1861-1878: SCONFITTO O VINCITORE?
I. La questione romana: da Cavour a Porta Pia
Immediatamente dopo la proclamazione del Regno, il 25 marzo 1861, il conte di Cavour annunciò alla Camera dei deputati che «Roma sola deve essere capitale d'Italia» 1. L'obiettivo cavouriano, due giorni dopo, venne sancito di fronte a tutta l'Europa dal voto del primo Parlamento nazionale. La caduta del potere temporale del Papa non è più, a partire da questo momento, il programma occulto delle società segrete, ma quello pubblico ed ufficiale del Regno d'Italia appena costituito. Nasce così, come problema internazionale, la «questione romana» 2.
Tutto l'ampio ventaglio di forze rivoluzionarie che confluisce nel "fascio" risorgimentale, dal neoguelfismo al liberalismo "cattolico", fino alle punte più accese del radicalismo democratico, trova il suo momento catalizzatore e aggregante nel mito della Roma "rigenerata" e "riformata", perché liberata dal principato civile del Pontefice. «La capitale del mondo pagano e del mondo cattolico - scrive De Sanctis, uno degli autori più rappresentativi dell'Italia risorgimentale - è ben degna di essere la capitale dello spirito moderno. Roma è dunque per noi non il passato, ma l'avvenire. Noi andremo là per distruggervi il potere temporale e per trasformare il papato» 3.
La "questione romana" è dunque realmente la "questione" del Risorgimento, di cui costituisce non un'appendice politico-diplomatica, ma il filo conduttore e il compimento. «La Rivoluzione attuale - scriveva Giuseppe Montanelli - mosse da Roma e prima o poi a Roma dovrà compirsi» 4. Il 1870, «l'Ottantanove d'Italia» 5, rappresenterà l'epilogo e il simbolico compimento del Risorgimento, o addirittura, per le società segrete, come affermerà il Gran Maestro della Massoneria italiana Adriano Lemmi, «il più memorabile avvenimento della storia del mondo» 6. «Siate tranquilli sul conto nostro - confiderà Cavour a Henry d'Ideville - noi impiegheremo cinquant'anni per compiere il nostro Ottantanove, evitando le scosse e gli eccessi attraverso i quali siete passati voi» 7.
La posizione di Pio IX sulla "questione romana" è ormai netta. Con le allocuzioni concistoriali Novos et ante 8 del 28 settembre 1860, Iamdudum cernimus 9 del 18 marzo 1861, Maxima quidem 10 del 9 giugno 1862, il Papa reitera la sua condanna delle pretese rivoluzionarie, sostenuto dall'adesione dell'episcopato cattolico, rinnovata al Pontefice nel Concistoro del 9 giugno 1862 da più di trecento arcivescovi o vescovi di tutto il mondo. Nelle sole province meridionali intanto il governo in pochi mesi processa e confina sessantasei vescovi (più della metà), tra i quali i cardinali arcivescovi di Napoli Sisto Riario Sforza, e di Fermo Filippo De Angelis 11, mentre le popolazioni del meridione resistono sotto forma di "brigantaggio" all'invasione piemontese 12. «La battaglia che si fa contro il Pontificato Romano - ribadisce Pio IX - non tende solamente a privare questa Santa Sede e il Romano Pontefice di ogni suo civile Principato ma cerca anche di indebolire e, se fosse possibile di togliere, totalmente di mezzo ogni salutare efficacia della Religione cattolica: e perciò anche l'opera stessa di Dio, il frutto della redenzione, e quella santissima fede che è la preziosissima eredità a noi pervenuta dall'ineffabile sacrificio consumato sul Golgota» 13. Due anni dopo, nel Sillabo dell'8 dicembre 1864, vengono esplicitamente condannate due proposizioni che si riferiscono al principato civile del Pontefice romano. Sono la 75: «Sulla compatibilità del regno temporale con lo spirituale disputano fra di loro i figli della cristiana e cattolica Chiesa» e la 76: «L'abolizione del civile imperio che possiede la Sede Apostolica gioverebbe moltissimo alla libertà e felicità della Chiesa». Nel 1865 nella allocuzione Multiplices inter 14, Pio IX, sulla scia dei suoi predecessori, rinnova la condanna e la scomunica delle società segrete, in particolare la Carboneria e la Massoneria, «che con le diversità delle sole apparenze si costituiscono di giorno in giorno e congiurano contro la Chiesa e la legittima potestà, sia in pubblico come in privato» 15.
