Come per buona regola di prudenza, ancorché Dio non avesse di noi provvidenza sopranaturale, dobbiamo adempire la sua volontà.
Sin qui abbiamo inculcato questo sovrano esercizio con ragioni di spirito e sopranaturali, e con considerazioni per la maggior parte sante: adesso voglio che calchiamo più la mano con ragioni naturali, dichiarando manifestamente (di modo che non abbia che rispondere la nostra ingratitudine e mala corrispondenza verso Dio) come per legge, se non fosse altro, di prudenza, dobbiamo star disposti a quello che vuole e gusta Dio. Ed è chiaro che da quello che si è detto, si raccoglie essere ciò una sapienza divina ed essere fondato nella cristiana prudenza: e il contrario essere una sciocchezza e pazzia intollerabile.
Poiché quale maggior pazzia che in un colpo gittare a terra tante ragioni, distruggere tanti beni propri e togliere a sé stesso la vita? Lasciando di soddisfare alle infinite obbligazioni che una creatura tiene al suo Creatore, lasciando di far quello che gli è di tanto onore, lasciando di gustare un favo di miele tanto dolce, lasciando di goder tante utilità: lasciando di portar volontieri quello, che per forza deve sopportare, lasciando di dar gusto a Gesù suo redentore: lasciando di seguitare le sue pedate tanto piene di sicurezza: lasciando di andar dietro a tanti Santi che tutti hanno tenuto questa strada. È chiaro che questa è un'imprudenza, una follia, una dannazione.
Non parlo ora della prudenza che obbliga per queste ragioni e motivi maggiori; ma lasciando da parte tutto questo e dato un caso impossibile, che noi non avessimo obbligo alcuno a Dio, né gli dovessimo dar gusto, né egli dal far noi la sua volontà ricevesse gusto alcuno, né avessimo che temere nell'altra vita, con tutto ciò. per legge di prudenza naturale e di umana saggezza, dobbiamo fare quello che gusta a Dio e star del tutto conformati a quello che egli faccia, se non fosse altro, per vivere e passar contento questa vita temporale. A persuader questo, che in quanto a me è cosa chiara, si deve supporre che molti mali sono causa e occasioni di grandi beni, e per il contrario molti beni di questa vita sono occasione di mali molto maggiori. Di modo che accade bene spesso che quello di che uno si rallegra sia la sua rovina, e quello di che uno si lamenta sia il suo totale aiuto.
A quanti la roba che acquistarono, o il tesoro che ritrovarono, è stato occasione che loro fosse tolta la vita! A quanti l'infermità, nella quale caddero, giovò per liberarsi dalle occasioni nelle quali si sarebbero perduti se fossero stati sani! Di modo che non sa uno se l'infermità, nella quale incorre, o la povertà che patisce. gli è male pernicioso; né se la salute che ha, o le ricchezze che gode, gli tornino in bene; non sa se quelle gli servono per gran beni, né se queste gli servano per grandi mali.
Supposto questo, in qual giudizio e in qual legge di prudenza si trova che uno si alteri di alcune cose più che di altre? Che rifiuti quelle e che desideri queste? Che pianga quelle e che si rallegri di queste, se non sa che dietro a quelle ne seguiranno beni, e dietro a queste ne verranno mali? Non sappiamo quello che sta dentro delle cose, e che è in esse nascosto; e però dobbiamo rimaner indifferenti per quello che verrà e conformati a quello che succederà, senza timore, né desiderio delle cose di questa vita; e questa è ragione e prudenza naturale. Il che io dichiaro con questi esempi: se uno entrasse in una camera dove fossero varie casse, alcune piene di oro, altre di piombo, altre di fango, ma in tal maniera che dal di fuori non si potessero distinguere, e gli fosse dato di scegliere quella che egli volesse, certo che starebbe indifferente nello scegliere, perché non avrebbe ragione, né differenza più di una che dell'altra, né potrebbe egli sapere quello che stesse rinchiuso in quella che scegliesse. Di modo che più si contenterebbe se quegli, che pose quivi le casse, gliene determinasse una, che se egli la scegliesse di sua mano, perché alla fine se gli riuscisse male, non darebbe a sé la colpa, e potrebbe dall' altro canto presumere che quell'altro, se gli volesse bene e sapesse meglio il tutto, non lo ingannerebbe.
