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martedì 22 dicembre 2020

Dalla Gerarchia Cardinalizia di Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta

 


Santi Martiri del I – II e III Secolo


Santa Cecilia. 

 22 luglio 1944. 

 Festività di S. Maria Maddalena. 

***

Non c’è il Credo. Almeno io non lo sento dire. Dei diaconi  passano fra i fedeli raccogliendo offerte, mentre altri diaconi  cantano con la loro voce virile alternando le strofe di un inno  alle voci bianche delle vergini. Volute di incenso salgono verso  la volta della sala mentre il Pontefice prega all’altare e i diaconi sollevano sulle palme le offerte raccolte in vassoi preziosi e in  anfore pure preziose. 

La Messa prosegue ora così come è adesso. Dopo il dialogo  che precede il Prefazio, e il Prefazio cantato dai fedeli, si fa un  grande silenzio in cui si odono solo le aspirazioni e i sibili del 

celebrante che prega curvo sull’altare e che poi si solleva e a voce più distinta dice le parole della Consacrazione. 

Bellissimo il Pater intonato da tutti. Quando si inizia la  distribuzione delle Specie i diaconi cantano. Vengono  comunicate le vergini per prime. Poi cantano esse il canto udito  per la sepoltura di Agnese:72 “Vidi supra montem Sion Agnum  stantem...”. Il cantico dura sinché dura la distribuzione delle  Specie alternandosi al salmo: “Come il cervo sospira alle acque, così l’anima mia anela Te mio Dio”73 (credo avere tradotto  bene). 

La Messa ha termine. I cristiani si affollano intorno al  Pontefice per esserne benedetti anche singolarmente e per  accomiatarsi dalla vergine a cui si è rivolto il Pontefice. Questi  saluti avvengono però in una sala vicina, una anticamera, direi,  della chiesa vera e propria. E avvengono quando la vergine,  dopo una preghiera più lunga di tutte degli altri presenti, si alza dal suo posto, si prostra ai piedi dell’altare e ne bacia il bordo.  Pare proprio un cervo che non sappia staccarsi dalla sua fonte d’acqua pura. 

Sento che la chiamano: “Cecilia, Cecilia”74 e la vedo,  finalmente, in viso, perché ora è ritta presso il Pontefice e si è  un poco sollevato il velo. È bellissima e giovanissima. Alta,  formosa con grazia, molto signorile nel tratto, con una bella voce e un sorriso e uno sguardo d’angelo. Dei cristiani la salutano con lacrime, altri con sorrisi. Alcuni le dicono come  mai si è potuta decidere a nozze terrene, altri se non teme l’ira del patrizio quando la scoprirà cristiana. 

Una vergine si rammarica che ella rinunci alla verginità. 

Risponde Cecilia a lei per rispondere a tutti: “Ti sbagli, Balbina. 

Io non rinuncio a nessuna verginità. A Dio ho sacrato il mio  corpo come il mio cuore e a Lui resto fedele. Amo Dio più dei  parenti. Ma li amo ancora tanto da non volerli portare a morte prima che Dio li chiami. Amo Gesù, Sposo eterno, più d’ogni uomo. Ma amo gli uomini tanto da ricorrere a questo mezzo per non perdere l’anima di Valeriano. Egli mi ama, ed io  castamente lo amo, perfettamente lo amo, tanto da volerlo avere  meco nella Luce e nella Verità. Non temo le sue ire. Spero nel  Signore per vincere. Spero in Gesù per cristianizzare lo sposo  terreno. Ma se non vincerò in questo, e martirio mi verrà dato,  vincerò più presto la mia corona. Ma no!... Io vedo tre corone  scendere dal Cielo: due uguali e una fatta di tre ordini di  gemme. Le due uguali sono tutte rosse di rubini. La terza è di  due fasce di rubini intorno e un grande cordone di perle  purissime. Esse ci attendono. Non temete per me. La potenza  del Signore mi difenderà. In questa chiesa ci troveremo presto uniti per salutare dei nuovi fratelli. Addio. In Dio”. 

Escono dalle catacombe. Si avvolgono tutti in mantelli scuri e sgattaiolano per le vie ancora semioscure perché l’alba è appena appena al suo inizio. 

Seguo Cecilia che va insieme a un diacono e a delle vergini.  Alla porta di un vasto fabbricato si lasciano. Cecilia entra con  due vergini sole. Forse due ancelle. Il portinaio però deve essere cristiano perché saluta così: “Pace a te!”. 

Cecilia si ritira nelle sue stanze e insieme alle due prega e poi  si fa preparare per le nozze. La pettinano molto bene. Le  infilano una finissima veste di lana candidissima, ornata di una  greca in ricamo bianco su bianco. Sembra ricamata in argento e  perle. Le mettono monili alle orecchie, alle dita, al collo, ai polsi.  La casa si anima. Entrano matrone e altre ancelle. Un via vai festoso e continuo. 

Poi assisto a quello che credo sia lo sposalizio pagano. Ossia l’arrivo dello sposo fra musiche e invitati e delle cerimonie di saluti e aspersioni e simili storie, e poi la partenza in lettiga  verso la casa dello sposo tutta parata a festa. Noto che Cecilia  passa sotto archi di bende di lana bianca e di rami che mi  paiono mirto e si ferma davanti al larario, credo, dove vi sono  nuove cerimonie di aspersioni e di formule. Vedo a odo i due darsi la mano e dire la frase rituale: “Dove tu, Caio, io Caia”. 

Vi è tanta di quella gente e su per giù tutta in vesti uguali:  toghe, toghe e toghe, che non capisco quale sia il sacerdote del rito e se c’è. Mi pare di avere il capogiro. 

Poi Cecilia, tenuta per mano dallo sposo, fa il giro dell’atrio (non so se dico bene), insomma della sala a nicchie e colonne  dove è il larario, e saluta le statue degli antenati di Valeriano,  credo. E poscia passa sotto nuovi archi di mirto ed entra nella vera casa. Sulla soglia le offrono doni e, fra l’altro, una rocca e un fuso. Glie la offre una vecchia matrona. Non so chi sia. 

La festa si inizia col solito banchetto romano e dura fra canti  e danze. La sala è ricchissima come tutta la casa. Vi è un cortile - credo si chiami impluvio, ma non ricordo bene i nomi della  edilizia romana né so se li applico giusti - che è un gioiello di fontane, statue e aiuole. Il triclinio è fra questo e il giardino  folto e fiorito che è oltre la casa. Fra i cespugli, statue di marmo  e fontane bellissime. 

Mi sembra passi molto tempo perché la sera scende. Si vede che per i romani non c’erano le tessere.75 Il banchetto non  finisce mai. È vero che vi sono soste di canti e danze. Ma  insomma... 

Cecilia sorride allo sposo che le parla e la guarda con amore.  Ma pare un poco svagata. Valeriano le chiede se è stanca e,  forse per farle cosa gradita, si alza per licenziare gli ospiti. 

Cecilia si ritira nelle sue nuove stanze. Le sue ancelle  cristiane sono con lei. Pregano e, per avere una croce, Cecilia  bagna un dito in una coppa che deve servire alla toletta e segna  una leggera croce scura sul marmo di una parete. Le ancelle la  svestono del ricco abito mettendole una semplice veste di lana,  le sciolgono i capelli levandone le forcine preziose e glie li  annodano in due trecce. Senza gioielli, senza riccioli, così, con le  trecce sulle spalle, Cecilia pare una giovinetta, mentre giudico  abbia dai 18 ai 20 anni. 

Un’ultima preghiera e un cenno alle ancelle che escono per tornare con altre più anziane, certo della casa di Valeriano. In  corteo vanno ad una magnifica camera e le più vecchie  accompagnano Cecilia al letto che è poco dissimile dai divani  alla turca di ora, soltanto la base è di avorio intarsiato e colonne  di avorio sono ai quattro lati, sorreggenti un baldacchino di  porpora. Anche il letto è coperto di ricchissime stoffe di  porpora. La lasciano sola. 

Entra Valeriano e va a mani tese verso Cecilia. Si vede che l’ama molto. Cecilia sorride al suo sorriso. Ma non va verso lui. 

Resta in piedi al centro della stanza, perché, non appena uscite le vecchie ancelle che l’avevano adagiata sul letto, ella si è rialzata. 

Valeriano se ne stupisce. Crede non l’abbiano servita a dovere ed è già iracondo verso le ancelle. Ma Cecilia lo placa  dicendo che fu lei a volerlo attendere in piedi. 

“Vieni, allora, Cecilia mia” dice Valeriano cercando di  abbracciarla. “Vieni, ché io ti amo tanto”. 

“Io pure. Ma non mi toccare. Non mi offendere con carezze umane”.  

“Ma Cecilia!... Sei mia sposa”. 

