La dimora del Padre nelle anime
Il sacrificio di Cristo ha operato la riconciliazione degli uomini con Dio. Da quel momento noi abbiamo, secondo le parole di san Paolo, « accesso al Padre »; possiamo cioè considerarci come facenti parte della sua casa, come suoi familiari, ricorrere a lui nei nostri bisogni e contare sul suo aiuto. Il Padre ci offre la sua intimità e si mette a nostra disposizione: possiamo dirgli ogni cosa, con l'audacia che usiamo solitamente con le persone che conosciamo bene, dalle quali non attendiamo che favori e simpatia. Le relazioni col Padre devono essere ispirate dalla confidenza, dato che l'accesso a lui è libero'. Vi è qui un'atmosfera nuova, diversa da quella dell'Antico Testamento, in cui il timore, senza tuttavia escludere l'amore, aveva la parte più importante nelle relazioni degli ebrei con Jahvé.
Per definire le relazioni d'intimità col Padre, san Giovanni usa una espressione forte ed efficace: « Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui » 3. E basa quest'affermazione sul principio che « Dio è amore », per cui stare nell'amore è stare in Dio. Abbiamo visto come la presenza della carità nei nostri cuori implicasse una presenza dell'amore del Padre. Consapevole di questa verità, san Giovanni considera il nostro rapporto col Padre più profondo di quanto non sia un semplice accesso a lui considerato come un familiare; perché chi sta nella carità non sta soltanto col Padre come un figlio della sua casa, ma in lui; la sua dimora è nell'essere stesso di Dio. Si noti la differenza che esiste tra « stare con qualcuno » o « stare presso qualcuno », e « stare in qualcuno ». In quest'ultimo caso l'intimità si riferisce al più profondo dell'essere; è una condizione vitale. Stare in Dio significa trovare in lui la sorgente della propria vita.
Questo dimorare in Dio significa anche che si trova in lui il proprio riposo. Il termine « dimorare » evoca calma e tranquillità: si sta in Dio in maniera stabile, al di sopra del flusso e del riflusso degli avvenimenti terreni. Ha in certo senso inizio la stabilità della vita eterna. Questa stabilità è superiore non solo a tutte le prove e gli sconvolgimenti esterni che travagliano un'esistenza umana, ma resiste pure ai movimenti e mutamenti psichici, alle variazioni dei moti affettivi, purché si rimanga nella carità. Non è necessario sentire che si dimora in Dio; il sentimento non può essere costante: esso va e viene. Ma il fatto che si sia in lui, indica un'intimità che persiste obiettivamente, quali che siano le impressioni soggettive che si possono avere.
E questa intimità Cristo aveva voluto conservare con i discepoli; al momento di lasciarli, aveva chiesto loro di rimanere nella sua carità, al fine di restare non soltanto con lui, ma in lui. « Rimanete nella mia carità, aveva detto, rimanete in me, come io in voi ». Ed è questa stessa intimità che deve legarci al Padre, poiché si tratta, in forza della carità, di dimorare in Dio, intimità tutta reciproca, perché Dio dimora a sua volta in noi.
Una tale reciprocità ha qualche cosa di sconcertante. È abbastanza facile concepire la nostra dimora in Dio, poiché Dio è l'essere infinitamente grande, che può tutto contenere e tutto circondare. Abitare in lui significa abitare in un abisso di cui non vediamo il fondo. E se è già motivo di entusiasmo pensare che il Padre ci accoglie nell'immensità del suo essere divino e che in tale immensità, invece di sentirci sperduti o schiacciati, godiamo l'intimità del suo amore paterno, e ancora più inebriante il pensiero che Dio dimora in noi. Che Dio contenga noi è comprensibile; ma che noi conteniamo Dio in noi stessi, è davvero sorprendente. Che la piccolezza umana possa contenere l'immensità divina, che il Padre voglia abitare nelle sue creature, come non fosse un favore sufficiente l'averle accolte in sé, ci riempie di uno stupore immenso. Soltanto l'ardore di un cuore paterno senza limiti poteva portare Dio a risiedere stabilmente in esseri tanto inferiori a lui e usciti interamente dalla sua mano.
Il Padre, non contento di averci dato lo Spirito Santo, col quale ci elargisce il suo amore e ci dà il suo cuore in pegno; non contento di far « abitare Cristo nei nostri cuori » in virtù dello stesso Spirito Santo, viene egli stesso in persona, col suo Spirito e il Figlio suo, ad abitare in noi. Gesù lo aveva annunciato, dicendo dello Spirito Santo: « Egli abiterà con voi e sarà in voi »; e del Padre e di sé: « Chiunque mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà, e noi verremo da lui, e faremo dimora presso di lui ».
Con questa promessa egli andava ben oltre quello che nell'Antico Testamento era stato presentato come il favore supremo concesso ad Abramo: la visita che tre uomini gli avevano fatto sotto le querce della valle di Mambre e che aveva il significato di un'apparizione dello stesso Jahvé. Il patriarca era corso loro incontro appena li aveva scorti, aveva offerto loro ospitalità e servito il pranzo con le sue mani. Quella visita era una prima figura di questo modo di procedere di Dio, il quale spinge la sua benevolenza fino a venire a cercare riposo tra gli uomini, ad accettare gli umili omaggi e i servigi, partecipare al loro pasto in segno di una comunità di vita. Nella visita dei tre personaggi senza nome è adombrato un mistero, che, considerato. a distanza di tempo, alla luce del Nuovo Testamento, ci sembra indicare già l'intenzione delle tre persone divine di venire ad abitare tra gli uomini. È una prima figura, e assai imperfetta, perché si tratta di una visita breve e di un incontro esteriore. Mentre la realtà la supera di molto; essa consiste in un incontro che avviene nelle profondità dell'anima e in una visita che diventa dimora perpetua, e al posto dei tre personaggi senza nome noi riceviamo in noi le tre persone divine che Cristo ci ha rivelato.