Nella medesima maniera, perché noi non sappiamo quello che portano seco le cose di questa vita, dobbiamo stare indifferenti e conformati a pigliare tra esse più volontieri quelle che ci verranno e saranno inviate da Dio. Parimenti se uno si ponesse a sedere a una mensa di varie vivande, la metà delle quali fossero avvelenate, benché saporite, e l'altra metà fossero molto salutevoli, ma in modo che non si potessero distinguere, qual prudenza avrebbe egli se cacciasse la mano nel piatto che gli paresse più buono? Non sarebbe questa una temerità e un'imprudenza grande? Piuttosto dovrebbe mangiare di quel piatto che la persona che ha fatto l'apparecchio, essendo di buona volontà, gli porgesse.
Come dunque può essere prudenza l'aver uno più gusto delle ricchezze che della povertà, della sanità più dell'infermità, se non sa che in queste o in quelle sta la morte o la vita? Non sarà meglio pigliar quello che ci verrà dalle mani di Dio, che sa quello che si ritrova in ciascuna cosa, e ha tanto buon animo verso le sue creature? Questo pare a me che sia tanto chiaro da conoscersi col solo lume naturale. E però questa ragione fece tanta forza a molti gentili, che per essa persuadevano la tranquillità d'animo e la conformità colla quale doveva uno stare in tutti i successi, ancorché non ci fosse eternità, né in questo si desse gusto a Dio.
Un'altra ragione naturale e anche più prudente e nobile della passata, convinse altri intorno a questa medesima massima: e questa é che nessuno deve affannarsi per quello che non gli tocca, né sta in suo potere e libertà, poiché nessuno deve rendere conto se Don di sé e del buon uso del suo libero arbitrio. Il succeder le cose in questa o in quell'altra maniera, che uno sia ingiuriato od onorato di molte forze o poche, che gli succeda questa disgrazia o quella ventura, non sta nelle nostre mani, né dipende dalla nostra libertà, e però non appartengono a noi questi successi. Per cui non deve uno rattristarsi, né rallegrarsi di essi più che se fossero cose straniere. Ma di quello che sta in sua mano, di questo sì che deve 1'uomo pigliarsi pensiero, e solamente queste sono le opere buone o cattive, perché questo solo é quello che ad uno tocca, l'operar bene o male: questo é proprio dell'uomo, a cui deve dispiacere di operar male e premere di operar bene. Del resto non si deve pigliar alcuna sollecitudine: ma deve stare indifferente e conformato a quello che avverrà.
Aggiungevano altri un'altra ragione molto prudente: che di due mali si deve scegliere il minore, e che maggior male era l'andar angustiandosi con timori, desiderii, sollecitudini, che non il patire i medesimi mali che si temono. Onde giudicavano essere più prudenza e casa più giusta lo stare ugualmente ben conformati a quello che succederà, che andar sempre carichi di paure e di sollecitudini. Dicevano di più che tutte queste sollecitudini erano vane; poiché dalla nostra tristezza e sentimento non riceve rimedio 1'infermità che ci assale, né la povertà che ci avviene, né la disgrazia che ci succede; e però, per tutte queste ragioni naturali, dobbiamo star tutti molto quieti e conformati con tutto quello che Dio ci manda. Tutta questa natural prudenza é per le cose, che non stanno in nostra mano, ma che noi dobbiamo necessariamente soffrire. Perché, per quelle che stanno in nostra mano, ci sono altre ragioni naturali, per le quali, secondo la prudenza morale e anche per la comodità della vita, dobbiamo eleggere quelle, nelle quali più ci conformiamo con la volontà divina, non in qualsivoglia modo, ma con le difficoltà della dottrina evangelica, la quale, per essere dottrina divina, non lascia di essere molto conforme alla ragione e alla prudenza naturale. Quale é la volontà di Dio in quello che egli vuole che noi facciamo? È chiaro che é la imitazione di Gesù Cristo, il seguir la sua povertà, la sua nudità, il disprezzo del mondo, l'astinenza dai piaceri dunque queste cose sono tali e tanto fondate nella ragione, che solo per legge di prudenza si devono adempire, ancorché non vi fosse altra vita che questa.
