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giovedì 28 ottobre 2021

Un vescovo parla

 


TRA LA TERZA E LA QUARTA SESSIONE DEL CONCILIO VATICANO II 


Il concilio Vaticano II sarà stato in definitiva un beneficio per la Chiesa? Lo si vedrà all'atto pratico. Una cosa certa, della quale è impossibile dubitare senza dover attendere la fine del Concilio, è che esso avrà manifestato con evidenza incontestabile come la Chiesa in taluni dei suoi membri più elevati possa essere influenzata dal magistero dei tempi nuovi: l'opinione pubblica. 


UN NUOVO MAGISTERO: L'OPINIONE PUBBLICA 

Mai come in questa occasione si era potuto misurare la terribile potenza dei mezzi di comunicazione sociale e in particolare della stampa e della radio poste al servizio degli ispiratori dell'opinione pubblica. Non si sono forse udite e lette nei testi conciliari queste parole: «il mondo attende, il mondo desidera…, il mondo è impaziente…»? Quanti interventi sono stati fatti, anche inconsciamente, sotto questo influsso! Quanti padri hanno voluto farsi portavoce di questa «opinione pubblica», quanti altri hanno approvato tali interventi per timore di contraddire questo nuovo magistero. Ricercare i fini, i mezzi degli ispiratori della pubblica opinione sarebbe uno studio appassionante e molto istruttivo. Da parte mia mi contento di constatare i fatti, di ricercare le linee di forza di tali fatti e, raggruppandoli, di mostrare con certezza che non si tratta di manifestazioni occasionali, bensì di una delle fasi della battaglia del Principe di questo mondo contro la Chiesa di Nostro Signore. È impossibile infatti non paragonare ciò che ci hanno insegnato i nostri venerati maestri della Gregoriana e del Seminario francese, ciò che hanno insegnato i papi in questi ultimi decenni, con ciò che abbiamo inteso e con ciò che leggiamo in occasione del Concilio. Come non concludere che si tratta di un magistero altro da quello della Chiesa? I discorsi dei Papi a chiusura delle sessioni dei concili passati e i loro interventi non fanno che corroborare quest'affermazione. Numerosi sono i sacerdoti e più numerosi ancora i fedeli sconvolti da quanto leggono o sentono e che è, il più delle volte, solamente l'eco di questo nuovo magistero. No, la Chiesa, nella persona del successore di Pietro, non l'ha ancora sostituito al magistero tradizionale; né l'ha fatto la Chiesa di Roma, e questo conta ancor più. Infatti la Chiesa di Roma è, attraverso la unione con il suo vescovo, mater et caput omnium ecclesiarum. Ora, la maggioranza dei cardinali e specialmente i cardinali di Curia, la maggioranza degli arcivescovi della Curia e dunque della Chiesa di Roma, i teologi romani nel loro insieme non hanno parte in questo nuovo magistero. Ed è questo che costituisce la forza di tale minoranza, di cui l'opinione pubblica parla con una certa commiserazione. Fino a oggi essa si trova con Pietro e con la Chiesa romana: è una buona garanzia. Si può cercare di scoprire gli elementi principali del nuovo magistero? Un arretramento nel tempo faciliterebbe indubbiamente questa analisi. Ma poiché appuro certo che molti di quei princìpi sono stati ereditati dalle tendenze moderniste abbondantemente descritte dagli ultimi papi, è più agevole individuarli. Si può, mi pare, raggruppare le osservazioni attorno a due fatti o due punti nevralgici del Concilio: la collegialità giuridica e la libertà religiosa.

 Pare innegabile che uno dei primi obiettivi proposti da coloro che si facevano portavoce dell'opinione pubblica era la sostituzione del potere personale del Papa con un potere collegiale. I tempi cosiddetti moderni non consentendo più un'autorità personale come quella del Papa, esercitata da organismi interamente a sua discrezione, si renderebbe necessario sopprimere la Curia e affiancare al Papa un consiglio di vescovi con i quali egli governi la Chiesa, e in tal modo anche i vescovi godrebbero di una reale partecipazione al governo della Chiesa universale. Questa affermazione colpirebbe a un tempo il potere personale del Papa e il potere personale del vescovo. Bisognava dunque a qualsiasi costo provare che la collegialità giuridica ha fondamento nella Tradizione e di conseguenza nella teologia. La soppressione della distinzione tra il potere d'ordine e il potere di giurisdizione avrebbe facilitato la dimostrazione. Avendo il vescovo grazie alla sua consacrazione potere sulla Chiesa universale, il Papa non può governare la Chiesa universale senza fare appello ai vescovi. Allo stesso modo il Papa non può togliere o restringere troppo i poteri di giurisdizione dei vescovi poiché quei poteri derivano loro dalla consacrazione. La collegialità era dunque l'obiettivo da raggiungere. Una volta raggiunto quell'obiettivo, tutte le conclusioni sarebbero venute da sole, modificando radicalmente le strutture tradizionali della Chiesa. Ormai tanto a Roma quanto nelle varie nazioni la Chiesa sarebbe governata da assemblee e non più da un'autorità personale assolutamente contraria, secondo i novatori, a tutti i princìpi della società moderna. La collegialità si presentava dunque come il primo «cavallo di Troia» destinato a far crollare le strutture tradizionali. Di qui l'accanimento con il quale tutto fu messo in opera per assicurarne la riuscita. Bisogna confessare che umanamente, dato il numero di coloro che credevano dover approvare, dati i mezzi impiegati, il successo della nuova tesi era certo. Ma lo Spirito Santo vegliava, e occorre leggere attentamente la Nota esplicativa 2 per rendersi conto che questo messaggio è veramente sceso dal cielo, perché in primo luogo essa elimina la collegialità giuridica e di conseguenza sopprime qualsiasi diritto dei vescovi al governo della Chiesa universale; in secondo luogo sottomette la giurisdizione personale dei vescovi alla piena autorità del successore di Pietro; in terzo luogo riafferma che l'ufficio di Pastore della Chiesa universale appartiene al solo Papa; in quarto luogo dichiara apertamente che ai vescovi non è dato agire collegialmente se non per volontà esplicita del Papa. La struttura tradizionale della Chiesa è dunque salvaguardata, come il Papa stesso ha affermato nel suo discorso di chiusura, almeno nei testi. Bisogna confessare che dopo le angosce da noi sofferte nel corso della seconda sessione e all'inizio della terza, questa luce divina proiettata nuovamente sull'immutabile costituzione della Chiesa ci è parsa un segno strepitoso della divinità della Chiesa. Come d'altronde non collegare i due avvenimenti: l'eliminazione degli errori derivanti da una collegialità mal compresa e l'apparizione di Maria Madre della Chiesa,3 della Chiesa di Nostro Signore, della Chiesa cattolica romana, della Chiesa composta dal Papa, dai vescovi uniti e sottomessi al Papa e capi delle loro Chiese particolari, dai sacerdoti e particolarmente dai parroci collaboratori dei vescovi e infine dai fedeli, che attraverso questo sacerdozio gerarchico ricevono le grazie innumerevoli che permettono loro di santificarsi, di santificare la famiglia, la parrocchia, la comunità civile, la professione, la città, e così di sottomettere tutto all'ordine divino attraverso la pratica della virtù di giustizia: «Opus iustitiae pax»? La Chiesa è veramente eterna, e Maria, che da sola ha vinto tutte le eresie, continua a vegliare su di essa con materna sollecitudine. 