È significativo che Gesù citi come fondamento della venuta della Trinità in noi l'amore del Padre: « Mio Padre lo amerà e noi verremo da lui ». Tutto ha origine nel cuore del Padre; il suo amore paterno comanda le relazioni tra Dio e noi. Tuttavia l'amore del Padre non appare qui come la realtà che precede tutte le altre, poiché esso si manifesta in risposta alla carità degli uomini; per goderne, noi dobbiamo prima amare Cristo e osservare i suoi comandamenti. Vi è forse contraddizione con- il primato assoluto dell'amore del Padre che, come abbiamo visto, si rivolge a noi con una generosità tutta gratuita e indipendentemente dai nostri meriti, per puro favore divino? No, perché quell'amore primo rimane; ma per compiere il suo disegno in ogni anima individuale esso ha bisogno di una libera collaborazione dell'anima stessa. L'amore del Padre non ci costringe a seguirlo né c'incatena a sé per forza; appunto perché è amore, esso evita di asservirci, di privarci della nostra spontaneità e della padronanza di noi stessi; ma ha la delicatezza di rispettare scrupolosamente la nostra libertà. Soltanto in virtù del nostro consenso e della nostra buona volontà il Padre stabilisce in noi la sua dimora. Quando un uomo si trova in buone disposizioni, un nuovo amore, per così dire, viene a rinforzare l'amore primitivo che il Padre nutriva per lui; e in virtù di questo nuovo amore il Padre inizia ad abitare nell'anima sua, realizzando pienamente il suo amore per noi.
Il Padre non vuole dunque entrare in un'anima per effrazione, bensì quando le porte gli si spalancano spontaneamente. E allora, accolto da una volontà che gli si offre liberamente, con quanto compiacimento egli penetra in quell'anima, con quanta soddisfazione il suo cuore paterno prende riposo nel cuore dell'uomo! Dal Vangelo possiamo intuire la gioia che doveva provare Cristo quando, alla sera di una faticosa giornata, andava a riposare a Betania nella casa di Lazzaro, di Marta e di Maria. L'elogio dell'atteggiamento di Maria, piena di sollecitudine per Gesù, rivela il valore che egli attribuiva all'essere ricevuto non solo nella casa, ma anche nel cuore di coloro che l'abitavano. Con la stessa sollecitudine il Padre entra nei cuori che si aprono a lui e li riempie della sua presenza consolatrice.
La sua venuta nell'anima avviene con delicatezza tale da passare facilmente inosservata. Il Padre non e un ospite importuno che impone la sua presenza come un peso; né un gran personaggio la cui importanza provoca imbarazzo. Lo portiamo in noi senza accorgercene, senza provare turbamento né disagio. Egli modella la sua presenza sulla forma della nostra vita e ne segue il ritmo per meglio entrare nella nostra intimità; in modo che è difficile per noi persuaderci che egli, l'Essere onnipotente, abiti veramente in noi. Infatti egli dimora in noi nel silenzio, mentre potrebbe rivelarsi, se lo volesse, nello splendore della sua luce o in una paurosa affermazione della sua sovranità; è il suo il silenzio della bontà che si mette a disposizione del prossimo senza farsi notare, il silenzio dell'amore che si fa tutto a tutti. Benché possa protrarsi senza farsi riconoscere né sentire, la presenza amorosa del Padre crea nell'anima una atmosfera nuova apportando un riflesso della gioia celeste. È una felicità segreta, a volte appena percettibile ma sicura, un senso di pace, quella pace dell'amicizia divina che è un dono della redenzione, la conseguenza della riconciliazione avvenuta tra Dio e gli uomini; la pace che gli ebrei auguravano quando salutavano, che san Paolo menzionava al principio delle sue lettere come un dono essenziale proveniente dal Padre e da Cristo: « A voi, egli scriveva, grazia e pace da parte di Dio nostro Padre e del Signore Gesù Cristo ». Nell'anima in cui l'amore divino ha trionfato, la pace ha preso il posto del tormento interiore, del profondo dissidio che il peccato ha prodotto nell'uomo. Separando l'uomo dal suo Creatore e il figlio dal Padre, il peccato provoca una frattura nell'anima, un'insoddisfazione fondamentale, una perturbante inquietudine; ma con la grazia, che sopprime lo stato di peccato e, di conseguenza, ogni causa di turbamento, sopravviene un senso di soddisfazione, di pace profonda, che deriva appunto dalla presenza del Padre e che testimonia l'accordo dell'uomo con Dio e di conseguenza con se stesso. La gioia che proviene dall'accordo con Dio altro non è che il sentimento, discreto ma reale, di una coscienza pura; sentimento che ha tanta parte nella felicità di un'esistenza umana e che, ripetiamo, è sostenuto e sviluppato dalla dimora del Padre nell'anima.
Se riuscissimo ad approfondire maggiormente le verità della fede e a comprenderne tutta la grandezza, noi considereremmo la dimora del Padre in una anima ben disposta una delle verità più consolanti. Il Padre è molto più vicino a noi, molto più unito alla nostra esistenza di quanto supponiamo, e vive in nostra compagnia più di quanto noi viviamo nella sua. Perciò la felicità profonda che egli ci offre lasciandosi possedere da noi, la dimensione che con la sua presenza dà alla nostra anima dovrebbe essere motivo di un'esultanza ben più viva. Quale immensa gioia « possedere il Padre! », secondo l'espressione di san Giovanni, il quale ancora dichiara: « Colui che riconosce il Figlio possiede egualmente il Padre! ».
Di Jean Galot s. j.
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