“Son di Dio, Valeriano. Son cristiana. Ti amo, ma con  l’anima in Cielo. Tu non hai sposato una donna, ma una figlia di Dio cui gli angeli servono. E l’angelo di Dio sta meco a difesa. 

Non offendere la celeste creatura con atti di triviale amore. Ne avresti castigo”. 

Valeriano è trasecolato. Dapprima lo stupore lo paralizza, ma poi l’ira d’esser beffato lo soverchia ed egli si agita e urla. È un violento, deluso sul più bello. “Tu mi hai tradito! Tu ti sei fatta giuoco di me. Non credo. Non posso, non voglio credere  che tu sei cristiana. Sei troppo buona, bella e intelligente per  appartenere a questa sozza congrega. Ma no!... È uno scherzo.  Tu vuoi giuocare come una bambina. È la tua festa. Ma lo scherzo è troppo atroce. Basta. Vieni a me”. 

“Sono cristiana. Non scherzo. Mi glorio d’esserlo perché esserlo vuol dire esser grandi in terra e oltre. Ti amo, Valeriano.  Ti amo tanto che sono venuta a te per portarti a Dio, per averti con me in Dio”. 

“Maledizione a te, pazza e spergiura! Perché mi hai tradito? 

Non temi la mia vendetta?...” 

“No, perché so che sei nobile e buono e mi ami. No, perché so che non osi condannare senza prova di colpa. Io non ho colpa...”. 

“Tu menti dicendo di angeli e dèi. Come posso credere a questo? Dovrei vedere e se vedessi... se vedessi ti rispetterei  come angelo. Ma per ora sei la mia sposa. Non vedo nulla. 

Vedo te sola”. 

“Valeriano, puoi credere che io menta? Lo puoi credere,  proprio tu che mi conosci? Sono dei vili, Valeriano, le menzogne. Credi a quanto ti dico. Se tu vuoi vedere l’angelo mio, credi in me e lo vedrai. Credi a chi ti ama. Guarda: sono  sola con te. Tu potresti uccidermi. Non ho paura. Sono in tua  balìa. Mi potresti denunciare al Prefetto. Non ho paura. 

L’angelo mi ripara delle sue ali. Oh! se tu lo vedessi!...” 

“Come potrei vederlo?” 

“Credendo in ciò che io credo. Guarda: sul mio cuore è un piccolo rotolo. Sai cosa è? È la Parola del mio Dio. Dio non  mente, e Dio ha detto di non avere paura, noi che crediamo in  Lui, ché aspidi e scorpioni saranno senza veleno per il nostro piede...”.76 

“Ma pure voi morite a migliaia nelle arene...” 

“No. Non moriamo. Viviamo eterni. L’Olimpo non è. Il Paradiso è. In esso non sono gli dèi bugiardi e dalle passioni  brutali. Ma solo angeli e santi nella luce e nelle armonie celesti.  Io le sento... Io le vedo... O Luce! O Voce! O Paradiso! Scendi!  Scendi! Vieni a far tuo questo tuo figlio, questo mio sposo. La  tua corona prima a lui che a me. A me il dolore d’esser senza il suo affetto, ma la gioia di vederlo amato da Te, in Te, prima del  mio venire. O gioioso Cielo! O eterne nozze! Valeriano, saremo uniti davanti a Dio, vergini sposi, felici di un amore perfetto...” 

Cecilia è estatica. 

Valeriano la guarda ammirato, commosso. “Come potrei... come potrei avere ciò? Io sono il patrizio romano. Sino a ieri gozzovigliai e fui crudele. Come posso esser come te, angelo?” 

“Il mio Signore è venuto per dare vita ai morti. Alle anime morte. Rinasci in Lui e sarai simile a me. Leggeremo insieme la sua Parola e la tua sposa sarà felice d’esserti maestra. E poi ti condurrò meco dal Pontefice santo. Egli ti darà la completa luce  e la grazia. Come cieco a cui si aprono le pupille tu vedrai. Oh!  vieni, Valeriano, e odi la Parola eterna che mi canta in cuore”. 

E Cecilia prende per mano lo sposo, ora tutto umile e calmo  come un bambino, e si siede presso a lui su due ampi sedili e  legge il I capitolo del Vangelo di S. Giovanni sino al v. 14, poi il  cap. 3° nell’episodio di Nicodemo. 

La voce di Cecilia è come musica d’arpa nel leggere quelle pagine e Valeriano le ascolta prima stando seduto col capo  appuntellato alle mani, posando i gomiti sui ginocchi, ancora un  poco sospettoso e incredulo, poi appoggia il capo sulla spalla  della sposa e a occhi chiusi ascolta attentamente e, quando lei smette, supplica: “Ancora, ancora”. Cecilia legge brani di Matteo e Luca, tutti atti a persuadere sempre più lo sposo, e  termina tornando a Giovanni del quale legge dalla lavanda in  poi.77 

Valeriano ora piange. Le lacrime cadono senza sussulti dalle  sue palpebre chiuse. Cecilia le vede e sorride, ma non mostra notarle. Letto l’episodio di Tommaso incredulo78, ella tace... 

E restano così, assorti l’una in Dio, l’altro in se stesso, sinché Valeriano grida: “Credo. Credo, Cecilia. Solo un Dio vero può aver detto quelle parole e amato in quel modo. Portami dal tuo  Pontefice. Voglio amare ciò che tu ami. Voglio ciò che tu vuoi.  Non temere più di me, Cecilia. Saremo come tu vuoi: sposi in  Dio e qui fratelli. Andiamo, ché non voglio tardare a vedere ciò che tu vedi: l’angelo del tuo candore “. 

E Cecilia raggiante si alza, apre la finestra, scosta le tende perché la luce del nuovo giorno entri, e si segna dicendo il Pater  noster: adagio, adagio perché lo sposo possa seguirla, e poi con  la sua mano lo segna in fronte e sul cuore e per ultimo gli  prende la mano e glie la porta alla fronte, al petto, alle spalle nel  segno di croce, e poi esce tenendo lo sposo sempre per mano,  guidandolo verso la Luce. 

Non vedo altro. 

 

Ma Gesù mi dice: 

«Quanto avete da imparare dall’episodio di Cecilia! È un vangelo della Fede.79 Perché la fede di Cecilia era ancor più  grande di quella di tante altre vergini. 

Considerate. Ella va alle nozze fidando in Me che ho detto: 

“Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire  a un monte: ritirati, ed esso si sposterà”.80 Vi va sicura del triplo  miracolo di esser preservata da ogni violenza, di esser apostola  dello sposo pagano, di esser immune per il momento, e da parte  di lui, da ogni denuncia. Sicura nella sua fede, ella fa un passo  rischioso, agli occhi di tutti, non ai suoi, perché i suoi fissi in Me  vedono il mio sorriso. E la sua fede ha ciò che ha sperato. 

Come va al cimento? Corroborata di Me. Si alza da un altare  per andare alla prova. Non da un letto. Non parla con uomini.  Parla con Dio. Non si appoggia altro che a Me. 

Ella lo amava santamente Valeriano, lo amava oltre la carne.  Angelica sposa, vuole continuare ad amare così il consorte per  tutta la vera Vita. Non si limita a farlo felice qui. Vuole farlo  felice in eterno. Non è egoista. Dà a lui ciò che è il suo bene: la  conoscenza di Dio. Affronta il pericolo pur di salvarlo. Come madre, ella non cura pericoli pur di dare alla Vita un’altra creatura. 

La vera Religione non è mai sterile. Dà ardori di paternità e  maternità spirituali che empiono i secoli di calori santi. Quanti  coloro che in questi venti secoli hanno effuso se stessi,  facendosi eunuchi volontari81 pur di esser liberi di amare non  pochi, ma tanti, ma tutti gli infelici! 

Guardate quante vergini fanno da madri agli orfani, quanti  vergini da padri ai derelitti. Guardate quanti generosi senza  tonaca o divisa fanno olocausto della loro vita per portare a Dio  la miseria più grande: le anime che si sono perdute e impazzano  nella disperazione e nella solitudine spirituale. Guardate. Voi  non li conoscete. Ma Io li conosco uno per uno e li vedo come  diletti del Padre. 

Cecilia vi insegna anche una cosa. Che per meritare di vedere  Iddio bisogna esser puri. Lo insegna a Valeriano e a voi. Io l’ho  detto: “Beati i puri perché vedranno Dio”.82 

Esser puri non vuol dire esser vergini. Vi sono vergini che  sono impuri, e padri e madri che sono puri. La verginità è l’inviolatezza fisica e, dovrebbe essere, spirituale. La purezza è  la castità che dura nelle contingenze della vita. In tutte. È puro  colui che non pratica e seconda la libidine e gli appetiti della  carne. È puro colui che non trova diletto in pensieri e discorsi o  spettacoli licenziosi. È puro colui che, convinto della  onnipresenza di Dio, si comporta sempre, sia che sia con sé  solo che con altri, come fosse in mezzo ad un pubblico. 