E però i medesimi filosofi, i quali negavano essere l'anima immortale, come gli stoici, e altri che negavano aver Dio provvidenza degli uomini, con la forza della ragione che loro dettava il lume della sola natura, insegnavano, e alcuni l'esercitavano, che per passar uno questa vita contento, doveva essere povero, disprezzare i diletti, fuggire il mondo. E la loro ragione era molto buona e prudente, perché dicevano: Chi non fa così, sta ripieno di paure, timori, ansie, sollecitudini, con gli affetti disordinati ed esposto ad altri mali molto maggiori, che seco in gran copia possono portare i beni del mondo. Le ricchezze sono ripiene di pericoli, timori e sollecitudini nell' acquistarle, nel distribuirle, nel conservarle; i diletti e gusti cagionano infermità e arrivano a privar del giudizio e dell'intero uso della ragione, e portano seco non minori pericoli gli onori del mondo, causa di grandi inquietudini, sollecitudini, invidie ed odii. Di modo che per ogni legge di prudenza uno deve fuggire tutto questo. Il che è conformarsi con la dottrina del nostro Salvatore e con la volontà di Dio. Aggiungevano che queste erano le regole di vivere: non voler niente del mondo, contentarsi del poco, cedere agli altri. E per legge di prudenza si dovrebbe far così, anche per vivere temporalmente con la propria quiete e in pace con gli altri e per essere ben voluto da tutti. In ordine a questo giudicavano che era prudenza il dare a sé stesso disgusto in molte cose e reprimere gli affetti disordinati, il che in sostanza non è altro che un continuo esercizio di mortificazione. È cosa meravigliosa quello che per questo operò Epicuro. Stava egli lottando e affaticandosi con ogni sforzo per vincere i suoi affetti, e in una infermità che ebbe di acutissimi dolori, si stava facendo una gran violenza per conformarsi con quel travaglio: il che, mancandogli l'unzione dello Spirito Santo, riusciva molto difficile e di poco frutto. Ma alfine, perché era convinto che per legge di prudenza e d'ogni buona ragione si doveva far così, per acquistar la pace del cuore, la quale giudicò sommo diletto e unica felicita dell'uomo, si faceva in ciò violenza. Dunque noi altri illuminati dalla fede, aiutati dalla grazia, obbligati con la morte di Gesù, invitati con eterni premi, animati con tanti esempi, che dobbiamo fare? Facciamo almeno per prudenza quello che dobbiamo per infinite obbligazioni. Facciamo almeno per cortesia (voglio parlar così) quello che si deve per ogni ragione. Vergogniamoci perché, obbligati per la passione di Gesù, non arriviamo a quello che i gentili fecero per sola prudenza.
Da tutto ciò dobbiamo cavare una regola di vivere meravigliosa e di natural prudenza, per la quale si deve sapere che rispetto a ciascuno ci sono due sorta di vicende. Alcune che stanno in mano altrui, altre che stanno in mano propria. Quelle sono la prosperità, la buona opinione nel mondo, la salute, l'infermità, la lunga vita, le guerre, i contagi e altre cose di tal natura. Quelle che stanno in propria mano, sono le opere di ciascuno. Dunque la regola è che solo di queste cose che sono in propria mano, cioè delle sue opere, deve uno essere sollecito a desiderare e procurare che siano buone. Ma delle cose che non sono in propria mano, non deve l'uomo pigliar sollecitudine, non desiderarle, non temerle, non rattristarsene, non rallegrarsene, ma star con l'animo ugualmente disposto a tutto e conformato con quello che succederà: l'uno perché non può con la sua tristezza impedirle, anzi è per affliggersene maggiormente, senza profitto; l'altro perché non lo toccano, perché non stanno in sua mano; e finalmente perché non sa quello che portano seco, né se siano per recargli tristezza, come perniciose, o allegrezza, come fruttuose.
P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J.
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