Marcel Lefèbvre

sabato 11 settembre 2021

Un vescovo parla

 


DOPO LA SECONDA SESSIONE DEL CONCILIO VATICANO II 

Dopo questa seconda sessione del Concilio Vaticano II non è inutile fare il punto, prendendo in particolare come base dei nostri giudizi quelli formulati dal Papa stesso alla fine della sessione. Dobbiamo affermare in primo luogo con il Sommo Pontefice che «non si può abbracciare tutto in una descrizione, tanti elementi di questo Concilio appartengono al campo della grazia e a quel regno intimo delle anime dov'è sovente diffìcile penetrare, e del resto molti di questi frutti del nostro lavoro non sono ancora giunti a maturità ma si trovano piuttosto allo stato di germi affidati alla zolla e attendono dal futuro e dai nuovi interventi della misteriosa azione divina il loro sviluppo effettivo e benefico». Tuttavia il Santo Padre, dopo alcune considerazioni, entra effettivamente nel vivo dell'argomento e, enumerando gli obiettivi che furono sottoposti all'assemblea, dà precisazioni estremamente importanti che devono essere accettate da tutti i padri come un orientamento per la futura sessione. In circostanze come quelle di un concilio, in cui i Papi hanno sempre voluto armonizzare la libertà dei padri con l'esercizio della propria funzione di guida, da Nostro Signore loro affidata, le minime allusioni, se sono chiare, non devono forse essere accolte dai padri con devozione filiale e orientare il loro giudizio? La libertà nel Concilio. - Il Santo Padre si rallegra nel constatare che «il lavoro conciliare si è svolto in totale libertà di espressione e questo sentimento di soddisfazione non è per nulla diminuito dal fatto che le sentenze formulate nelle discussioni conciliari sono state varie, molteplici, anche diverse…». Questa libertà esisteva d'altra parte già nei concili di Trento e del Vaticano I, come scrive Theiner, uno studioso di storia dei concili: «Secondo le istruzioni dei Papi, doveva essere riservata a ciascuno la più ampia libertà di parola fino a permettere che fossero proferite eresie, purché, una volta presa la decisione, ci si sottomettesse» (Introduzione, XIX). 


RISULTATI ACQUISITI 

La liturgia. - Secondo l'ordine proposto dal Papa stesso, accostiamoci in primo luogo alla liturgia. Il posto e la funzione della liturgia sono mirabilmente tracciati dal Santo Padre in un'esposizione succinta ma vigorosa. «Vi scopriamo», dice il Papa, «un omaggio alla scala dei valori e dei doveri: Dio ha il primo posto, la preghiera è il nostro primo dovere…». Poi viene la funzione della liturgia, «fonte prima della vita divina…, prima scuola di vita spirituale…, primo dono che possiamo fare al popolo cristiano». In poche righe il Santo Padre traccia tutto un programma. Infine, «invito al mondo affinché sciolga le sue labbra fino a qui mute…, canti con noi le lodi di Dio…». Appello ardente a quelli che ancora non pregano con il popolo cristiano. Poi, in un secondo paragrafo, il Santo Padre studia la relazione tra la liturgia e la Chiesa e afferma l'importanza capitale della liturgia nella vita della Chiesa. «La Chiesa è una società religiosa, una comunità di preghiera…». Avverte con insistenza che se sono state effettuate talune semplificazioni, esse non significano per nulla «diminuire l'importanza della preghiera, né posporla alle altre preoccupazioni del ministero sacro o delle attività pastorali e tanto meno sminuire la sua forza d'espressione o le sue attrattive artistiche». Ciò va ricordato per interpretare bene i decreti che saranno emanati in avvenire.

«Per raggiungere questo risultato», aggiunge infine il Santo Padre in un terzo paragrafo, «noi non vogliamo che si ledano le norme della preghiera ufficiale della Chiesa con l'introdurvi riforme private o riti particolari. Non vogliamo che ci si arroghi il diritto di anticipare arbitrariamente l'applicazione della Costituzione… La sua armonia in tutto il mondo costituisce la nobiltà della preghiera della Chiesa. Nessuno la turbi, nessuno la violenti…». Parole forti, vigorose, rese necessarie, ahimè! da tante iniziative addirittura inverosimili di cui migliaia di fedeli sono testimoni impotenti e profondamente addolorati. Numerose, infatti, sono le chiese dove le regole liturgiche sono impunemente violate. Ciò che è più grave, forse, della stessa innovazione liturgica, introdotta da questi sacerdoti, è soprattutto l'abitudine e l'esempio della disobbedienza pubblica da parte di coloro che hanno promesso obbedienza e che dovrebbero esserne i modelli. Presto saranno rese pubbliche le istruzioni ufficiali della Santa Sede. È auspicabile che il primo risultato della loro pubblicazione sia la cessazione delle iniziative private. A proposito della Costituzione sulla liturgia non è inutile ricordare che il Papa rimane sempre libero di ritoccarla se lo giudichi opportuno, anche senza nessun ricorso ai vescovi, anche dopo averla approvata solennemente. Trattandosi di una costituzione disciplinare e non dogmatica, il successore di Pietro è unico giudice della pubblicazione e dell'applicazione. 


Comunicazioni sociali. 

- Dopo la liturgia, il Santo Padre indica come secondo frutto del Concilio «il decreto sui mezzi di comunicazione sociale». E aggiunge: «Il decreto mostra che la Chiesa è capace di unire vita interiore e vita esteriore, contemplazione e azione, preghiera e apostolato». Trattando questo argomento la Chiesa non esce dalla sua funzione. Alcuni avrebbero voluto respingere questo schema, a loro parere insufficientemente scientifico. Il Papa non ha ritenuto opportuno aderire al loro desiderio e ha proposto lo schema ai padri che lo hanno approvato.

Nuove facoltà concesse ai vescovi. - Il Papa allude poi alle facoltà accordate ai vescovi, la competenza dei quali viene in tal modo estesa. La presentazione delle facoltà accordate ai vescovi non ha avuto la fortuna di piacere a coloro che avevano affermato in concilio tali facoltà non dover essere considerate come concesse ai vescovi, ma come loro restituite. Affermavano infatti che il Sommo Pontefice poteva limitare le facoltà dovute ai vescovi unicamente per ragioni di bene comune della Chiesa, avendo i vescovi un diritto rigoroso a tali facoltà per il fatto stesso della loro consacrazione e della loro missione canonica in una diocesi o in una giurisdizione particolare. Ora appare chiaro che il Papa non ha giudicato opportuno riconoscere la legittimità di questa istanza. Nessuna allusione è fatta a un diritto dei vescovi. È sempre impiegato il termine «concedere», «accordare», e i motivi sono la grande stima che il Papa ha per i padri conciliari, il maggiore risalto dato alla dignità episcopale, la maggiore efficacia che ne deriva alla loro missione pastorale. Si può legittimamente concludere che il Papa conferma indirettamente la tesi tradizionale, la quale vuole che tutto il potere giurisdizionale dei vescovi sia dispensato dal Papa stesso nella misura in cui lo giudichi opportuno. Se per il suo potere d'Ordine il vescovo ha una capacità radicale di giurisdizione e se, quando questa gli è data, egli la esercita di diritto divino, non è per ciò meno vero che il Papa ne rimane il dispensatore con intero potere di allargare o restringere la giurisdizione stessa. Benché il diritto canonico indichi tali poteri concessi dal Papa, in questa materia il diritto non vincola il successore di Pietro.


 RISULTATI PARZIALMENTE ACQUISITI

«Ma non è tutto», dice il Santo Padre, «il Concilio ha lavorato molto. Ha, come sapete, affrontato numerosi problemi; per una parte di essi le soluzioni sono già virtualmente fissate… Altre questioni restano aperte a studi e discussioni ulteriori… Non ci dispiace che problemi di tale gravità siano oggetto di una pacata riflessione…». Il Papa fa quindi allusione a una ulteriore riduzione dei testi, il che fa intravedere un nuovo rifacimento degli schemi, onde ne escano «testi profondamente studiati, enunciati rigorosi e portati a tutta la densità e la concisione desiderabili». In definitiva, dovremo ritornare a un enunciato dogmatico preciso, il solo capace di realizzare il desiderio del Santo Padre, tanto comprensibile dopo le interminabili discussioni dovute all'ambiguità dei termini e agli enunciati equivoci. Gli esempi che seguiranno sembrano riallacciarsi piuttosto ai «problemi gravi», «che restano aperti a studi e discussioni ulteriori». In effetti, i tre esempi indicati dal Papa sono molto importanti: la Rivelazione, l'episcopato, la Vergine Maria. Anche qui le indicazioni e gli orientamenti dati dal Papa sono di grande valore e, sebbene ricchi di sfumature, sufficientemente chiari, soprattutto per quanto riguarda l'episcopato. 