Dite: fareste in mezzo ad una piazza ciò che vi permettete di  fare nella vostra stanza? Direste ad altri, coi quali volete  rimanere in alto concetto, ciò che ruminate dentro? No. Perché  su una via incorrereste nelle pene degli uomini e presso gli  uomini nel loro disprezzo. E perché allora fate diversamente  con Dio? Non vi vergognate di apparire a Lui quali porci, mentre vi vergognate di apparire tali agli occhi degli uomini? 

Valeriano vide l’angelo di Cecilia e ebbe il suo e portò a Dio Tiburzio. Lo vide dopo che la Grazia lo rese degno, e la volontà insieme, di vedere l’angelo di Dio. Eppure Valeriano non era vergine. Non era vergine. Ma quale merito sapersi strappare, per  un amore soprannaturale, ogni abitudine inveterata di pagano! 

Grande merito in Cecilia che seppe tenere l’affetto per lo sposo in sfere tutte spirituali, con una verginità doppiamente eroica;  grande merito in Valeriano di saper volere rinascere alla purezza dell’infanzia, per venire con bianca stola nel mio Cielo. 

I puri di cuore! Aiuola profumata e fiorita su cui trasvolano  gli angeli. I forti nella fede. Rocca su cui si alza e splende la mia  Croce. Rocca di cui ogni pietra è un cuore cementato all’altro nella comune Fede che li lega. 

Nulla Io nego a chi sa credere e vincere la carne e le  tentazioni. Come a Cecilia, Io do vittoria a chi crede ed è puro  di corpo e di pensiero. 

Il Pontefice Urbano ha parlato sulla riverginizzazione delle  anime attraverso la rinascita e la permanenza in Me. Sappiatela  raggiungere. Non basta esser battezzati per essere vivi in Me.  Bisogna sapervi rimanere. 

Lotta assidua contro il demonio e la carne. Ma non siete soli  a combatterla. L’angelo vostro ed Io stesso siamo con voi. E la  terra si avvierebbe verso la vera pace quando i primi a far pace  fossero i cuori con se stessi e con Dio, con se stessi e i fratelli,  non più essendo arsi da ciò che è male e che a sempre maggior  male spinge. Come valanga che si inizia da un nulla e diviene  massa immane. 

Tanto dovrei dire ai coniugi. Ma a che pro? Già ho detto83.  Né si volle capire. Nel mondo decaduto non soltanto la  verginità pare mania ma la castità nel coniugio, la continenza, che fa dell’uomo un Uomo e non una bestia, non è più riputata che debolezza e menomazione. 

Siete impuri e trasudate impurità. Non date nomi ai vostri  mali morali. Ne hanno tre, i sempre antichi e sempre nuovi: 

orgoglio, cupidigia e sensualità. Ma ora avete raggiunto la perfezione  in queste tre belve che vi sbranano e che andate cercando con  pazza bramosia. 

Per i migliori ho dato questo episodio, per gli altri è inutile  perché alla loro anima sporca di corruzione non fa che muovere  solletico di riso. Ma voi buoni state fedeli. Cantate con cuore  puro la vostra fede a Dio. E Dio vi consolerà dandosi a voi  come Io ho detto. Ai buoni fra i migliori darò la conoscenza  completa della conversione di Valeriano per il merito di una  vergine pura e fedele.» 

A cura di Mario Ignoffo 

mercoledì 2 settembre 2020

Santi Martiri del I – II e III Secolo



Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza 

e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta 


Martirio delle Sante Perpetua e Felicita. 


1 marzo l944 

Mi dice Gesù, verso le 17: 

