OPERA A BEN VIVERE
Dico dunque, che a volere istirpare da' nostri cuori ogni vizio e mala consuetudine, ci bisogna pigliare l'esempio del villano, che vuole addomesticare il suo giardino, estirpare d'esso le male radici delle male erbe: che, prima si spogliano de' vestimenti loro, a ciò che più espeditamente si passino meglio esercitare; e poi, così leggieri, pigliano i ferramenti atti a ciò, e con molta fatica si esercitano. Or dico (così), a loro esempio, dobbiamo fare noi spiritualmente, a volere istirpare li nostri vizii da' nostri cuori: che prima ci bisogna ispogliare d'ogni amore mondano, e tutto l'amar nostro metterlo solamente alle cose celestiali; e poi, così spogliati, pigliamo i ferri che siano più atti a ciò fare, e che meglio ci passino servire, senza durare molta fatica. Onde a questo esercizio fare, non ci conosco miglior ferro, né più atto, che l'amore di Dio.
Bisognaci dunque, a volere bene istirpare li nostri vizii da' nostri cuori, che prima inebbriamo bene le anime nostre dello amore di Dio; e poi che d'esso siamo bene armati, usciamo fuori nel campo alla battaglia, e farci incontra alle avversità, e non fuggirle. Però che ogni vizio si vince meglio per pugnare con tra esso, che fuggendo: eccetto che il vizio della tentazione della carnalità, il quale, non come gli altri ci gli dobbiamo fare innanzi, ma dobbiamo fuggire ogni sua cagione: ma, da questo in fuori, ad ogni altro ci dobbiamo, come valenti cavalieri di Cristo, farci loro innanzi, e non fuggire.
Onde il nostro ortolano Gesù Cristo benedetto, il quale perfettamente conosce come meglio possiamo stirpare dall'orto della terra del cuor nostro dette male radici, per potervi poi su seminare il buon seme delle sante virtù, a ciò che possa producere il frutto netto, che ci abbi a tenere sazii poi sempre della grazia sua, grida e dice: «Chi non odia il padre, e la madre, e la moglie, e i figliuoli, e i fratelli, e le sorelle, ed eziandio l'anima sua, non può essere mio discepolo».
Ecco dunque, che a voler essere discepolo di Dio, cioè, a venire alle virtù, e ad alcuna perfezione e gusto di Lui, vuole che prima ci spogliamo d'ogni amore terreno, ed eziandio del nostro proprio. E anca dice: «Chi vuole venire dopo me (cioè, al regno del cielo) anneghi sé medesimo (cioè, la propria volontà, cioè, ogni suo proprio amore terreno e sensuale e vizioso) e taglia la croce sua, e segui ti me». Cioè, che s'armi di quella armatura per mio amore, che io per suo armai me. Siccome volesse dire: come io per amore vostro, essendo vero Dio, m'armai di questo amore, non avendo io peccato, a ciò che, morendovi su, potessi voi nettare da ogni vizio e da ogni peccato; così voi, rendendo cambio a me, a esempio di me, pigliate la croce vostra dell'amore, a ciò che per esso amore possiate stirpare da' cuori vostri ogni mala radice di vizio e di peccato, senza fatica.
Onde dice Santo Giovanni Grisostomo, che «nullo legame di fune, o di catene di ferro, avrebbe potuto tenere Cristo in croce, se non fusse che ve lo tenne il legame dello amore». E' dunque necessario, a volere istirpare dai nostri cuori le male radici de' nostri vizii, che prima ci armiamo di questo santo amore di Dio: però che, se così faremo, nulla fatica ci parrà a combattere colle nostre male consuetudini, e a stirpare da' nostri cuori; altrimenti, se questo amore noi non avessimo, ogni picciola fatica ci parrebbe impossibile, e mai a nulla perfezione di virtù potremmo pervenire.
Or torniamo al nostro proposito. Il Signore ci dice, che, se vogliamo andare dopo Lui a vita eterna, ci bisogna pigliare la nostra croce, e seguitarlo; cioè, per la via delle virtù. Le quali mai fare non potremo, se prima noi non istirpiamo e diradichiamo le male radici de' vizii.
Bisognaci dunque con molta fatica, come fece Cristo, il quale era senza peccato, noi peccatori, a suo esempio, partirci da' vizii perfettamente, innanzi che possiamo pervenire alle virtù. Le quali virtù quando ci saremo giunti, allora avremo negato noi medesimi. Onde dice Santo Gregorio: «Picciola fatica è lasciare quello che l'uomo ha, cioè li beni terreni; ma grande cosa è lasciare quello che l'uomo è, cioè le male consuetudini». E poi dice: «Chi è superbo, egli diventi umile e mansueto, annega sé medesimo; chi è iracondo, e diventi mansueto, annega sé medesimo; chi è lussurioso, e diventi continente, annega sé medesimo; chi è avaro, e largisca del suo, il quale prima soleva rapire quel d'altrui, senza dubbio annega sé medesimo».