Della Rivelazione. - Per quanto riguarda la Rivelazione, il pensiero del Santo Padre si esprime chiaramente e nel senso di una grande prudenza: «Il Concilio risponderà su tale argomento [questa espressione è netta] in modo da conservare il deposito sacro… e in modo da fissare una direzione agli studi biblici… nella fedeltà al magistero della Chiesa e assimilando tutti gli apporti seri della scienza moderna». I limiti sono ben tracciati e indicano la linea generale da seguire. 

Dell'episcopato. - Secondo esempio: «la grande e complessa questione dell'episcopato», affrontata in questo Concilio, «il quale, non dimentichiamolo, è la continuazione naturale e il completamento del concilio ecumenico Vaticano I». Il Santo Padre sviluppa il suo pensiero in modo non equivoco: «Il Concilio vuole di conseguenza mettere in luce, secondo il pensiero di Nostro Signore e secondo l'autentica tradizione della Chiesa, la natura e la funzione divinamente istituita dell'episcopato». Sono indicate due fonti: il pensiero di Nostro Signore e l'autentica Tradizione della Chiesa, che evidentemente non possono contraddirsi, l'autentica Tradizione essendo la maniera più sicura di risalire al pensiero di Nostro Signore ogni volta che la Scrittura non determina le modalità dell'istituzione divina. Se vi è qualche esitazione nell'interpretazione della parola di Nostro Signore che conferisce la missione agli Apostoli e dà loro i poteri, bisognerà interrogare la Tradizione e principalmente i fatti storici, dagli Apostoli ai nostri giorni. Come agirono gli Apostoli per darsi dei successori? Quali furono i loro poteri? Quali le relazioni dei successori di Pietro con i vescovi, particolarmente dopo che fu stabilita la pace? Che cosa dicono i primi scritti posteriori ai Vangeli a proposito dei vescovi? Quale fu la partecipazione dei vescovi di Roma nei concili? È chiaro che tutti gli Apostoli hanno agito nella medesima maniera, cioè hanno preposto vescovi a Chiese particolari, a sedi stabili, con giurisdizione limitata. Appare con evidenza sempre maggiore che solo il Vescovo di Roma ha una giurisdizione universale. Si ricorre a lui come alla sola istanza suprema. Nel 422 il papa san Bonifacio I diceva a Rufo, vescovo di Tessalonica: «Mai, infatti, è stato permesso di rimettere in discussione quello che è stato deciso dalla sede apostolica». Su questo argomento la Tradizione è luminosa. Per affermare che i vescovi hanno in comunione con il Papa una giurisdizione abituale, di diritto divino, sulla Chiesa universale, bisogna forzare i testi e negare i fatti. «Dichiarare quali siano i poteri dell'episcopato e come debbano essere esercitati, significa confermare», dice il Papa, «le prerogative pontificie del Pontefice romano, le quali implicano tutta l'autorità necessaria al governo universale della Chiesa». Come confermare tali prerogative se non affermando con tutta la Tradizione che il Papa è il solo a possederle e che i vescovi hanno potere solo su Chiese particolari, potere proprio, di diritto divino, il cui esercizio può aver luogo solamente attraverso l'autorità del Papa. Infatti, se il Papa possiede tutta l'autorità necessaria alla sua carica, essa sarà per forza indivisa. Voler trarre esempio e argomento dal Concilio per provare questa affermazione significa cercare un ben povero argomento, che conclude troppo e quindi non conclude nulla. Concluderebbe in effetti con l'affermare il diritto divino dei vescovi di sedere in un quasi concilio permanente, vale a dire il diritto divino dei vescovi di governare abitualmente la Chiesa universale con il Papa, il che è evidentemente contrario a tutta la Tradizione, ed equivarrebbe a dire che la Chiesa ha ignorato la propria costituzione per diciannove secoli o che i Papi hanno defraudato i vescovi di un potere che derivavano dallo stesso Nostro Signore. Altrettante assurdità! La storia dimostra al contrario che i concili non hanno mai avuto carattere di istituzione permanente e che essi stessi hanno respinto, tanto a Trento quanto nel Vaticano I, le proposte che tendevano a richiedere la convocazione di concili ecumenici a data fissa. L'auspicio che ha trovato voce nel concilio Vaticano II conforme a questa affermazione, è quello di un diritto dell'episcopato di eleggere alcuni delegati a sedere presso Pietro in maniera permanente al fine di esercitare il diritto divino che i vescovi uniti al Papa hanno sulla Chiesa universale. Se tale diritto esiste veramente, il Papa deve evidentemente accettare questo consiglio episcopale, senza possibilità di rifiutarlo. Ora che cosa dice il nostro Santo Padre, il Papa Paolo VI? «Naturalmente, sarà per noi una gioia scegliere fra le file dell'episcopato mondiale e degli ordini religiosi, come fu fatto per le commissioni preparatorie del Concilio, fratelli illuminati e competenti che, con membri qualificati del sacro collegio, ci portino aiuto e consiglio per tradurre in regole adeguate e circonstanziate le decisioni generali fissate dal Concilio. Così, senza minimamente ledere le prerogative del Pontefice romano definite dal primo Concilio Vaticano, l'esperienza e l'aiuto della divina provvidenza ci indicheranno il modo di rendere più efficace in seguito il concorso cordiale e devoto dei vescovi al servizio della Chiesa universale». Nessuna allusione a un diritto dei vescovi, a una elezione di delegati da parte delle conferenze episcopali: al contrario, il Papa indica che sarà per lui una gioia (non un dovere) scegliere (non accogliere) come fu fatto per le commissioni preparatorie del Concilio (vale a dire in base alla scelta del Papa solo e non come si fece per le commissioni del Concilio, nelle quali i due terzi dei membri sono eletti). Ogni parola è stata attentamente studiata e vagliata. Che cosa rimane della collegialità abituale del Papa e dei vescovi al di là di una comunione di fede e di carità, nell'esercizio di una missione che è universale per il Papa e particolare per i vescovi? Sollecitudine di tutti nei riguardi della Chiesa universale, ma responsabilità diversa secondo l'estensione dei poteri e del loro esercizio. Il Papa non affronta la questione delle conferenze episcopali, ma si può dire ugualmente che la collegialità al livello di gruppi di vescovi ha subito nel corso della sessione serie amputazioni e che in definitiva sopravvive soltanto un senso di comunanza fraterna, di convergenza di sforzi benevoli per fini precisi, ma che non incidono in nulla sul potere di ciascun pastore nella sua diocesi e non diminuiscono la sua responsabilità. I vescovi tedeschi, olandesi e americani, che pure si erano mostrati nella maggior parte accesi difensori della collegialità con il successore di Pietro nel governo della Chiesa universale, lo hanno chiaramente affermato. 