«Non era mia intenzione darti questa visione questa sera. Avevo  intenzione di farti vivere un altro episodio dei “vangeli della fede”64. 
Ma è stato espresso un desiderio da chi merita d’esser accontentato. 
E Io accontento. Nonostante i tuoi dolori, vedi, osserva e descrivi. I  tuoi dolori li dài a Me e la descrizione ai fratelli.» 
E nonostante i miei dolori, tanto forti - per cui mi pare di avere il  capo stretto in una morsa che parte dalla nuca e si congiunge sulla  fronte e scende verso la spina dorsale, un male terribile per cui ho  pensato mi stesse per scoppiare una meningite e poi mi sono svenuta  - scrivo. È tanto forte anche ora. Ma Gesù permette che riesca a  scrivere per ubbidire. Dopo... dopo sarà quel che sarà. 
Le assicuro, intanto, che passo di sorpresa in sorpresa; perché per  prima cosa mi trovo di fronte a degli africani, arabi per lo meno,  mentre ho sempre creduto che questi santi fossero europei. Ché non  avevo la minima nozione della loro condizione sociale e fisica e del  loro martirio. Di Agnese sapevo vita e morte.65 Ma di questi! È come  se leggessi un racconto sconosciuto. 
Per prima illustrazione, avanti di svenirmi, ho visto un anfiteatro  su per giù come il Colosseo (ma non rovinato), vuoto per allora di  popolo. Solo una bellissima e giovane mora è ritta là in mezzo e  sollevata dal suolo, raggiante per una luce beatifica che si sprigiona dal suo corpo bruno e dalla scura veste che lo copre. Sembra l’angelo del luogo. Mi guarda e sorride. Poi mi svengo e non vedo più nulla.  
Ora la visione si completa. Sono in un fabbricato che, per la  mancanza di ogni e qualsiasi comodità e per la sua arcigna apparenza,  mi si rivela come una fortezza adibita a carcere. Non è il sotterraneo  del Tullianum visto ieri. Qui sono stanzette e corridoi sopraelevati.  Ma così scarsi di spazio e di luce e così muniti di sbarre e di porte  ferrate e piene di chiavistelli, che quel “che” di migliore che hanno in posizione viene annullato dal loro rigore che annulla la benché più  piccola idea di libertà. 
In una di queste tane è seduta su un tavolaccio, che fa da letto,  sedile e tavola, la giovane mora che ho visto nell’anfiteatro. Ora non emana luce. Ma unicamente tanta pace. Ha in grembo un piccino di  pochi mesi al quale dà il latte. Lo ninna, lo vezzeggia con atto di  amore. Il bambino scherza con la giovane madre e strofina la sua  faccetta molto olivastra contro la bruna mammella materna, e vi si  attacca e stacca con avidità e con subite risatine piene di latte. 
La giovane è molto bella. Un viso regolare piuttosto tondo, con  bellissimi occhi grandi e di un nero vellutato, bocca tumida e piccina  piena di denti candidissimi e regolari, capelli neri e piuttosto crespi  ma tenuti a posto da strette trecce che le si avvolgono intorno al  capo. Ha il colorito di un bruno olivastro non eccessivo. Anche fra noi italiani, e specie del meridione d’Italia, si vede quel colore,  appena un poco più chiaro di questo. Quando si alza per  addormentare il piccino andando su e giù per la cella, vedo che è alta  e formosa con grazia. Non eccessivamente formosa, ma già ben  modellata nelle sue forme. Sembra una regina per il portamento  dignitoso. È vestita di una veste semplice e scura, quasi quanto la sua  pelle, che le ricade in pieghe morbide lungo il bel corpo. 
Entra un vecchio, moro lui pure. Il carceriere lo fa entrare  aprendo la pesante porta. E poi si ritira. La giovane si volge e sorride.  Il vecchio la guarda e piange. Per qualche minuto restano così. 
Poi la pena del vecchio prorompe. Con affanno supplica la figlia di aver pietà del suo soffrire: “Non è per questo” le dice “che ti ho generato. Fra tutti i figli ti ho amata, gioia e luce della mia casa. Ed  ora tu ti vuoi perdere e perdere il povero padre tuo che sente morirsi  il cuore per il dolore che gli dài. Figlia, sono mesi che ti prego. Hai  voluto resistere ed hai conosciuto il carcere, tu nata fra gli agi.  Curvando la mia schiena davanti ai potenti t’avevo ottenuto di esser ancora nella tua casa per quanto come prigioniera. Avevo promesso  al giudice che ti avrei piegata con la mia autorità paterna. Ora egli mi  schernisce perché vede che di essa tu non ti sei curata. Non è questo  quel che dovrebbe insegnarti la dottrina che dici perfetta. Quale Dio  è dunque quello che segui, che ti inculca di non rispettare chi ti ha  generato, di non amarlo, perché se mi amassi non mi daresti tanto  dolore? La tua ostinazione, che neppure la pietà per quell’innocente ha vinto, ti ha valso di esser strappata alla casa e chiusa in questa  prigione. Ma ora non più di prigione si parla, ma di morte. E atroce.  Perché? Per chi? Per chi vuoi morire? Ha bisogno del tuo, del nostro  sacrificio - il mio e quello della tua creatura che non avrà più madre -  il tuo Dio? il suo trionfo ha bisogno del tuo sangue e del mio pianto  per compiersi? Ma come? La belva ama i suoi nati e tanto più li ama  quanto più li ha tenuti al seno. Anche in questo speravo e per questo  ti avevo ottenuto di poter nutrire il tuo bambino. Ma tu non muti. E  dopo averlo nutrito, scaldato, fatto di te guanciale al suo sonno, ora  lo respingi, lo abbandoni senza rimpianto. Non ti prego per me. Ma  in nome di lui. Non hai il diritto di farne un orfano. Non ha diritto il  tuo Dio di fare questo. Come posso crederlo buono più dei nostri se  vuole questi sacrifici crudeli? Tu me lo fai disamare, maledire sempre  più. Ma no, ma no! Che dico? Oh! Perpetua, perdona! Perdona al tuo  vecchio padre che il dolore dissenna. Vuoi che lo ami il tuo Dio? Lo amerò più di me stesso, ma resta fra noi. Di’ al giudice che ti pieghi. 
Poi amerai chi vuoi degli dèi della terra. Poi farai del padre tuo ciò  che vuoi. Non ti chiamo più figlia, non son più tuo padre. Ma il tuo  servo, il tuo schiavo, e tu la mia signora. Domina, ordina ed io ti  ubbidirò. Ma pietà, pietà. Salvati mentre ancora lo puoi. Non è più tempo di attendere. La tua compagna ha dato alla luce la sua  creatura, lo sai, e nulla più arresta la sentenza. Ti verrà strappato il  figlio; non lo vedrai più. Forse domani, forse oggi stesso. Pietà, figlia!  Pietà di me e di lui che non sa parlare ancora, ma lo vedi come ti  guarda e sorride! Come invoca il tuo amore! Oh! Signora, mia  signora, luce e regina del cuor mio, luce e gioia del tuo nato, pietà, pietà!”  
Il vecchio è ginocchioni e bacia l’orlo della veste della figlia e le abbraccia i ginocchi e cerca prenderle la mano che ella si posa sul  cuore per reprimerne lo strazio umano. Ma nulla la piega. 
“È per l’amore che ho per te e per lui che rimango fedele al mio Signore” ella risponde. “Nessuna gloria della terra darà al tuo capo bianco e a questo innocente tanto decoro quanto ve ne darà il mio  morire. Voi giungerete alla Fede. E che direste allora di me se avessi  per viltà di un momento rinunciato alla Fede? il mio Dio non ha  bisogno del mio sangue e del tuo pianto per trionfare. Ma tu ne hai  bisogno per giungere alla Vita. E questo innocente per rimanervi. Per  la vita che mi desti e per la gioia che egli mi ha dato, io vi ottengo la  Vita che è vera, eterna, beata. No, il mio Dio non insegna il disamore  per i padri e per i figli. Ma il vero amore. Ora il dolore ti fa delirare,  padre. Ma poi la luce si farà in te e mi benedirai. Io te la porterò dal  cielo. E questo innocente non è che io l’ami meno, ora che mi sono fatta svuotare dal sangue per nutrirlo. Se la ferocia pagana non fosse  contro noi cristiani, gli sarei stata madre amantissima ed egli sarebbe  stato lo scopo della mia vita. Ma più della carne nata da me è grande Iddio, e l’amore che gli va dato infinitamente più grande. Non posso neppure in nome della maternità posporre il suo amore a quello di  una creatura. No. Non sei lo schiavo della figlia tua. Io ti son sempre  figlia e in tutto ubbidiente fuorché in questo: di rinunciare al vero  Dio per te. Lascia che il volere degli uomini si compia. E se mi ami,  seguimi nella Fede. Là troverai la figlia tua, e per sempre, perché la  vera Fede dà il Paradiso, ed a me il mio Pastore santo ha già dato il benvenuto nel suo Regno”. 
E qui la visione ha un mutamento, perché vedo entrare nella cella  altri personaggi: tre uomini ed una giovanissima donna. Si baciano e  si abbracciano a vicenda. Entrano anche i carcerieri per levare il figlio  a Perpetua. Ella vacilla come colpita da un colpo. Ma si riprende. 
La compagna la conforta: “Io pure, ho già perduto la mia creatura. Ma essa non è perduta. Dio fu meco buono. Mi ha  concesso di generarla per Lui e il suo battesimo si ingemma del mio  sangue. Era una bambina... e bella come un fiore. Anche il tuo è  bello, Perpetua. Ma per farli vivere in Cristo questi fiori hanno bisogno del nostro sangue. Duplice vita daremo loro così”. 
Perpetua prende il piccino, che aveva posato sul giaciglio e che  dorme sazio e contento, e lo dà al padre dopo averlo baciato  lievemente per non destarlo. Lo benedice anche e gli traccia una croce  sulla fronte ed una sulle manine, sui piedini, sul petto, intridendo le  dita nel pianto che le cola dagli occhi. Fa tutto così dolcemente che il  bambino sorride nel sonno come sotto una carezza.  
Poi i condannati escono e vengono, in mezzo a soldati, portati in una oscura cavea dell’anfiteatro in attesa del martirio. Passano le ore  pregando e cantando inni sacri, esortandosi a vicenda all’eroismo.  Ora mi pare di essere io pure nell’anfiteatro che ho già visto. È pieno di folla per la maggior parte di pelle abbronzata. Però vi sono  anche molti romani. La folla rumoreggia sulle gradinate e si agita. La  luce è intensa nonostante il velario steso dalla parte del sole. 
Vengono fatti entrare nell’arena, dove mi pare siano stati già eseguiti dei giuochi crudeli perché è macchiata di sangue, i sei martiri  in fila. La folla fischia e impreca. Essi, Perpetua in testa, entrano cantando. Si fermano in mezzo all’arena e uno dei sei si volge alla folla. 
“Fareste meglio a mostrare il vostro coraggio seguendoci nella Fede e non insultando degli inermi che vi ripagano del vostro odio  pregando per voi e amandovi. Le verghe con cui ci avete fustigato, il carcere, le torture, l’aver strappato a due madri i figli - voi bugiardi che dite d’esser civili e attendete che una donna partorisca per poi ucciderla e nel corpo e nel cuore separandola dalla sua creatura, voi  crudeli che mentite per uccidere perché sapete che nessuno di noi vi  nuoce, e men che mai delle madri che altro pensiero non hanno che  la loro creatura - non ci mutano il cuore. Né per quanto è amore di  Dio né per quanto è amore di prossimo. E tre, e sette, e cento volte  daremmo la vita per il nostro Dio e per voi. Perché voi giungiate ad  amarlo, e per voi preghiamo mentre già il Cielo su noi si apre: Padre  nostro che sei nei cieli...”. In ginocchio i sei santi martiri pregano. 
Si apre un basso portone e irrompono le fiere che, per quanto  sembrano bolidi tanto sono veloci nella corsa, mi paiono tori o bufali  selvaggi. Come una catapulta ornata di corna pontute, investono il  gruppo inerme. Lo alzano sulle corna, lo sbattono per aria come  fossero tanti cenci, lo riabbattono al suolo, lo calpestano. Tornano a  fuggire come pazzi di luce e di rumore e tornano a investire.  
Perpetua, presa come un fuscello dalle corna di un toro, viene  scaraventata molti metri più là. Ma per quanto ferita, si rialza e sua  prima cura è di ricomporsi le vesti strappate sul seno. Tenendosele  con la destra, si trascina verso Felicita caduta supina e mezza  sventrata, e la copre e sorregge facendo di sé appoggio alla ferita. Le  bestie tornano a ferire finché i cinque malvivi sono stesi al suolo. 
Allora i bestiari le fanno rientrare e i gladiatori compiono l’opera.  Ma, fosse pietà o inesperienza, quello di Perpetua non sa uccidere. 
La ferisce, ma non prende il punto giusto. “Fratello, qua, che io ti  aiuti” dice ella con un filo di voce e un dolcissimo sorriso. E, appoggiata la punta della spada contro la carotide destra, dice: 
“Gesù, a Te mi raccomando! Spingi, fratello. Io ti benedico” e sposta  il capo verso la spada per aiutare l’inesperto e turbato gladiatore. 