Vuole dunque, figliuola mia, questo nostro dolcissimo Padre da noi cambio per cambio: che, come Egli, per nostro amore, negò e fuggì ogni sensualità, e piacere, e consolazione mondana, e [volle] per via di croce, cioè, di fatica e pena, andare al regno suo; così questo medesimo richiede da noi: che, per suo amore, neghiamo noi medesimi, cioè, di neghiamo e vietiamo alla nostra sensualità tutte quelle cose, che offendono Dio, e che c'impediscono d'andare alla nostra vera patria celestiale; e che la prima cosa che sia in noi, che tutto il nostro amore e desiderio sia in Lui, contemplando sempre d'andare per quella via che Esso andò, cioè, per via di fatiche. Onde dice San Bernardo: «Chi si crede andare al regno del cielo per altra via, che s'andasse Gesù Cristo, erra». E anco dice: «O buon Gesù! se Tu che eri signore e re di paradiso, volesti con tanta pena e fatica, e poi alla fine con sì dura morte, entrare nel regno tuo; che bisognerà fare a noi, miseri peccatori, per volere entrare nel regno che non è nostro?». Quasi dica: molto, molto c'è da fare. Ad esempio dunque di Cristo, è bisogno che ci facciamo innanzi alle tribulazioni, e male nostre consuetudini, e virilmente combattiamo con esse, e non fuggirle; però che quanto più le fuggissimo, più forza ci arebbero addosso.
Onde Gesù Cristo, a nostro esempio, sempre li diletti e onori fuggì; come fu quando non volle essere fatto re; e alle tribulazioni si fece innanzi come fe', quando lo vennero a pigliare, il quale, se volea, potea fuggire. Or così noi, a suo esempio, e per suo amore, ci dobbiamo sempre fare incontro ad ogni sensualità, e saperci vincere, pigliando sempre le arme contrarie che vorrebbe la nostra sensualità. E a modo che dice Santo Gregorio, che si curano le infermità, dicendo: «Le calde col freddo, e le fredde si curano col calore»; così noi, spiritualmente ci bisogna adoperare le arme contrarie, per istirpare e guarire le infermità dell'anima. Cioè, contra alla superbia, l'umiltà; contra all'invidia, la carità; con tra all'iracondia, la mansuetudine; contra alla lussuria, la continenza; con tra all'avarizia, la largità.
E così ci bisogna combattere, e avvezzarci a poco a poco; tanto che, collo aiuto di Dio, le male consuetudini s'abbattino. Questo stile tennero i Santi Padri: li quali Iddio pose in questo mondo, come luminari e guide nostre per andare al regno del cielo, a ciò che ci avessero ad illuminare, e a guidare ad esso sicuramente. I quali insegnarono a' loro discepoli quest'arte perfettamente, cioè, che, sempre faceano lor fare il contrario di quello, che conoscevano che l'animo loro arebbe voluto fare: e così, vincendo ogni propria volontà, venivano a tanta perfezione, che, per cosa sinistra che avvenisse loro, mai si turbavano, né perdevano la tranquillità della mente loro; e così, con mente pacifica e tranquilla, servivano a Dio in purità e semplicità di cuore, disprezzando il mondo, e ogni suo diletto, come spazzatura.
Onde, conoscendo questo una gentilissima donna di Alessandria, e avendo questo santo desiderio che ha la carità vostra, di venire a qualche perfezione e gusto di Dio; e conoscendo che ciò fare non poteva, se prima non istirpasse da sé le radici delle male consuetudini che in lei regnavano; e conoscendo che perfettamente ciò non poteva fare, se prima non si avvezzasse a vincere sé medesima le sue passioni; illuminata dallo Spirito Santo, prese questo partito. Andossene a Teofilo, patriarca di Alessandria, e pregollo che le dovesse dare una delle povere vedove, ch'egli sosteneva delle sostanze della chiesa; ch'ella la volea per sua compagnia, e ciò ch'ella [la vedova] la facesse buona, e lei la voleva nutricare a spese sue.
E considerando il patriarca la nobiltà della donna, comandò a quello che avea cura delle povere vedove, che gliene dovesse dare una, delle più costumate e migliori che vi fusse; il quale egli così fece. E menandosela seco la gentildonna a casa sua, quella vedova, come buona e santa, cominciò a servire la gentildonna con molta reverenza, ringraziandola ad ogni ora di tanti beneficii che le faceva. La qual cosa considerando la gentildonna, e conoscendo che colei non era il bisogno suo, parendole essere stata più atta a insuperbire per gli onori ch'ella le faceva, che a diventare umile e paziente; licenziò la buona donna, e fecela ritornare donde l'avea levata.
E poi con grande fervore ritornò al patriarca, e dissegli: Io t'avevo pregato, che tu mi dessi una compagna che mi facesse buona, e io non sono stata servita. La qual cosa udendo il patriarca, e dubitando che ella non avesse avuto la donna, maravigliandosi che egli non fusse stato obbedito, fece chiamare quello che era sopra di loro, e domandollo s'egli avea dato la donna, come egli aveva ordinato. E trovando ch'ella l'avea avuta, e la più santa e migliore che vi fusse, disse alla donna: Buona donna, io non v'intendo, se più chiaramente non mi parlate. Allora ella gli aperse il suo desiderio, dicendogli come desiderava di pervenire a qualche virtù, e che desiderava d'avere una compagna che la provocasse; a ciò che, per mezzo di lei, ella avesse cagione d'esercitarsi a vincere sé medesima. Il qual desiderio intendendo il patriarca, essendo molto bene edificato di lei, le fece dare una garrizzaia, superba e impaziente e brontolosa.