Breve compendio storico sul primato di Pietro. Prendendo lo spunto dalle parole del Santo Padre sull'episcopato, è istruttivo e salutare rifarsi al Vangelo e a tutta la storia della Chiesa, in particolare a quella dei concili. Già i farisei si scandalizzavano degli onori resi dalla folla a Nostro Signore e gli dicevano: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli», e Nostro Signore rispondeva loro: «Vi dico: se essi taceranno, grideranno le pietre» (Lc. 19, 39). «I farisei allora dissero tra loro: Vedete, non riusciamo a nulla! Ecco, il mondo intero gli corre dietro» (Gv. 12, 19). Ora questo è vero di numerosi concili; molte obiezioni sono mosse al potere del Vescovo di Roma, del vicario di Cristo, quando non si trasformano in eresie. Lutero è succeduto ai farisei, dopo Wycliff (sec. XIV), dopo i Valdesi (sec. XII), dopo Michele Cerulario (sec. XI). Tutti hanno attaccato il potere del vicario di Cristo, ma sempre invano: il risultato fu, al contrario, una affermazione più decisa dell'autorità sovrana del Papa e della sua infallibilità. Al concilio Vaticano I si assistè allo stesso processo: nonostante tutti gli sforzi di una minoranza attiva e organizzata, nonostante l'appoggio di certi governi che si adombravano dell'autorità del Papa, furono proclamati il primato del Papa e la sua infallibilità. Assistiamo oggi allo stesso fenomeno sotto aspetti diversi: con l'argomento di una collegialità rafforzata che si presenta come un argomento dogmatico, con critiche alla Curia romana e specialmente contro il Sant'Uffìzio, ci si sforza di imporre al Papa un consiglio episcopale eletto, obbligatorio, di diritto divino, che ne condivida il governo. Fuori del Concilio, sulla stampa, nel cinema, c'è stato un concorso di critiche al papato. Pio XII è chiamato in causa nell'opera teatrale Il Vicario. Alla televisione, in Francia, proprio la domenica in cui il Santo Padre si trova a Nazareth, un religioso denuncia la papolatria e il papa-idolo. Infine, un altro religioso ben noto scrive di aver provato nausea sentendo ricordare incessantemente in Concilio il «Tu es Petrus» («I.C.I.», 15.12.1963). Hanno però ragione i piccoli e gli umili, le folle di Gerusalemme e di Roma, acclamanti il vicario di Cristo, che istintivamente afferrano la grandezza e la soavità di questo padre che ci è dato nella persona del successore di Pietro. Se il Papa si recherà negli Stati Uniti o in India, milioni di anime si precipiteranno per vedere colui che è il vero pastore universale su questa terra, per supplicarlo di benedirle. Bisogna avere lo spirito dei farisei o di Lutero per rimproverar loro questa manifestazione di amore filiale. Dal Concilio non potrà non ricevere luce il potere di Pietro come vicario di Cristo, pastore della Chiesa universale, il potere dei vescovi come padri e pastori delle anime loro affidate, l'intima comunione «tra i vescovi e il Sommo Pontefice e i vescovi fra loro» come membra unite alla testa in un solo corpo (Conc.Vat. I, La fede cattolica, n. 469), «che con Pietro e subordinati a lui lavorano al bene comune e al fine supremo della Chiesa stessa, di modo che la connessione gerarchica se ne trovi rafforzata e non indebolita, la collaborazione interna stretta maggiormente e non allentata, l'efficacia apostolica accresciuta e non diminuita, l'amore reciproco reso più ardente e non più tiepido». Sono parole testuali del Sommo Pontefice Paolo VI. 

La Vergine Maria. - Infine, il terzo esempio di cui parla il Santo Padre è quello della Santa Vergine. Qui ancora il Sommo Pontefice non esita a dare un chiaro orientamento. Le acclamazioni dei padri conciliari nell'udire questo passo sono state significative. «Allo stesso modo», diceva il Santo Padre, «per lo schema riguardante la Vergine noi speriamo [chi ormai non spera con il successore di Pietro?] nella soluzione che conviene meglio a questo Concilio, e cioè il riconoscimento unanime e fervente del posto assolutamente privilegiato che la Madre di Dio occupa nella Chiesa, oggetto principale del presente Concilio. Maria vi occupa dopo Cristo il posto più elevato e al tempo stesso più vicino a noi, così che potremmo onorarla del titolo di Mater Ecclesiae per sua gloria e nostro conforto». Chi oserà, dopo queste parole, relegare Maria Santissima all'ultimo posto nello schema sulla Chiesa o addirittura in appendice, o parlarne solo attraverso rare allusioni? È in queste righe che il Santo Padre si mostra perentorio e indica nella maniera più decisa il suo pensiero e il suo desiderio. Che Dio, che ha fondato la sua Chiesa su Pietro, sia lodato. Viviamo momenti in cui il soprannaturale, l'azione dello Spirito Santo, è visibile, tangibile. Si interroghino gli osservatori del Concilio: non avranno termini abbastanza espressivi per felicitarsi con noi e invidiarci un Vescovo al quale è stato dato il potere supremo sulla Chiesa, un Vescovo al quale rivolgerci quando siamo oppressi da dubbi o da tenebre e nel quale siamo sicuri di trovare la luce. «Simone, Simone, ecco che Satana ha ottenuto di vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc. 22, 32). È quanto il Papa Paolo VI, successore di Pietro, ha appena fatto con questo memorabile discorso di chiusura della seconda sessione del Concilio Vaticano II. 21 gennaio 1964

Marcel Lefèbvre

sabato 31 luglio 2021

Un vescovo parla

 


II. LETTERA AI MEMBRI DELLA CONGREGAZIONE DELLO SPIRITO SANTO SULLA PRIMA SESSIONE DEL CONCILIO VATICANO II


FONDAMENTI DELLA LITURGIA 

Il complesso delle preghiere che hanno la loro origine nella Chiesa, quelle che furono da essa formulate, raggruppate, armonizzate intorno ad atti prescritti, forma quella mirabile liturgia che è l'espressione della fede, della speranza, della carità della Chiesa di questa terra verso Dio, per mezzo di Cristo Nostro Signore. Il pensiero di questa liturgia è tutto orientato per prima cosa verso Dio, che introduce la Chiesa nella vita trinitaria. Il Padre si compiace nella sua Chiesa perché vi ritrova ovunque il suo Figlio diletto che non ebbe altro desiderio se non quello di accendere del suo Spirito di verità e d'amore la Chiesa, in tal modo veramente assunta alla vita trinitaria. Ma come tutto ciò che procede dalla Trinità è fatto per viverne e ritornarvi, così la Chiesa, a immagine della Trinità e nel suo spirito d'amore, trae tutte le anime che a essa vengono e che odono il suo appello, a quella nuova vita divina, in Gesù e per virtù dello Spirito Santo. Essa le genera, le nutre, le trasforma nella e mediante la sua liturgia. Si può dire in verità che la liturgia è il seno della Chiesa, ove le anime trovano il nutrimento completo, l'alimento perfetto della loro vita spirituale, l'insegnamento della verità, la stima dei veri valori e della loro gerarchia, l'apprendimento di tutte le virtù. È nell'atmosfera della liturgia che sono nati le scuole, gli ospedali religiosi, gli ospizi, la formazione dei chierici, l'apprendimento della cultura e dei mestieri, le scienze e le arti in novitate spiritus. La storia della civiltà cristiana trova il suo fondamento, il suo sviluppo, la sua vitalità nella grande preghiera pubblica della Chiesa che infonde lo spirito di carità, lo spirito di giustizia a coloro che ne vivono. Tutte le iniziative caritatevoli e sante hanno origine nello spirito che ci è dato dai sacramenti e dal sacrifìcio dell'altare. 


RINNOVAMENTO LITURGICO

 Ecco perché dobbiamo profondamente rallegrarci di constatare nei nostri contemporanei un grande desiderio di vivere della liturgia, un nuovo apprezzamento di questa sorgente incomparabile dello spirito di Dio. Il Concilio non poteva esimersi dall'incoraggiare tali sante aspirazioni guidandole, orientandole. È la Chiesa tutta intera a provare questo desiderio di rimettere la liturgia al suo vero posto nella vita cristiana. I papi per primi furono all'origine di tale rinnovamento, non esprimendo così, d'altronde, se non ciò che numerosi vescovi, sacerdoti e fedeli sentivano nel loro intimo. Non è forse questa, del resto, la maniera d'agire profonda e soave dello Spirito Santo?