Dice Gesù: 

«Questo è il martirio della mia martire Perpetua, della sua compagna Felicita e dei suoi compagni. Rea di esser cristiana.  Catecumena ancora. Ma come intrepida nel suo amore per Me! Al  martirio della carne ella ha unito quello del cuore, e con lei Felicita.  Se sapevano amare i loro carnefici, come avranno saputo amare i figli  loro? 
Erano giovani e felici nell’amore dello sposo e dei genitori.  Nell’amore della loro creatura. Ma Dio va amato sopra ogni cosa. Ed esse lo amano così. Si strappano le loro viscere separandosi dal loro piccino, ma la Fede non muore. Esse credono nell’altra vita. 
Fermamente. Sanno che essa è di chi fu fedele e visse secondo la  Legge di Dio. 
Legge nella legge è l’amore. Per il Signore Iddio, per il prossimo loro. Quale amore più grande di dare la vita per coloro che si ama, così come l’ha data il Salvatore per l’umanità che Egli amava? Esse  dànno la vita per amarmi e per portare altri ad amarmi e possedere perciò l’eterna Vita. Esse vogliono che i figli e i genitori, gli sposi, i fratelli e tutti coloro che esse amano di amore di sangue o di amore  di spirito - i carnefici fra questi poiché Io ho detto: “Amate coloro  che vi perseguitano”66 - abbiano la Vita del mio Regno. E, per  guidarli a questo mio Regno, tracciano col loro sangue un segno che  va dalla Terra al Cielo, che splende, che chiama. 
Soffrire? Morire? Cosa è? È l’attimo che fugge. Mentre la vita eterna resta. Nulla è quell’attimo di dolore rispetto al futuro di gioia che le attende. Le fiere? Le spade? Che sono? Benedette siano esse  che dànno la Vita. 
Unica preoccupazione - poiché chi è santo lo è in tutto - di  conservare la pudicizia. In quel momento, non della ferita ma delle  vesti scomposte hanno cura. 
Poiché, se vergini non sono, sono sempre delle pudiche. Il vero  cristianesimo dà sempre verginità di spirito. La mantiene, questa bella  purezza, anche là dove il matrimonio e la prole han levato quel sigillo che fa dei vergini degli angeli. 
Il corpo umano lavato dal Battesimo è tempio dello Spirito di Dio. Non va  dunque violato con invereconde mode e inverecondi costumi. Dalla  donna, specie dalla donna che non rispetta se stessa, non può che  venire una prole viziosa e una società corrotta, dalla quale Dio si  ritira e nella quale Satana ara e semina i suoi triboli che vi fanno  disperare.» 

A cura di Mario Ignoffo

lunedì 17 agosto 2020

Santi Martiri del I – II e III Secolo



Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private 
  della mistica Maria Valtorta


S. Messa di Papa Clemente I, morte di S.  Petronilla (figlia spirituale di S. Pietro) e martirio  di S. Fenicola. 

Dagli scritti di Maria Valtorta veniamo a conoscere santi mai  sentiti nominare o perché poco famosi o proprio perché di loro  nessuno ne ha mai parlato, come del piccolo Castulo.  
Qui di seguito vi riporto ora il martirio di Santa Fenicola che  ebbe per maestra Petronilla, la figlia spirituale di S. Pietro, come  ci riporta lo stesso Gesù . 50 

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4 marzo 1944, ore 9.  

Mi dice Gesù: 
«Molto lavoro oggi per riprendere il tempo, non perduto ma usato  altrimenti secondo il mio volere. 
Sai dalla prima ora di questo giorno (ore 1 ant.ne) su cosa terrò fissa la tua mente, perché il primo e unico punto che ti s’è illuminato ti ha già detto su che poserai gli occhi dello spirito. E quel nome femminile e sconosciuto che t’è rimbombato dentro come campana  che chiami e non si placa che quando s’è risposto, ti ha detto che conoscerai anche questo. Ma fra la mia vergine e il Maestro devi  scegliere il Maestro e far precedere il mio punto a quello. 
Te ne farò conoscere molte di creature celesti. Hanno tutte il loro  ammaestramento, utile per voi divenuti consci di tutto, lettori di  tutto, ma non di quello che è scienza per conquistare il Cielo. 
Scrivi.» 
Scrivo, anzi descrivo. 
Questa notte, mentre fra dolori da impazzire mi chiedevo come ha fatto Gesù a sopportare quel gran male al capo - e glielo chiedevo  perché a me era tormento tale da farmi stringere i denti per non  urlare al minimo rumore o tentennamento al letto, e mi pareva di  avere tanti cuori che battessero veloci e dolenti per quanti denti  avevo, per la lingua, le labbra, il naso, le orecchie, gli occhi, e in  mezzo alla fronte mi pareva avere un groviglio di chiodi che mi  penetrassero nel cranio, e dalla nuca saliva e si irraggiava una fascia di  fuoco e di dolore stringente come una morsa, e nel parietale destro  mi pareva che ogni tanto urtasse contro un colpo di oggetto pesante  a conficcarmi vieppiù quella fascia nella testa e a rimbombarmi tutta  - e nel mio spasimo lo contemplavo dall’Orto al Calvario, ecco che,  proprio dopo la terza caduta, ho avuto una sosta di sollievo fisico e  spirituale, perché mi apparve bello, sano, sorridente sulle acque irate  del Mar di Galilea. 
Poi il tormento è ricominciato, finché verso le due, cessata la  contemplazione della Passione del Signore e calmato un pochino (poco, sa?) il tremendo dolore al capo, m’è suonato dentro un nome: 
Santa Fenicola. 
Chi è? Sconosciuta. Ci è proprio stata? Mah! Chi l’ha mai sentita! 
E cercavo dormire. Macché! Santa Fenicola. Santa Fenicola. Santa  Fenicola. 
Qui non si dorme, mi sono detta, se prima non so chi è. E in  grazia del diminuito dolore, che mi permetteva ora di muovermi  mentre dalle 15 alla mezzanotte e oltre mi aveva abbattuta e resa  inerte, corpo che soffriva spasmodicamente ma non poteva neppur  aprire gli occhi - Paola51 glielo può dire - ho preso un indice dei santi  e ho trovato che porta, insieme a S. Petronilla v., porta S. Felicola  v.m. Io ho sentito dire: Fenicola, ma forse ho capito male. 
Contemporaneamente a questa scoperta ho visto una giovane donna nuda, legata ad una colonna in maniera atroce. Poi nient’altro.  E ora per ubbidienza scrivo ciò che il Maestro mi mostra, senza rimandare, per quanto ho la testa che gira come una trottola. 

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4 marzo 1944. 