Poche settimane dopo la proclamazione del Regno d'Italia, il conte di Cavour fu colpito da un'apoplessia che lo portò improvvisamente alla morte, la mattina del 6 giugno 1861. Durante il delirio che precede la morte, la vita è ancora così potente in lui che attraverso il vestibolo e due saloni si sentono risuonare le sue ultime parole, prive di senso: «Imperatore! Italia! Niente stato d'assedio!» 16. Un francescano amministra i Sacramenti al conte, scomunicato, senza esigere la ritrattazione degli errori 17.
L'opera di Cavour venne continuata da Bettino Ricasoli 18, il "barone di ferro" toscano, che ispirava la sua azione politica a un profetismo riformatore giustamente paragonato da Spadolini a quello mazziniano 19. Cavour stesso, sul letto di morte, aveva molte volte pronunciato il nome di Ricasoli indicandolo al Re come suo successore. Egli fu il primo della lunga serie di ex collaboratori di Cavour - Rattazzi, Farini, Minghetti, Lamarmora e Lanza - che si succedettero l'uno dopo l’altro alla Presidenza del Consiglio senza avere nessuno l'esperienza e l'abilità dell'artefice dell'unità d'Italia.
Il 24 giugno 1861 Napoleone III riconobbe ufficialmente come "Re d'Italia" Vittorio Emanuele II, con il quale il sovrano francese aveva rotto le relazioni diplomatiche a seguito dell'occupazione delle Marche e dell'Umbria. A partire da questo momento tra il re d'Italia e l'Imperatore dei Francesi, si sviluppò un rapporto ambiguo e contraddittorio sulla "questione romana" destinato ad avere un primo sbocco nella "Convenzione di settembre", stipulata a Parigi il 15 settembre del 1864 tra l'Italia e la Francia 20. Con tale accordo l'Italia si impegnava a non attaccare lo Stato Pontificio e a trasferire la capitale del Regno da Torino a Firenze; la Francia si obbligava a ritirare gradualmente, ma entro lo spazio di due anni, le sue truppe da Roma. La diplomazia pontificia, tenuta all'oscuro delle trattative, era persuasa, come tutti, che Firenze costituisse solo una tappa verso la conquista di Roma. «Chi volesse definire quella Convenzione - scrive la "Civiltà Cattolica" non potrebbe dirla meglio, che Negotium perambulans in tenebris. Nelle tenebre fu concepito e nelle tenebre che proceda» 21.
Il 22 ottobre 1865 si votò per la prima volta in Italia dopo la morte di Cavour. Su venti milioni di abitanti che comprendeva il Regno da poco unito, senza Roma e Venezia, solo 504.263 erano i cittadini aventi diritto al voto, in base ai requisiti richiesti di istruzione e di censo, e solo 271.923 gli italiani che concretamente lo espressero recandosi alle urne. Firenze è da pochi mesi la nuova capitale del Regno unitario.
Nel 1866 il Regno d'Italia, raggiunse frattanto la sua altra meta: l'annessione di Venezia e del Veneto in seguito alla guerra austro-prussiana. Il governo austriaco si disse disposto a cedere Venezia e il Veneto a Vittorio Emanuele attraverso Napoleone III, purché l'Italia rimanesse neutrale. Il governo italiano, mosso dall'avversione antiaustriaca e dal desiderio di mostrare sul campo le proprie qualità belliche, rifiutò però l'offerta e il 20 giugno 1866, sotto la guida di Ricasoli, dichiarò guerra all'Austria. Mentre l'esercito prussiano passava di vittoria in vittoria, quello italiano, guidato dai generali Lamarmora e Cialdini, venne disfatto per terra a Custoza, il 24 giugno, e sul mare, a Lissa, il 20 luglio. Sconfitta sul campo, l'Italia ottenne una vittoria umiliante, accettando di ricevere il Veneto dall'Austria per le mani di Napoleone. La prima guerra nazionale del nuovo Regno d'Italia, da tutti invocata, lasciò uno strascico profondo di amarezze e di delusione.
In quella stessa estate del 1866, nei mesi di luglio e agosto viene approvata dalla Camera e dal Senato la legge per la soppressione degli enti ecclesiastici e la liquidazione dell'asse ecclesiastico, che sopprime venticinquemila enti devolvendone i beni al pubblico demanio e successivamente li mette all'asta in tutta Italia, avvantaggiando la nuova borghesia che se li accaparra a un prezzo inferiore al loro reale valore. Tale legge non solo attenta gravemente alla libertà della Chiesa italiana, ma ha drammatiche ripercussioni sociali, perché i cittadini perdono i diritti fino allora goduti nelle terre di proprietà ecclesiastica, a tutto vantaggio della nuova borghesia liberale 22.