LITURGIA E APOSTOLATO

 Ma la questione di ciò che si può chiamare la rinascenza liturgica pone problemi fondamentali per la Chiesa intera. Effettivamente, qual è il compito della liturgia nell'apostolato della Chiesa? La riforma del complesso liturgico edificato nel corso dei secoli deve vertere sull'aspetto del culto liturgico, oppure puntare sulla liturgia come mezzo di apostolato? Ridurre la liturgia a mezzo di apostolato, non più considerandola nel suo aspetto di culto pubblico e di lode di Dio, non significherebbe in realtà sottovalutarla? La disistima della liturgia deriva soprattutto dalla presentazione liturgica di atti e insegnamenti che serbano in sé un valore sempre ugualmente vivo o, al contrario, ha la sua origine nella diminuzione dello spirito di fede e dello spirito religioso nei fedeli, e ciò per motivi estranei alla liturgia? L'attività umana è divenuta talmente estranea a Dio, talmente remota dal suo Creatore, dal suo spirito vivificante, che le anime ancora religiose aspirano a riannodare i legami spezzati tra la preghiera e l'azione. Sarebbe troppo semplice e quasi puerile accusare la liturgia, nel modo in cui attualmente si esprime e si attua, di essere all'origine della diminuzione di fede nei fedeli, e di esserne la causa unica o perlomeno principale. Il papa Pio XII diceva ai parroci e ai quaresimalisti: «Quando noi consideriamo l'umanità che ci circonda e ci chiediamo se sia disposta e atta a ricevere in sé questa realtà della vita soprannaturale, è evidente che per molti la risposta non può essere affermativa. Il mondo soprannaturale è loro divenuto straniero, non dice loro più nulla. È come se gli organi spirituali della conoscenza di verità così alte e così salutari fossero in loro atrofizzati o morti. Si è preteso spiegare un tale stato d'animo con questo o quel difetto della liturgia della Chiesa; si è creduto che basterebbe purificarla, riformarla, onorarla, per vedere quelli che oggi errano ritrovare la via dei santi misteri. Chi ragiona così mostra di avere una concezione superficialissima di quell'anemia e di quell'apatia spirituale. Essa ha radici ben più profonde» (17 febbraio 1948). Diciamo dunque senza esitazione che certe riforme liturgiche erano necessarie e che è auspicabile che il Concilio prosegua su questa via, purché a un certo punto si arresti, essendo inconcepibile che si rinnovino ogni dieci anni messali, breviari, rituali, eccetera, e non meno inconcepibile che si modifichino continuamente i testi e le traduzioni ufficiali. Ma perché il rinnovamento liturgico sia pienamente efficace, è forse ancora più necessario riannodare i legami della preghiera liturgica, della lode di Dio - legami naturali e legami soprannaturali - con le attività quotidiane. Fu ed è ancora, questa, l'opera della Chiesa missionaria. Omnia instaurare in Christo: instaurare tutto in Cristo, vale a dire soprattutto la famiglia, la scuola, il borgo, la professione, la città. Bisogna rifare questo lavoro con l'aiuto delle famiglie cristiane e con il concorso di tutti i movimenti di Azione cattolica e altre associazioni che si industriano di dilatare il regno di Nostro Signore.

È necessario, onde ben situare la riforma liturgica, considerare in maniera chiara ed evidente come la liturgia, che è innanzi tutto lode di Dio, sia un culto pubblico e veramente una preghiera della società, della comunità vista in tutti i suoi aspetti. Le grazie della liturgia discendono sul popolo cristiano e sul mondo per santificarlo in tutte le sue attività. Lo spirito del mondo ha ricacciato nella chiesa e rinchiuso nei limiti dei luoghi di culto la liturgia, la preghiera pubblica e i ministri dell'altare, invadendo campi che erano sottomessi allo spirito cristiano e scavando così un abisso tra la preghiera e l'azione, tra la chiesa e la scuola, tra l'altare e la professione, tra l'Eucarestia e la città; ha distratto gli uomini dalla preghiera, la cui efficacia non si mostra più nella vita. Non è forse questo uno dei motivi della sclerosi della liturgia all'interno delle chiese stesse? La liturgia, mutilata del suo normale effondersi in tutta la vita esteriore, è divenuta sotto certi aspetti incomprensibile alle anime semplici, per le quali sono necessarie le manifestazioni popolari che prolungano il culto all'esterno della chiesa.

Ma lasciamo per il momento quest'ultimo aspetto, che sarà senza dubbio oggetto delle preoccupazioni del Concilio, per tentar di precisare come può concepirsi una nuova espressione della liturgia e quali sono i princìpi che debbono guidarci in questa materia. 


PRINCÌPI DIRETTIVI DI UNA RIFORMA LITURGICA 


Carattere umano della liturgia. 

Riconosciamo in primissimo luogo che la liturgia ha un doppio carattere che la segna e la segnerà sempre: un carattere profondamente umano: «Sciebat quid esset in homine»: «Egli sapeva che cosa c'è nell'uomo» (Gv. 2, 25). La psicologia di Nostro Signore è impressa nella liturgia, egli conosce i bisogni profondi degli uomini, delle loro povere anime ferite dal peccato, ma anche anime di fanciulli di fronte al loro Padre celeste, anime sensibili alla Passione del Figlio di Dio, anime fiduciose verso ciò che rappresenta per esse la loro madre Chiesa, anime più sensibili agli esempi che alle parole, più commosse dal canto che dalla lettura, meglio toccate da una parola viva che da una recitazione, anime preoccupate di un perdono visibile, anime più facilmente educate dagli occhi che dagli orecchi. Egli sa, il nostro Maestro, che tutto questo è necessario, o almeno utile alla nostra santificazione, all'elevazione delle nostre anime verso di lui. 


Carattere divino della liturgia. 

A tale carattere umano della liturgia deve aggiungersi, ancor più reale, il suo carattere divino. Tutto ciò che vi è di umano in essa serve a condurci a Dio, per mezzo di Nostro Signore, nello spirito di luce e di carità. Siamo alla soglia del mistero della liturgia. Fin qui essa poteva somigliare a tutte le iniziazioni dei riti pagani. Entriamo ora nella sfera divina, nella quale Dio stesso si è incaricato di guidarci. Nostro Signore ha detto: «Nemo venit ad Patrem nisi per me»: «Nessuno viene al Padre se non per mio mezzo» (Gv. 14, 6). Più nessuno va al Padre senza passare per lui, per il suo sacrificio, per la sua preghiera. Così, dunque, solo la sua liturgia apre i misteriosi orizzonti celesti in tutta la loro realtà, in tutta la loro unione con le realtà terrestri. Il ministro perfetto della liturgia è il Pontefice, colui che getta il ponte tra le realtà di quaggiù e la vita eterna. Nostro Signore era il solo a conoscere suo Padre: «Neque Patrem quis novit nisi Filius»: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio» (Mt. 11, 27). Il cielo, vale a dire il Padre, resta per noi il grande mistero, e il dovere della liturgia è di rispecchiare questo mistero, nei suoi silenzi o in talune delle sue cerimonie simboliche, in certi suoi riti e in tutta la sua atmosfera architettonica, musicale, ornamentale, rituale. Bisogna dunque che tutto in essa sia nobile, grande, bello, ordinato, a immagine di Dio stesso presente nel santuario, poiché il tempio non è anzitutto casa del popolo di Dio ma è principalmente domus Dei, dove il popolo viene a incontrare, a trovare Dio e a comunicare con lui. Tale mistero si esprime maggiormente in certe liturgie orientali nelle quali il sacerdote sembra isolarsi con Dio per venire a portarlo più perfettamente al popolo fedele. La liturgia deve dunque conservare sempre ed essenzialmente questi due caratteri fondamentali, essere ciò che è: divina e umana, con orientamento dell'umano verso il divino che è il suo fine ultimo. L'uomo che si accosta a Dio non può divenirne che più umano, ritrovare la vera immagine divina secondo la quale è stato creato: «Rivestitevi dell'uomo nuovo, creato a immagine di Dio nella giustizia e santità verace» (Ef. 4, 24). Solo ricordando questi princìpi fondamentali del mistero di Dio e della psicologia umana, con tutti i dati della teologia del peccato e della giustificazione, della redenzione operata da Nostro Signore, del suo sacrificio e dei suoi sacramenti, e con i dati della vera filosofia concernente l'educazione e l'insegnamento della verità e che abbraccia tutte le facoltà del corpo e della mente, potremo dare ai ritocchi liturgici il loro giusto luogo, la loro vera opportunità. Sforziamoci dunque di circoscrivere e di definire più da presso il problema che ha tanto preoccupato i padri conciliari. 