Vedo due giovani donne in preghiera. Una preghiera ardentissima  che deve proprio penetrare nei cieli. Una è più matura. Pare quasi sui trent’anni; l’altra deve da poco aver passato i venti. Sembrano in perfetta salute tutte e due. Poi si alzano e preparano un piccolo altare  su cui dispongono lini preziosi e fiori. 
Entra un uomo vestito come i romani dell’epoca, che le due giovani salutano con la massima venerazione. Egli si leva dal petto  una borsa dalla quale trae tutto quanto occorre per celebrare una  Messa. Poi si riveste delle vesti sacerdotali e inizia il Sacrificio. 
Non comprendo benissimo il Vangelo, ma mi pare sia quello di Marco: “E gli presentarono dei bambini... chi non riceverà il regno di  Dio come un fanciullo non c’entrerà”.52 Le due giovani,  inginocchiate presso l’altare, pregano sempre più fervorosamente. 
Il Sacerdote consacra le Specie e poi si volge a comunicare le due  fedeli, cominciando dalla più anziana, il cui volto è serafico di ardore. 
Poi comunica l’altra. Esse, ricevute le Specie, si prostrano al suolo in  profonda preghiera e sembra restino così per pura devozione. 
Ma quando il Sacerdote si volge a benedire e scende dall’altare collocato su una pedana di legno - dopo la celebrazione del rito, che  è uguale a quella di Paolo nel Tullianum.53 Solo qui il celebrante parla  più piano, date le due sole fedeli; ecco perché capisco meno il Vangelo54 - una soltanto delle giovani si muove. L’altra55 rimane  prostrata come prima. La compagna la chiama e la scuote. Si china  anche il Sacerdote. La sollevano. Già il pallore della morte è su quel viso, l’occhio semispento naufraga sotto le palpebre, la bocca respira a fatica. Ma che beatitudine in quel viso! 
La adagiano su una specie di lungo sedile che è presso una  finestra aperta su un cortile, in cui canta una fontana. E cercano  soccorrerla. Ma, radunando le forze, ella alza una mano e accenna al cielo e non dice che due parole: “Grazia... Gesù” e senza spasimi spira. 
Tutto ciò non mi spiega che c’entra la giovane legata alla colonna che ho visto questa notte e che, per quanto molto più pallida e  smagrita, spettinata, torturata, mi pare assomigli tanto alla superstite  che ora piange presso la morta. E resto così, nella mia incertezza, per  qualche ora. 
Soltanto ora che è sera ritrovo la giovane piangente prima, ora  ritta presso la fontana del severo cortile nel quale sono coltivate solo  delle piccole aiuole di gigli e sui muri salgono dei rosai tutti in fiore.  
La giovane parla con un giovane romano: “È inutile che tu insista, 
o Flacco. Io ti sono grata del tuo rispetto e del ricordo che hai per la  mia amica morta. Ma non posso consolare il tuo cuore. Se Petronilla  è morta, segno era che non doveva essere tua sposa. Ma io neppure.  Tante sono le fanciulle di Roma che sarebbero felici di diventare le  signore della tua casa. Non io. Non per te. Ma perché ho deciso di non contrarre nozze”. 
“Tu pure sei presa dalla frenesia stolta di tante seguaci di un pugno d’ebrei?”.  
“Io ho deciso, e credo non esser folle, di non contrarre nozze”. 
“E se io ti volessi?”. 
“Non credo che tu, se è vero che mi ami e rispetti, vorrai forzare  la mia libertà di cittadina romana. Ma mi lascerai seguire il mio desiderio avendo per me la buona amicizia che io ho per te”.  
“Ah, no! Già una m’è sfuggita. Tu non mi sfuggirai”. 
“Ella è morta, Flacco. La morte è forza a noi superiore, non è fuga di uno ad un destino. Ella non s’è uccisa. È morta...”. 
“Per i vostri sortilegi. Lo so che siete cristiane e avrei dovuto denunciarvi al Tribunale di Roma. Ma ho preferito pensare a voi  come a mie spose. Ora per l’ultima volta ti dico: vuoi esser moglie del nobile Flacco? Io te lo giuro che è meglio per te entrare signora  nella mia casa e lasciare il culto demoniaco del tuo povero dio,  anziché conoscere il rigore di Roma che non permette siano insultati  i suoi dèi. Sii la sposa mia e sarai felice. Altrimenti...”. 
“Non posso esser tua sposa. A Dio sono consacrata. Al mio Dio. 
Non posso adorare gli idoli, io che adoro il vero Dio. Fa’ di me quello che vuoi. Tutto puoi fare del corpo mio. Ma la mia anima è di  Dio ed io non la vendo per le gioie della tua casa”. 
“È la tua ultima parola?”.  
“L’ultima”.  
“Sai che il mio amore può mutarsi in odio?” 
“Dio te ne perdoni. Per mio conto ti amerò sempre come fratello e pregherò per il tuo bene”. 
“Ed io farò il tuo male. Ti denuncerò. Sarai torturata. Allora mi  invocherai. Allora comprenderai che è meglio la casa di Flacco alle dottrine stolte di cui ti nutri”. 
“Comprenderò che il mondo, per non avere più dei Flacchi, ha bisogno di queste dottrine. E farò il tuo bene pregando per te dal Regno del mio Dio”. 
“Maledetta cristiana! Alle carceri! Alla fame! Ti sazi il tuo Cristo se lo può”. 
Ho l’impressione che le carceri siano abbastanza prossime alla casa della vergine perché la strada è poca, e che il nobile Flacco sia né più né meno che un segugio del Questore di Roma perché,  quando la visione, mutando aspetto, mi riporta la sala già vista con la  giovane legata alla colonna, vedo che è un tribunale come quello in  cui fu giudicata Agnese56. Ben poche sono le differenze e che, anche  qui, vi è un brutto ceffo che giudica e condanna, e che Flacco gli fa  da aiutante e aizzatore. 
Fenicola, estratta dalla muda dove era, viene portata in mezzo alla  sala. Appare sfinita di forze ma ancor tanto dignitosa. Per quanto la luce l’abbacini, debole come è e abituata ormai al buio carcere, si  tiene eretta e sorride. Le solite domande e le solite offerte seguite dalle solite risposte: “Sono cristiana. Non sacrifico ad altro Dio che  non sia il mio Signore Gesù Cristo”. 
Viene condannata alla colonna. 
Le strappano le vesti e nuda, alla presenza del popolo, la legano con  le mani e i piedi dietro ad una delle colonne del Tribunale. Per fare ciò le  slogano le anche e le slogano le braccia. La tortura deve essere atroce. E  non basta, ma torcono le funi ai polsi e alle caviglie, la percuotono sul  petto e sul ventre nudo con verghe e flagelli, le torcono le carni con  tenaglie e altri così atroci supplizi che non sto a ridire. 
Ogni tanto le chiedono se vuol sacrificare agli dèi. Fenicola, con  voce sempre più debole, risponde: “No. Al Cristo. A Lui solo. Or che lo comincio a vedere, ed ogni tortura me lo rende più vicino,  volete che io lo perda? Compite la vostra opera. Che io abbia il mio  amore compiuto. Dolci nozze di cui Cristo è sposo ed io sposa sua!  Sogno di tutta la mia vita!”. 
Quando la slegano dalla colonna, ella cade come morta per terra.  Le membra slogate, forse anche spezzate, non la reggono più, non  rispondono a nessun comando della mente. Le povere mani, segate  ai polsi dalla fune che ha fatto due braccialetti di sangue vivo,  pendono come morte. I piedi, pure lacerati ai malleoli sino a  mostrare i nervi e i tendini, appaiono chiaramente spezzati dal modo come stanno ripiegati in modo innaturale. Ma il volto è pieno di una felicità d’angelo. Scendono le lacrime sulle gote esangui, ma l’occhio  ride assorto in una visione che l’estasia. 
I carcerieri, meglio i boia, la colpiscono di calci, e a calci la  spingono, come fosse un sacco tanto immondo da non poter esser  toccato, verso la predella del Questore. 
“Ancor viva sei?”. 
“Sì, per volontà del mio Signore”. 
“Ancora insisti? Vuoi proprio la morte?” 
“Voglio la Vita. Oh! mio Gesù, aprimi il Cielo! Vieni, Amore eterno!”.  
“Gettatela nel Tevere! L’acqua calmerà i suoi ardori”. 
I boia la sollevano con mal garbo. La tortura delle membra  spezzate deve essere atroce. Ma ella sorride. La avvolgono nelle sue  vesti, non per pudicizia ma per impedirle di reggersi in acqua. Inutile  cura! Con degli arti in quello stato, non si nuota. Solo la testa emerge  dal viluppo delle vesti. Il suo povero corpo, gettato sulle spalle di un  carnefice, pende come fosse già morta. Ma ella sorride alla luce delle  fiaccole, perché ormai è sera. 
Giunti al Tevere, come fosse un animale da sopprimersi, la prendono e dall’alto del ponte la precipitano nelle acque scure, sulle  quali ella riaffiora due volte e poi si inabissa senza un grido. 

Notizie sulla vita di S. Petronilla 

Dice Gesù: 

«Ti ho voluto far conoscere la mia martire Fenicola per dare a te  ed a tutti qualche insegnamento.  
Tu hai visto il potere della preghiera nella morte di Petronilla,  compagna e maestra di Fenicola di cui era molto più anziana, e il  frutto di una santa amicizia. 
Petronilla , figlia spirituale di Pietro, aveva assorbito dalla viva  parola del mio Apostolo lo spirito di Fede. Petronilla. La gioia, la  perla romana di Pietro. Sua prima conquista romana. Quella che, per la sua rispettosa e amorosa devozione all’Apostolo, lo consolò di tutti i dolori della sua evangelizzazione romana. 
Pietro per amore mio aveva lasciato casa e famiglia. Ma Colui che  non mente gli aveva fatto trovare in questa fanciulla - e in maniera sovrabbondante, colma, premuta, secondo le mie promesse -58  conforto, cure, dolcezze femminili. Come Io a Betania, egli in casa di  Petronilla trovava aiuti, ospitalità e soprattutto amore. La donna è  uguale, nel suo bene e nel suo male, sotto tutti i cieli e in tutte le  epoche. Petronilla fu la Maria59 di Pietro, con in più la sua purezza di fanciulla che il Battesimo, ricevuto mentre ancora l’innocenza non aveva conosciuto oltraggio, aveva portato a perfezione angelica.  Maria, ascolta. Petronilla, volendo amare il Maestro con tutta se  stessa senza che la sua avvenenza e il mondo potessero turbare  questo amore, aveva pregato il suo Dio di fare di lei una crocifissa. E  Dio la esaudì. La paralisi crocifisse le sue angeliche membra. Nella  lunga infermità sul terreno bagnato dal dolore fiorirono più belle le virtù e specie l’amore per la Madre mia. Ascolta ancora, Maria. 
Quando fu necessario, la sua malattia conobbe una sosta. Per  mostrare che Dio è padrone del miracolo. E poi, finito il momento,  tornò a crocifiggerla. 
Non conosci nessun’altra, Maria, alla quale il suo Maestro, come  Pietro a Petronilla, non dica, quando gli occorre: “Sorgi, scrivi, sii  forte” e cessato il bisogno del Maestro non torni una povera inferma  in perpetua agonia? 
Morto l’Apostolo e guarita Petronilla, ella trovò che la sua vita non era più sua. Ma del Cristo. Non era di quelle che, ottenuto il  miracolo, se ne servono per offendere Dio. Ma la salute la usò per l’interesse di Dio. 
La vita vostra è sempre mia. Io ve la do. Ve lo dovreste ricordare.  Ve la do come vita animale facendovi nascere e conservandovi vivi.  Ve la do come vita spirituale con la Grazia e i Sacramenti. Dovreste  ricordarvelo sempre e farne buon uso. Quando poi vi rendo la salute,  vi faccio rinascere quasi dopo malattia mortale, dovreste ancor più  ricordarvi che quella vita, rifiorita quando già la carne sapeva di tomba, è mia. E per riconoscenza usarla nel Bene. 
Petronilla lo seppe fare. Non si è assorbita per niente60 la mia  Dottrina. Essa è come sale che preserva dal male, dalla corruzione, è  fiamma che scalda e illumina, è cibo che nutre e fortifica, è fede che fa sicuri. Viene la prova, l’assalto della tentazione, la minaccia del mondo. Petronilla prega. Chiama Dio. Vuol essere di Dio. Il mondo  la vuole? Dio la difenda dal mondo. 
Il Cristo l’ha detto: “Se avete tanta fede quanto un granello di  senape, potrete dire ad un monte: ‘Levati a va’ più in là’”.61 Pietro glie l’ha detto tante volte. Ella non chiede al monte di muoversi. Chiede a  Dio di levarla dal mondo prima che una prova superiore alle sue forze la schiacci. E Dio l’ascolta. La fa morire in un’estasi. In  un’estasi, Maria, prima che la prova la schiacci. Ricordala questa cosa,  piccola discepola mia.62  
Fenicola era amica, più che amica figlia o sorella, data la poca differenza d’età di una diecina d’anni circa. Non si convive senza santificarsi con chi è santo. Come non ci si guasta convivendo con  chi è guasto. Se il mondo se la ricordasse questa verità! Ma il mondo  invece trascura i santi o li sevizia, e segue i satana divenendo sempre  più satana. 
La fermezza e la dolcezza di Fenicola l’hai vista. Che è la fame per chi ha Cristo a suo cibo? Che è la tortura per chi ama il Martire del  Calvario? Che è la morte per chi sa che la morte apre la porta alla Vita? 
È sconosciuta dai cristiani d’ora la mia martire Fenicola. Ma essa è ben conosciuta dagli angeli di Dio che la vedono ilare in Cielo dietro l’Agnello divino. Ho voluto renderla nota a te per poterti parlare  anche della sua maestra di spirito e per incuorarti al patire.  
Ripeti con lei: “Ora sì che fra questi dolori comincio a vedere il mio sposo Gesù, nel quale ho posto tutto il mio amore”, e pensa che anche per te ho suscitato un Nicomede63, per salvare dalle acque  delle passioni il tuo io che volevo per Me, e per raccogliere quanto di te merita d’esser conservato, ciò che è mio, ciò che può operare del  bene all’anima dei fratelli.» 

