della sua coscienza. Membro del giurì, chiamato nel 1560 a pronunciarsi sulla loro sorte, dal dibattito aveva ricevuta la penosa impressione che si trattasse d'una causa già risolta in antecedenza. Perciò volle che eminenti giuristi riesaminassero il processo, e gli esponessero apertamente ciò che ne pensavano.
Furono scoperti degli errori giudiziari. Allora Pio V radunò il Sacro Collegio, gli sottopose la relazione dei revisori del processo, e, dopo d aver sentito il parere del cardinali, informò quasi tutti i punti della prima sentenza.
San Carlo Borromeo non manifestò per questo alcun dispiacere, e tanto meno credette di esser preso di mira. Ben lontano dal favorire il rigore di suo zio, l'aveva anzi pregato di soprassedere all'esecuzione. Se non poté impedire la morte violenta del cardo Caraffa, e se, per non dispiacere a Pio IV ereditò i benefizi e la mobilia della povera vittima, poté però ottenere che venisse scarcerato il giovane card. Alfonso, arcivescovo di Napoli.
Pio V, desideroso di riabilitare e punire nello stesso tempo, condannò alla fustigazione o alla morte quelli che avevano fraudolentemente esagerate le colpe dei Caraffa; quindi impose la restituzione dei beni confiscati a questa famiglia, e il ricollocamento dei suoi stemmi in tutti i luoghi dai quali erano stati tolti.
Di più, siccome i romani avevano vituperata la memoria di Paolo IV per le ingiuste attribuzioni dei delitti dei suoi nipoti, era giusto che si rimettesse in onore il suo nome tanto diffamato. Costrinse anzitutto i canonici di San Pietro a riporre nella loro sacristia il busto di Paolo IV, ch'essi in ossequio a Pio IV avevano rimosso, e con un'iscrizione che doveva essere come una riparazione salutò in Paolo IV “un santo vescovo della legge cristiana, un principe molto pio, il padre della patria”.
Fu coniata una medaglia coll'effigie del defunto, e nell'attesa che sul Campidoglio gli fosse di nuovo innalzata una statua, il suo feretro venne trasportato dalla cripta di S. Pietro alla chiesa della Minerva, ove un epitaffio latino attesta tuttora “l'eloquenza, la dottrina, la saviezza, la singolare innocenza e la grandezza d'animo” del pontefice, e a buon diritto lo proclama “difensore intrepido della fede cattolica”.
Ma non soltanto i morti dovevano essere vendicati, anche la virtù dei viventi esigeva una riparazione. Nel 1576 l'ambasciatore di Venezia, Tiepolo, scriveva che Roma “usciva finalmente dalla disistima in cui era caduta”, e questo lo si doveva a Pio V. I felici risultati ottenuti dimostrano che la maniera di agire del Papa cominciava a dare i suoi frutti. Era necessario un braccio vigoroso per togliere gli abusi, che consumavano il succo vitale della Chiesa, e il Papa si mise coraggiosamente all'opera sin dall'inizio del suo pontificato 2 .
Diede un primo colpo alla corruzione morale, facendo allontanare dalla città le donne di costumi leggeri. Un tale decreto fece stupire la Roma gaudente, e gli edili, credendo che il Papa avesse presa quella misura senza la debita riflessione, si azzardarono ingenuamente di far presso di lui dei passi, per farla revocare.
L'accoglienza ricevuta li convinse ben presto del loro errore. Punto nella delicatezza della sua coscienza, Pio V dichiarò netto che se pensavano di eludere i suoi ordini, avrebbe piuttosto trasferito altrove la sua corte, anziché aver l'apparenza di complicità nel libertinaggio.
Quindi, perché si comprendesse che il primo pensiero era la salvezza delle anime, al cui confronto le considerazioni finanziarie non avevano alcun valore, soppresse un buon numero di osterie e taverne che pagavano tassa d'esercizio. Volle tuttavia che una parte di queste rimanesse aperta per i forestieri; ma interdisse ai romani di frequentarle, come occasione di scostumatezza e rovina.
Non volle però che fossero proibiti i giuochi e i divertimenti innocenti, e permise le corse a cavallo, allora assai in voga, mutando solo il luogo della pista, che da piazza S. Pietro, piena dei ricordi di tanti martiri, fu trasferita, sulla via Flaminia, l'attuale Corso.
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Card. GIORGIO GRENTE
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