ELEMENTO UMANO IMPORTANTE: L'INTELLIGENZA DEI TESTI 

Per partecipare realmente a questi misteri della liturgia, l'anima fedele prova il bisogno di sempre meglio e più profondamente comprendere i testi liturgici e di associarsi intimamente a ciò che si opera sotto i suoi occhi. Essa cerca il suo nutrimento spirituale in quei mirabili testi carichi di verità e di vita; sembrerebbe dunque indispensabile offrirgliene l'intelligenza, si tratti di testi letti o di canti.


LINGUA LITURGICA: UNIVERSALE O VERNACOLA? 

Converrà dunque facilitare tale comprensione. Da qui a concludere che si debba proscrivere una lingua incomprensibile il passo è presto fatto. Ma altre considerazioni ci invitano a riflettere bene prima di procedere a misure così radicali. 


Vantaggi della lingua universale.

 In realtà conviene ricordare che noi partecipiamo a un'azione di Chiesa, di Chiesa cattolica, a una preghiera che ci insegna la nostra fede, la nostra fede cattolica. Così la liturgia, nella misura in cui serba un carattere universale, ci forma a una comunione cattolica e universale. Nella misura in cui la liturgia si localizza, si individualizza, essa perde questa dimensione universale e cattolica che s'incide profondamente nelle anime. Sembra opportuno citare due esperienze dirette. È innegabile che le azioni liturgiche, e l'azione per eccellenza, la santa Messa, espresse interamente in lingua nazionale, come è il caso di taluni riti orientali, circoscrivono la comunità cristiana, le impongono dei limiti. Esse richiedono per le comunità in diaspora la presenza di sacerdoti dello stesso paese per celebrare il rito liturgico. Le comunità si isolano e i loro membri soffrono di tale isolamento. E non appare per nulla evidente che tali comunità siano più ferventi e più praticanti di quelle che fanno uso di una lingua universale, incompresa da molti ma suscettibile di traduzioni alla portata di tutti. Un secondo fatto è quello che si manifesta nelle nuove comunità cristiane che traggono argomento proprio dall'universalità della liturgia cattolica come prova della verità della Chiesa cattolica contro la molteplicità, ad esempio, dei riti protestanti È d'altronde questa una delle principali ragioni della coesione dell'Islam, che considera l'arabo classico come la lingua unica del Corano e giunge a interdirne la traduzione. Prima considerazione che fa riflettere. Alludevamo all'espressione della fede universale cattolica grazie a una lingua universale. Non si può negare che la fede sia condizionata dalla formulazione della preghiera liturgica: Lex orandi, lex credendi. La lingua unica protegge l'espressione della fede contro gli adattamenti linguistici nel corso dei secoli e, di conseguenza, la fede stessa. Le lingue parlate sono mutevoli e mobili. E se non si adatta via via l'espressione liturgica alla lingua dell'epoca moderna, si finisce a poco a poco con l'esprimersi ugualmente in una lingua incompresa, come è il caso della lingua usata nel rito etiopico, il gheez, che era la lingua corrente antica, ormai non più parlata né compresa.


Fine ultimo della liturgia: l'unione con Dio. 

Altra considerazione che ha il suo valore: l'intelligenza dei testi non è il fine ultimo della preghiera, né il solo mezzo di mettere l'anima in preghiera, vale a dire in stato di unione con Dio, che è lo scopo della preghiera. L'oggetto proprio della preghiera è Dio. L'anima che si accosta a Dio e si unisce spiritualmente a lui è in preghiera e si abbevera alla sorgente della vita. Sarebbe dunque contrario al fine stesso dell'azione liturgica dedicare all'intelligenza dei testi un'attenzione tale che ostacoli l'unione con Dio. D'altra parte l'anima semplice, non necessariamente colta, veramente cristiana, troverà la sua unione con Dio ora in virtù di un celestiale canto religioso, ora dell'atmosfera generale dell'azione liturgica, della pietà e del raccoglimento del luogo, della sua bellezza architettonica, del fervore della comunità cristiana, della nobiltà e pietà del celebrante, della decorazione simbolica, dell'aroma dell'incenso, eccetera. Poco importa il piedistallo, purché l'anima si elevi in Dio e vi trovi il suo elemento soprannaturale, in virtù della grazia di Nostro Signore. Tutte queste considerazioni non diminuiscono in nulla la necessità di cercare una miglior comprensione dei testi liturgici e una più perfetta partecipazione all'azione liturgica. Ma esse vogliono attenuare quella tendenza spontanea e imprudente a non concepire che un solo mezzo per giungervi, il quale sarebbe l'impiego puro e semplice della lingua parlata e la soppressione della lingua universale della Chiesa in tutta la Messa.


CONCLUSIONE SULLA LITURGIA 

Quali saranno in definitiva le decisioni del Concilio? È ancora troppo presto per dirlo. Vi sarà forse un adattamento nel senso della lingua parlata per la prima parte della Messa, ma il Concilio insisterà vivamente sulla preparazione dei fedeli e sulla loro istruzione liturgica per mezzo delle esortazioni e predicazioni dei pastori e dei catechisti; su una ricerca costante di comprensibilità dei messali posti a loro disposizione, onde facilitare tale migliore intelligenza della liturgia e un'attiva partecipazione spirituale e soprannaturale all'azione liturgica. E, riducendo alle giuste proporzioni queste riforme di particolari, la Chiesa chiamerà tutti i suoi figli, e quelli che non lo sono ancora, ad accostarsi ai misteri divini per accostarsi al mistero di Dio, a unirsi al corpo e al sangue della divina vittima per vivere della vita trinitaria e accrescere così la vitalità del corpo mistico di Nostro Signore, la santa Chiesa di Dio. Poiché tutto è mezzo al fine essenziale, che è di salvare le anime restituendole alla loro filiazione divina. Queste poche riflessioni evocano le preoccupazioni dei padri conciliari intorno alla liturgia e il loro desiderio di renderle il suo vero posto nella vita cristiana. 


ALTRI ARGOMENTI AFFRONTATI DAL CONCILIO 

Altri argomenti sono stati affrontati, quali le fonti della Rivelazione, l'ecumenismo, gli schemi dogmatici in generale, proposti in due gruppi di schemi: il primo affrontava argomenti diversi di teologia dogmatica e morale, il secondo trattava in modo speciale della Chiesa. Ci è impossibile descrivere nei particolari le discussioni che ebbero luogo intorno a tali schemi, non soltanto per via del segreto sulle deliberazioni ma perché dovremmo dedicarvi parecchie pagine. Sembra tuttavia possibile distinguere tre gruppi di interventi in generale.