A cura di Mario Ignoffo 

domenica 21 giugno 2020

Santi Martiri del I – II e III Secolo



Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza 

e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta 


Martirio e morte del piccolo Castulo e S. Messa  di S. Paolo al Tullianum.

***
Mentre essi cantano sono entrati anche dei soldati romani e  dei carcerieri, i quali montano anche la guardia perché non  entrino persone nemiche. 
Paolo si appresta al rito.  
“Tu sarai il nostro altare” dice a Castulo. “Puoi tenere il calice sul tuo petto?” 
“Sì”. 
Viene steso un lino sul corpicino del bimbo e sul lino sono appoggiati 9 il calice e il pane. 
E assisto alla Messa dei martiri che viene celebrata da Paolo e servita dai due preti chel’accompagnano. Però non è la Messa come è ora45. Mi pare che abbia parti che ora non ha e  non abbia parti che ora ha. Non ha epistola, per esempio, e dopo la benedizione: “Vi benedica il Padre, il Figlio, lo Spirito  Santo” (dice così) non ha altro46. Però dal Vangelo alla Consacrazione sono uguali a ora. Il Vangelo letto è quello delle  Beatitudini47. 
Vedo il lino palpitare sul petto di Castulo il quale, per ordine  di Paolo, tiene fra le dita la base del calice perché non cada. 
Vedo anche che quando Paolo dice: “Questa consacrazione del  Corpo...” un fremito di sorriso scorre sul volto piagato del  piccolino e poi la testolina si abbatte subito con una pesantezza  di morte che sempre cresce. 
Plautina ha come un sussulto ma si domina. Paolo procede come non notasse nulla. Ma quando, franta l’Ostia, sta per curvarsi sul piccolo martire per comunicarlo per primo con un minuscolo frammento, Plautina dice: “È morto”, e Paolo sosta un attimo, dando poi alla matrona il frammento destinato al  bambino, che è rimasto con le ditine serrate sul piede del calice nell’ultima contrazione, e glie le devono sciogliere per poter  prendere il calice e darlo agli altri. 
Poi, distribuita la Comunione, la Messa ha termine. Paolo si  spoglia delle vesti e ripone queste e il lino e il calice e la teca  delle ostie in una sacca che porta sotto il mantello. Poi dice: 
“Pace al martire di Cristo. Pace a Castulo santo”. 
E tutti rispondono: “Pace!” 
“Ora lo porterò altrove. Datemi un manto, ché ve lo avvolga. Lo porterò senza attendere la sera. Questa sera  verremo per Fabio. Ma questo... lo porterò come un bambino addormentato. Addormentato nel Signore”. 
Uno dei soldati dà il suo mantello rosso; e vi depongono il  piccolo martire e ve lo avvolgono, e Paolo se lo prende in  braccio (a sinistra) come fosse un padre che trasporta altrove il figlioletto dormiente, col capo curvo sulla spalla paterna. 
“Fratelli, la pace sia con voi, e ricordatevi di me quando  sarete nel Regno”. Ed esce benedicendo. 

Dice Gesù: 
«Non è Vangelo, ma voglio che sia considerato uno dei “vangeli della fede”48 13 per voi che temete. 
Anche delle persecuzioni temete. Non avete più la tempra  antica. È vero. Ma Io sono sempre Io, figli. Non dovete pensare che Io non possa darvi un cuore intrepido nell’ora della prova. 
Senza il mio aiuto nessuno, anche allora, avrebbe potuto  rimanere fermo davanti a tantosupplizio. Eppure vecchi e  bambini, giovinette e madri, coniugi e genitori, seppero morire,  incuorando a morire, come andassero a festa. E festa era.  Eterna festa! 
Morivano, e il loro morire era breccia nella diga del  paganesimo. Come acqua che scava e scava e scava e rompe lentamente ma inesorabilmente le più forti opere dell’uomo, il loro sangue, sgorgando da migliaia di ferite, ha sgretolato la  muraglia pagana e come tanti rivoli si è sparso nelle milizie di  Cesare, nella reggia di Cesare, nei circhi e nelle terme, fra i  gladiatori e i bestiari, fra gli addetti ai pubblici bagni, fra i colti e i popolani, dovunque, incessabile e invincibile. 
Il suolo di Roma è imbibito di questo sangue e la città sorge,  potrei dire che è cementata col sangue e la polvere dei miei  martiri. Le poche centinaia di martiri che voi conoscete sono un nulla rispetto ai mille e mille ancora sepolti nelle viscere di  Roma e agli altri mille e mille che bruciati sui pali nei circhi  divennero cenere sparsa dal vento, o sbranati e inghiottiti da  fiere e da rettili divennero escremento che fu spazzato e gettato  come concime. 
Ma se voi non li conoscete, questi miei eroici sconosciuti, Io li conosco tutti, e il loro annichilimento totale, sin dello  scheletro, è stato quello che ha fecondato più di qualunque  concime il suolo selvaggio del mondo pagano e lo ha fatto  divenire capace di portare il Grano celeste. 
Ora questo suolo del mondo cristiano sta ritornando pagano  e germina tossico e non pane. È perciò che voi temete. Troppo  vi siete staccati da Dio per avere in voi la fortezza antica. 
Le virtù teologali sono morenti là dove già non sono morte.  E quelle cardinali neppure le ricordate. Non avendo la carità, è logico non possiate amare Dio sino all’eroismo. Non amandolo, 
non sperate in Lui, non avete in Lui fede. Non avendo fede,  speranza e carità, non siete forti, prudenti, giusti. Non essendo  forti, non siete temperanti. E non essendo temperanti, amate la carne più dell’anima e tremate per la vostra carne. 
Ma Io so ancora fare il miracolo. Credete pure che in ogni  persecuzione i martiri sanno esser tali per aiuto mio. I martiri:  ossia coloro che mi amano ancora. Io, poi, porto il loro amore  alla perfezione e ne faccio degli atleti della fede. Io soccorro chi  spera e crede in Me. Sempre. In qualunque evenienza. 
Il piccolo martire che resta con le manine strette al calice, 
anche oltre la morte, vi insegna dove è la forza. Nell’Eucarestia.  Quando uno si nutre di Me, secondo il detto di Paolo49 14, non  vive più per sé ma vive in lui Gesù. E Gesù ha saputo sopportare tutti i tormenti, senza flettere. Perciò chi vive di Me  sarà come Me. Forte. 
Abbiate fede.» 