La quale ella se la menò a casa, e cominciolla a servire il meglio che poteva, facendole molta reverenza e onore: ma quella, come superba, quanto più carezze le faceva, tanto più insuperbiva; dicendole molte ingiurie e parole dispettose, ed eziandio veniva a tanto, ch'ella le metteva le mani addosso.
Ma quella gentilissima donna, d'anima e di corpo, desiderando di pervenire alla virtù, s'ingegnava, quanto poteva, di rispondere umilmente, e di servirla con più diligenza che poteva.
Così esercitandosi per lungo spazio di tempo, adoperandovisi la divina grazia, venne a tanta perfezione e stabilità di mente, che di cosa avversa che gli avvenisse, perdeva mai la tranquillità della mente sua. E sentendosi ella così perfetta, ritornò al patriarca con detta donna, dicendogli: Io ti ringrazio, che mi hai dato buona maestra, e che bene mi provvedesti secondo che era il mio bisogno.
Or così dunque questa gentildonna seppe bene trovare i ferramenti, atti a stirpare dall'orto del cuor suo ogni mala radice, e passione di vizii, che in lei regnava; ma non è da credere che, senza grande fatica di mente, e senza sua grande violenza, a tanta perfezione potesse pervenire.
Or a questo modo è da fare: di farsi innanzi alle nostre passioni, e alle nostre sensualità e vizii, e di valentemente pugnare con tra a essi; però che Dio, quando ci vede ben disposti a volerci aiutare, sempre ci dà e porge il suo aiuto.
A questa perfezione non pervenne, non volendosi esercitare, uno giovane impaziente, e troppo delicato di sé medesimo, come si legge in Vita patrum. Infatti si dice, che, essendo in uno monasterio uno giovane, il quale troppo si amava, il quale non volea vincere sé medesimo, a stirpare del cuor suo le male radici de' vizi e male consuetudini; vivendo nel monasterio sì come il vento lo menava, non curandosi troppo di pervenire ad alcuna perfezione né gusto di Dio; ma stavasi così tiepidaccio, credendo che tutta la sua perfezione stesse in dire orazioni o uffizi; il quale d'ogni picciola cosa si turbava, e perdeva la quiete della sua mente.
Onde disse a sé medesimo: Andar voglio alla solitudine, dove non c'è persona che m'abbi a fare turbare. E ciò facendo, andando un dì per l'acqua, e avendone piena una mezzina, portandola alla sua cella, e posandola un poco in terra, la quale per operazione diabolica si versò. E ritornando alla fonte, la riempiè da capo; e come la posò in terra, anco si versò un'altra volta. Della qual cosa egli conturbandosi, prese quella mezzina, e ruppela; e rotta che l'ebbe, ritornando in sé, e vergognandosi, disse: Or ecco che anco alla solitudine mi scandalizzo! Onde veggio che in quel luogo c'è da fare, e veggio che c'è bisogno dell'aiuto di Dio.
E ritornando al monasterio, cominciò a sopportare i costumi dei frati, facendo forza alla sua sensualità, combattendo con tra alle sue male consuetudini; per modo che, collo aiuto di Dio, in ispazio di tempo venne a gran pace e stabilità di mente, e diventò perfetto monaco.
A voler dunque pervenire a qualche perfezione, e gustare qualche cosa di Dio, e a venire a qualche pace e quiete di mente, ci bisogna prima discacciare e diradicare da noi le male consuetudini; e questo ci bisogna fare vincendo noi medesimi, facendosi violenza di quelle cose che sono con tra alla nostra volontà e avvezzarci a poco a poco a sopportare con pace quelle cose, che sono con tra all'animo nostro, e non volere rispondere ad ogni cosa; come se alle parole ingiuriose e offendenti, e altri contrarii, che ad ogni ora ci può venire: tenendo per fermo, che ciò che ci avviene, Dio lo permette per nostra utilità; le quali in nullo modo ci possono avvenire, se Dio non permettesse.
E così, cominciandosi a poco a poco a vincersi la mente, si comincia a solidare nelle buone opere; e per questo modo si stirpano le male radici. Le quali, quando sono stirpate, generano nella mente uno gaudio e consolazione, la quale sempre sta assetata, e desiderosa d'adempiere li comandamenti di Dio, parendole ogni gran fatica, poca; e così tutta si dispone al ben fare, nel quale si trova perfetta pace, e per questo modo si cerca; come dice il profeta nella terza parte: «Cerca la pace».
E questo basti aver detto, quanto alla seconda parte che ci dice il profeta, cioè che facciamo bene. Ora resta a dire qualche cosa in che modo si perviene a perfetta pace, assimigliata a quelli che hanno lavorato la terra, e che vi seminano su il buon seme.
SAN ANTONINO
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