Nel giugno del 1867, la Costituente massonica riunita a Napoli riacclama Garibaldi Primo Massone d'Italia e Gran Maestro Onorario. Il Gran Maestro effettivo è per la seconda volta Filippo Cordova 23 che, nel nuovo governo, guidato da Urbano Rattazzi, ricopre la carica di ministro di Grazia e Giustizia e Culto.
Alla fine di settembre del 1867, scoppiano nello Stato Pontificio una serie di moti che si propongono di fare cadere il governo dall'interno di Roma, mentre Garibaldi avrebbe dovuto invaderla dall'esterno. Pio IX prevedendo gli avvenimenti non è rimasto inattivo. Nel 1865, egli ha nominato Pro-Ministro delle Armi, in sostituzione di mons. de Mérode, il generale Ermanno Kanzler 24 ufficiale con un brillante passato militare, stimato e benvoluto dai suoi soldati 25. In breve tempo viene riorganizzato un piccolo esercito sovranazionale di circa 13000 uomini che non ha niente da invidiare a qualsiasi esercito dell'epoca per armamento e spirito bellico 26. Tutto l'esercito viene diviso in due brigate: una sotto il comando del generale Raffaello de Courten, l'altra del generale marchese Zappi.
Gli episodi più drammatici avvengono il 22 ottobre nella Caserma Serristori degli zuavi a Borgo Santo Spirito, dove due terroristi, Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti, fanno saltare un'intera ala dell'edificio, provocando la morte di ventisette zuavi e di quattro civili 27; due giorni dopo a Villa Glori, alle porte di Roma, dove una colonna di circa ottanta uomini guidata dai fratelli Giovanni ed Enrico Cairoli viene sgominata dalle truppe pontificie dopo una violenta mischia; il 25 ottobre a Trastevere, dove la Casa Aiani, trasformata in fortezza, viene espugnata nonostante l'accanita resistenza dei difensori incitati dalla popolana Giuditta Taiani-Arquati, che muore, assieme a un figlioletto, con la rivoltella in pugno.
Se la sollevazione romana fallisce, ciò è dovuto anche alla grande popolarità di Pio IX. «Verso sera - ricorda uno dei congiurati, Vittorio Ferrari - proprio nell'ora in cui il corso di Roma è più animato, lo spettacolo che si offriva al passaggio della berlina papale era quello di un'onda marina procedente e maestosa. Tutta la gente sostava e si sistemava a terra di mano in mano che la carrozza procedeva. E così via fino a Porta del Popolo. Noi ci fissammo in viso l'un l'altro come estatici a quello spettacolo: quando rinvenimmo dallo stupore, ci domandammo: "Che siamo venuti a fare noi?"» 28.
Negli stessi giorni Garibaldi invade lo Stato Pontificio per rovesciare «il più schifoso dei governi» 29, «il governo di Satana» 30, e alla testa di circa undicimila uomini riesce ad entrare a Monterotondo, dove i suoi soldati si danno ad azioni vandaliche. All'alba del 3 novembre il generale Kanzler lo affronta a Mentana 31. Il combattimento, durissimo, si conclude nel pomeriggio, con un decisivo attacco alla baionetta dei pontifici che vincono lasciando trenta morti e centotré feriti sul campo, contro circa un migliaio, tra morti, feriti e prigionieri dei seguaci di Garibaldi. Le accoglienze ai soldati pontifici furono trionfali, ma nei solenni funerali per i caduti celebrati alla Sistina, Pio IX pianse a lungo e non riuscì a terminare le preghiere 32. «Ben diversamente dal 16 novembre 1848 - osserva Martina - la rivoluzione era fermata: fermata, non vinta» 33.
Henry d'Ideville, il diplomatico francese che a Torino era stato affascinato da Cavour, traccia in questi giorni un amaro quadro dei primi frutti dell'unificazione italiana: «L'unità italiana ha generato il garibaldinismo, la guerra contro la religione, il prestito forzoso, l'imposta sul reddito accompagnata dalle più pesanti tasse dirette e indirette: questa unità condannò fatalmente il paese alla bancarotta, all'irreligione e al disordine sotto l’una o l’altra forma» 34.
Una confederazione che restituisca ai Borboni il trono di Napoli, la Toscana al Granduca, Parma e Modena ai loro duchi e rimandi Vittorio Emanuele a Torino «con la Lombardia e il Veneto come premio di consolazione» 35, è per il conte d'Ideville e per molti conservatori la soluzione più saggia. «La confederazione - egli scrive - sarebbe la soluzione conservatrice della questione italiana e credo non vi sia un italiano amante del paese e della religione che non desideri questa soluzione» 36.
Roberto De Mattei
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