A cura di Mario Ignoffo 

giovedì 28 maggio 2020

Santi Martiri del I – II e III Secolo



Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza 
 e dalle Rivelazioni Private della mistica 
 Maria Valtorta 


Martirio e morte del piccolo Castulo e S. Messa  di S. Paolo al Tullianum. 

***
Il canto riprende: “Ho aspettato ansiosamente il Signore ed Egli a me si è rivolto ed ha ascoltato il mio grido”43. 

“Il Signore è il mio Pastore, non mi mancherà nulla. Egli mi  ha posto in luogo di abbondanti pascoli, m’ha condotto ad  acqua ristoratrice” (S. 22). 
“Fabio è spirato” dice una voce nel fondo del sotterraneo.  “Preghiamo”, e tutti dicono il Pater ed un’altra preghiera che si  inizia così: “Sia lode all’Altissimo che ha pietà dei suoi servi e  schiude il suo Regno all’indegnità nostra senza chiedere alla 
nostra debolezza altro che pazienza e buona volontà. Sia lode al  Cristo che ha patito la tortura per coloro che la sua misericordia  poteva conoscere troppo deboli per subirla, e non ha loro  richiesto che amore e fede. Sia lode allo Spirito che ha dato i  suoi fuochi per martirio ai non chiamati alla consumazione del 
martirio e li fa santi della sua Santità. Così sia “ (Maran ata) 
(non so se scrivo giusto). 
“Fabio felice!” esclama un vegliardo. “Egli già vede Cristo!”  Noi pure lo vedremo, Felice, e andremo a Lui con la doppia  corona della fede e del martirio. Saremo come rinati, senza  ombra di macchia, poiché i peccati della nostra passata vita 
saranno lavati nel sangue nostro prima d’esser lavati nel Sangue  dell’Agnello. Molto peccammo, noi che fummo per lunghi anni 
pagani, ed è grande grazia che a noi venga il giubileo del 
martirio a farci nuovi, degni del Regno”. 
“Pace a voi, miei fratelli” tuona una voce che mi par 
subito di avere già udito. 
“Paolo! Paolo! Benedici!” 
Molto movimento avviene fra la folla. Solo Plautina resta  immobile col suo pietoso peso sul grembo. 
“Pace a voi” ripete l’apostolo. E si inoltra sin nel centro  dell’androne. “Eccomi a voi con Diomede e Valente per  portarvi la Vita”. 
“E il Pontefice?” chiedono in molti.
“Egli vi manda il suo saluto e la sua benedizione. È vivo, per  ora, e in salvo nelle catacombe. Fanno buona guardia i fossores.  Egli verrebbe, ma Alessandro e Caio Giulio ci hanno avvisati  che egli è troppo conosciuto dai custodi. Non sempre sono 5 di  guardia Rufo e gli altri cristiani. Vengo io, meno noto e 
cittadino romano. Fratelli, che nuove mi date?” 
“Fabio è morto”. 
“Castulo ha subìto il primo martirio”. 
“Sista è stata condotta ora alla tortura”. 
“Lino lo hanno trasportato con Urbano e i figli di questo al 
Mamertino o al Circo, non sappiamo”. 
“Preghiamo per loro: vivi e morti. Che il Cristo dia a tutti la 
sua Pace”. 
E Paolo, con le braccia aperte a croce, prega - basso,  bruttino anziché no, ma un tipo che colpisce - in mezzo al  sotterraneo. È vestito, come fosse un servo lui pure, di una  veste corta e scura, ed ha un piccolo mantelletto con cappuccio  che per pregare si è buttato indietro. Alle sue spalle sono i due  che ha nominato, vestiti come lui, ma molto più giovani. 
Finita la preghiera, Paolo chiede: “Dove è Castulo?” 
“In grembo a Plautina, là in fondo”. 
Paolo fende la folla e si accosta al gruppo. Si curva a osserva.  Benedice. Benedice il bambino e la matrona. Si direbbe che il 
bambino si sia risvegliato ai gridi salutanti l’apostolo, perché 
alza una manina cercando toccare Paolo, il quale gli prende 
allora la mano fra le sue e parla: “Castulo, mi senti?” 
“Sì” dice il piccino muovendo a fatica le labbra. 
“Sii forte, Castulo. Gesù è con te”. 
“Oh! perché non me l’avete dato? Ora non posso più!”  
E una lacrima scende a invelenire le piaghe. 
“Non piangere, Castulo. Puoi inghiottire una briciola sola? 
Sì? Ebbene, ti darò il Corpo del Signore. Poi andrò dalla tua 
mamma a dirle che Castulo è un fiore del Cielo. Che devo dire 
alla tua mamma?” 
“Che io son felice. Che ho trovato una mamma. Che mi dà il  suo latte. Che gli occhi non fanno più male. (Non è bugia dirlo, 
non è vero? per consolare la mamma?). E che io ‘vedo’ il  Paradiso ed il posto mio e suo meglio che se avessi questi occhi  ancora vivi. Dille che il fuoco non fa male quando gli angeli  sono con noi, e che non tema. Né per lei, né per me. Il 
Salvatore ci darà forza”. 
“Bravo Castulo! Dirò alla mamma le tue parole. Dio aiuta  sempre, o fratelli. E lo vedete. Questo è un bambino. Ha l’età in 
cui non si sa sopportare il dolore di un piccolo male. E voi lo 
vedete e l’udite. Egli è in pace. Egli è pronto a tutto subire, 
dopo aver già tanto subito, pur di andare da Colui che egli ama  e che lo ama perché è uno di quelli che Egli amava: un  fanciullo, ed è un eroe della Fede. Prendete coraggio da questi 
piccoli, o fratelli. Torno dall’aver portato al cimitero Lucina, 
figlia di Fausto e Cecilia. Non aveva che quattordici anni, e voi  lo sapete se era amata dai suoi e debole di salute. Eppure fu una  gigante di fronte ai tiranni. Voi lo sapete che io mi faccio  passare, con questi, per fossor44 , per potere raccogliere quanti  più corpi posso e deporli in suolo santo. Vivo perciò presso i 
tribunali e vedo, come vivo presso i circhi e osservo. E m’è 
conforto pensare che io pure nella mia ora - faccia Iddio  sollecita - sarò da Lui sorretto come i santi che ci hanno  preceduto. Lucina fu torturata con mille torture. Battuta,  sospesa, stirata, attenagliata. E sempre guariva per opera di Dio. 
E sempre resisteva a tutte le minacce. L’ultima delle torture, 
avanti il supplizio, fu volta al suo spirito. Il tiranno, vedendola  presa di amore per il Cristo, vergine che aveva legata se stessa al  Signore Iddio nostro, volle ferirla in questo suo amore. E la condannò ad esser di un uomo. Ma uno, due, dieci che si  accostarono e dieci che perirono, percossi da folgore celeste.  Allora, non potendo in nessun modo spezzare e distruggere il  suo giglio, il tiranno ordinò fosse legata e sospesa in modo da  rimanere come seduta e poi calata precipitosamente su un  cuneo pontuto che le squarciò le viscere. Credette così il  barbaro di averle levato la verginità tanto amata. Ma mai tanto,  come sotto quel bagno di sangue, il suo giglio fiorì più bello e 
dalle viscere squarciate si espanse per esser colto dall’angelo di 
Dio. Ora ella è in pace. Coraggio, fratelli. Ieri l’avevo nutrita del  Pane celeste e col sapore di quel Pane ella andò all’ultimo 
martirio. Ora darò anche a voi quel Pane perché domani è  giorno di festa sovrumana per voi. Il Circo vi attende. E non  temete. Nelle fiere e nei serpenti voi vedrete aspetti celesti  poiché Dio compierà per voi questo miracolo, e le fauci e le 
spire vi parranno abbracci d’amore, i ruggiti e i sibili voci celesti, 
e come Castulo vedrete il Paradiso che già scende per  accogliervi nella sua beatitudine”. 
I cristiani, meno Plautina, sono tutti in ginocchio e cantano: 
“Come il cervo anela al rivo così l’anima mia anela a Te.  L’anima mia ha sete di Dio. Del Dio forte e vivente. Quando 
potrò venire a Te, Signore? Perché sei triste, anima mia? Spera  in Dio e ti sarà dato di lodarlo. Nel giorno Dio manda la sua  grazia e nella notte ha il cantico di ringraziamento. La preghiera 
a Dio è la mia vita. Dirò a Lui: ‘Tu sei la mia difesa’ (S. 41). 
Venite, cantiamo giulivi al Signore; alziamo gridi di gioia al Dio  nostro Salvatore. Presentiamoci a Lui con gridi di giubilo.  Perché il Signore è il gran Dio. Venite, prostriamoci ed  adoriamo Colui che ci ha creati. Perché Egli è il Signore Dio 
nostro e noi il popolo da Lui nutrito, il gregge da Lui guidato” (S. 94). 

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A cura di Mario Ignoffo