 ASPETTO ECUMENICO 

Gli uni avevano come oggetto principale l'aspetto ecumenico del Concilio e per ciò stesso tendevano a omettere tutto ciò che nei testi presentati rischiasse di ravvivare le separazioni anziché tendere all'unità. Tale preoccupazione è certo in buona parte all'origine della discussione intorno alle due fonti della Rivelazione; all'origine anche delle richieste di modifiche degli schemi sull'ecumenismo. Aggiungiamo che coloro che si erano particolarmente occupati di questo aspetto del Concilio tendono a insistere sulla collegialità episcopale della Chiesa, sforzandosi di provare la giurisdizione universale abituale del collegio episcopale unito al Papa, anche sparso attraverso il mondo; essi auspicano la costituzione di una rappresentanza episcopale che affianchi la Curia romana e aspirano a dotare di poteri magisteriali e di giurisdizione le assemblee episcopali nazionali. Tutto ciò tenderebbe a facilitare l'unione con le Chiese dissidenti.


ASPETTO PASTORALE 

Un altro gruppo è particolarmente ansioso di orientare il lavoro del Concilio verso la pastorale. Chiede cioè, da un lato, che gli atti conciliari si rivolgano direttamente al mondo e ai fedeli, e dall'altro che il Concilio esamini le possibilità di adattamento della liturgia, dei sacramenti, della disciplina ecclesiastica, del diritto canonico, alle necessità dell'apostolato contemporaneo. Donde la tendenza di costoro a non ricercare le espressioni dogmatiche né le precisazioni scolastiche relative alle definizioni teologiche: dal Concilio Vaticano II deve nascere una nuova espressione conciliare; il mondo d'oggi attende ciò dal Concilio. In questo essi si riallacciano al primo gruppo, quello che si oppone agli schemi dogmatici presentati tradizionalmente; ma il motivo è diverso.


ASPETTO DOTTRINALE 

Infine, un terzo gruppo giudica che non si concepisce un Concilio che non esprima precisazioni dogmatiche contro gli errori moderni che tendono a deformare il dogma o addirittura a negarlo. Donde la necessità di riaffermare verità tradizionali in tal modo che questi errori siano formalmente eliminati. Per questi padri tale è il primo fine del Concilio, che appare loro altresì un fine pastorale, poiché proteggere il proprio gregge contro i lupi significa essere buon pastore. Essi affermano che gli errori compaiono numerosi ai nostri giorni e sono proclamati negli stessi ambienti di Chiesa: in merito alla sacra Scrittura, al peccato originale, alla morale, ai Novissimi, nel campo del dogma; in merito alle prove dell'esistenza di Dio, la conoscenza della verità, la metafisica, la cosmologia, la distinzione tra natura e grazia nel campo delle verità filosofiche: tutto è rimesso in questione. Appare dunque indispensabile a questi padri che il Concilio indichi chiaramente le fonti della verità e riaffermi certi dogmi in maniera esplicita. Essi sono anzitutto ansiosi di far apparire la fede in tutta la sua purezza e la sua integrità. Non pensano che l'omissione sia un incoraggiamento all'ecumenismo, ma al contrario che la verità rechi in sé la grazia di creare l'unità. Essi temono parimenti che l'aspetto puramente pastorale del Concilio lo trascini in discussioni senza fine e preferiscono lasciare la cura degli adattamenti a commissioni post-conciliari. Sono altresì contrari a una decentralizzazione abusiva e ripugna loro una moltiplicazione di assemblee munite di poteri importanti, che introducano nella Chiesa una democratizzazione contraria a tutta la sua tradizione.

Questi timori non sopprimono il desiderio di talune riforme nella Curia romana, nelle assemblee episcopali, nella liturgia, eccetera, purché siano guidate da grande prudenza. È infine nettissima la tendenza a lasciar tali cure al Sommo Pontefice. Questi tre gruppi hanno manifestato il loro pensiero in tutta franchezza e libertà. Perché non dire che appare evidente come il Santo Padre desideri raggiungere questi tre obiettivi? Lo dimostrano i documenti importanti comunicati ai padri conciliari in occasione dell'apertura e della chiusura della prima sessione. Dottrina, pastorale, ecumenismo: tale il trittico sottoposto agli sguardi dei padri del Concilio. E proprio perché il perseguire tali obiettivi in una sola e medesima espressione ha provocato divergenze serie, io mi sono umilmente permesso di proporre quale soluzione una doppia espressione: dottrinale da un lato, che esiga termini scientifici, scolastici, precisi, onde eliminare le ambiguità e gli errori; pastorale ed ecumenica dall'altro, ispirata a una presentazione comprensibile a quelli ai quali è diretta, sotto forma di esortazione e di direttorio. Il Concilio di Trento ci ha dato un esempio di tale doppia espressione nelle sue definizioni ed esposizioni dogmatiche e nel suo catechismo più particolarmente pastorale. Non è forse un dato dell'esperienza che tale dilemma si pone continuamente ai pastori incaricati di insegnare il catechismo, e soprattutto a coloro che lo redigono? È difficilissimo serbare al catechismo tutta la sua ricchezza dottrinale e tutta la sua precisione se si vuole adattarlo nell'espressione alla mentalità e alla psicologia dei fanciulli e dei catecumeni. Donde la necessità di spiegazioni, dell'insegnamento impartito dai catechisti. La seconda sessione ci chiarirà tutti questi problemi appassionatamente interessanti e che hanno avuto un'eco straordinaria nel mondo intero. Il Santo Padre sta provvedendo all'elaborazione di nuovi schemi per mezzo delle commissioni conciliari. Mentre i membri delle commissioni lavorano, è per noi l'ora della preghiera, come per gli Apostoli nel cenacolo nell'attesa dell'avvento dello Spirito Santo. La Vergine Maria era fra essi e fu senza dubbio onnipotente sul cuore di Gesù onde inviasse il suo Spirito. Non cessiamo di pregarla affinché ottenga dal suo divino Figlio l'invio dello Spirito Santo che illumini le intelligenze e i cuori dei successori degli Apostoli in una nuova Pentecoste. 

Parigi, festa dell'Annunciazione della Beata Vergine Maria, 25 marzo 1963

Marcel Lefèbvre

mercoledì 23 giugno 2021

Un vescovo parla



Il colpo magistrale di Satana è stato di riuscire a far disubbidire, per ubbidienza, a tutta la Tradizione.


I. LETTERA AI MEMBRI DELLA CONGREGAZIONE DELLO SPIRITO SANTO SULL'USO DELL'ABITO TALARE


Miei cari confratelli, le misure adottate in diversi paesi da un certo numero di vescovi riguardo all'abbigliamento degli ecclesiastici meritano riflessione, potendo avere conseguenze che non ci sono indifferenti. In sé, il portare la veste talare o il clergyman ha un significato solamente nella misura in cui quest'abito sottolinea una distinzione dall'abito laico. La considerazione del decoro non è prevalente, anche se il panciotto accollato del clergyman e, a maggior ragione, l'abito talare manifestino indubbiamente una certa austerità e discrezione. Si tratta quindi maggiormente di una designazione del chierico o del religioso attraverso il suo abito. Va da sé che questa indicazione debba essere orientata nel senso della modestia, della discrezione, della povertà e non in senso opposto. È evidente che la particolarità dell'abito deve incutere rispetto e far pensare al distacco dalle vanità del mondo. È bene insistere soprattutto sulla principale qualità che caratterizza il chierico, il sacerdote, o il religioso, analogamente al militare, all'agente di polizia o stradale. Questa idea si manifesta in tutte le religioni. Il capo religioso è facilmente riconoscibile dal suo vestiario, spesso dai suoi accompagnatori. Il popolo fedele annette grande importanza a questi segni distintivi. Si fa presto a distinguere un capo musulmano. I segni distintivi sono molteplici: gli abiti di qualità, gli anelli, le collane, il seguito danno a vedere che si tratta di una persona particolarmente onorata e rispettata. Lo stesso accade nella religione buddista e in tutto l'Oriente cristiano, cattolico o non. Il sentimento più che legittimo del popolo fedele è soprattutto il rispetto del sacro e inoltre il desiderio di ricevere le benedizioni del cielo, in ogni occasione legittima, da parte di coloro che ne sono i ministri. In effetti, il clergyman sembrava essere finora la tenuta che designava una persona consacrata a Dio, ma col minimo di segni apparenti, soprattutto nei paesi ove la giacca ecclesiastica corrisponde esattamente alla giacca del laico. In certi paesi, come in Portogallo e fino a poco tempo fa in Germania, la giacca è lunga e scende fino alle ginocchia. I sacerdoti abituati a portare il clergyman in quei paesi lo considerano come un abito per uscire e non come un abito da casa. Spesso, d'altronde, questo abito è stato reso obbligatorio fuori casa dalle leggi dello Stato contro il cattolicesimo romano; il che spiega il desiderio di riprendere la talare non appena ci si trovi all'interno dei locali ecclesiastici: presbitèri e chiese. Vi è dunque una grande distanza tra lo spirito con il quale si porta il clergyman in quei paesi e lo spirito che si constata oggi in certi sacerdoti nei riguardi dell'abito ecclesiastico. Bisogna leggere le motivazioni date dai vescovi per aver chiaro il senso della misura presa. Poiché l'abito laico era portato senza più nulla che lo distinguesse in senso clericale, e al fine di vietarlo più sicuramente, è stata concessa l'autorizzazione a portare il clergyman, senza alcun incoraggiamento né tanto meno alcun obbligo. Ora, bisogna constatare che dopo queste prescrizioni l'uso dell'abito laico ha enormemente progredito dappertutto, anche dove prima non esisteva. Praticamente, la norma adottata in molte diocesi ha rappresentato l'occasione di abbandonare ogni segno distintivo di chiericato. Le prescrizioni sono state completamente scavalcate. E non si parla più di abito talare nel presbiterio e spesso nemmeno di tunica nera in parrocchia. È dunque importante porsi la domanda: è opportuno o no che il sacerdote si possa distinguere e riconoscere in mezzo ai fedeli e ai laici, o, al contrario, oggi è auspicabile, in vista dell'efficacia dell'apostolato, che il sacerdote non si distingua più dai laici? A questa domanda risponderemo richiamando il concetto di sacerdote secondo Nostro Signore e gli Apostoli e considerando i motivi avanzati dal Vangelo, al fine di sapere se sono, oggi, ancora validi. In san Giovanni, c. 15, in particolare v. 19: «Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; invece, poiché non siete del mondo, bensì io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia»; v. 21: «Non conoscono colui che mi ha mandato»; v. 27: «E voi pure mi renderete testimonianza perché siete stati con me fin dal principio». In san Paolo agli Ebrei, c. 5, v. 1: «Ogni gran sacerdote, infatti, scelto di fra gli uomini, è eletto per intervenire in favore degli uomini nelle loro relazioni con Dio». È chiaro che il sacerdote è un uomo che è stato scelto e distinto dagli altri. Di Nostro Signore, san Paolo (Ebr. 7, 26) dice che è «separato dai peccatori». Così dev'essere il sacerdote che da parte di Dio è stato oggetto di una scelta particolare. A questa prima considerazione bisognerebbe aggiungere quella della testimonianza che il sacerdote deve rendere di Dio, di Nostro Signore, davanti al mondo: «Sarete allora miei testimoni» (Atti, 1, 8). La testimonianza è una nozione che torna spesso sulle labbra di Nostro Signore. Come lui rende testimonianza del Padre suo, anche noi dobbiamo rendere testimonianza di lui. Tale testimonianza dev'essere vista e compresa senza difficoltà da tutti. «Non si mette una luce sotto il moggio ma sul candelabro e così fa lume a tutti quelli che sono nella casa» (Mt. 5, 15). La veste talare raggiunge questi due fini in maniera chiara e inequivoca: il sacerdote è nel mondo senza essere del mondo, se ne distingue pur vivendoci, ed è in tal modo protetto dal male. «Non chiedo che tu li tolga dal mondo ma che tu li custodisca dal male. Essi non sono del mondo, come neppure io sono del mondo» (Gv. 17, 15-16). La testimonianza della parola, che è certo più essenziale al sacerdote della testimonianza dell'abito, è tuttavia notevolmente facilitata da quella manifestazione nettissima del sacerdozio, che è l'uso dell'abito talare. Il clergyman, benché sufficiente, è tuttavia già più equivoco. Non indica chiaramente il sacerdote cattolico. Quanto all'abito laico, esso sopprime ogni distinzione e rende la testimonianza molto più difficile e la preservazione dal male meno efficace. Questa scomparsa di ogni testimonianza nell'abito appare chiaramente come una mancanza di fede nel sacerdozio, una disistima del senso religioso del prossimo, nonché una vigliaccheria, una mancanza di coraggio delle proprie convinzioni. 

MANCANZA DI FEDE NEL SACERDOZIO 

Da quasi cent'anni i papi non cessano di deplorare la secolarizzazione progressiva della società. Il modernismo e il sillonismo 1 hanno diffuso gli errori circa i doveri delle società civili nei confronti di Dio e della Chiesa. La separazione della Chiesa dallo Stato, accettata, stimata talvolta come il migliore degli statuti, ha fatto penetrare a poco a poco l'ateismo in tutti i campi dell'attività dello Stato e in particolare nelle scuole. Quest'influsso deleterio continua, e siamo costretti a constatare che un buon numero di cattolici e persino di sacerdoti non hanno più un'idea esatta del posto della religione, e della religione cattolica, nella società civile e in tutte le sue attività. Il laicismo ha invaso tutto, anche le nostre scuole libere e i nostri seminari minori. In queste istituzioni la pratica religiosa è in netta diminuzione. La frequenza alla Comunione è sempre più esigua.

Il sacerdote che vive in una società di questo genere ha l'impressione crescente di essere estraneo ad essa, poi di essere molesto, testimone di un passato superato e definitivamente estinto. La sua presenza è tollerata. È almeno un'impressione frequente nei giovani preti. Donde quel desiderio di allinearsi sul mondo secolarizzato, decristianizzato, che si traduce oggi nell'abbandono della veste talare. Questi sacerdoti non hanno più la nozione esatta del posto del sacerdote nel mondo e di fronte al mondo. Hanno viaggiato poco e giudicano superficialmente questi concetti. Se fossero rimasti per qualche tempo in paesi meno atei, li avrebbe edificati constatare che la fede nel sacerdozio è, grazie a Dio, ancora molto viva nella maggior parte dei paesi del mondo. 

DISISTIMA DEL SENSO RELIGIOSO DEL PROSSIMO 

Il laicismo, diciamo l'ateismo ufficiale, ha simultaneamente soppresso in molte relazioni sociali gli argomenti di conversazione riguardanti la religione. La religione è divenuta un fatto del tutto personale e un falso rispetto umano l'ha relegata nel rango delle questioni intime, delle questioni di coscienza. Esiste pertanto in tutto l'ambiente umano così laicizzato un falso pudore che ha per conseguenza di evitare questo argomento di conversazione. Si suppone perciò gratuitamente che quelli che ci circondano, nelle relazioni d'affari o nelle relazioni fortuite, siano areligiosi. Ora se è vero, purtroppo, che molte persone in certi paesi ignorano tutto della religione, è pur tuttavia un errore pensare che tali persone non abbiano più alcun sentimento religioso, ed è soprattutto un errore credere che da questo punto di vista tutti i paesi del mondo si somiglino. Anche in questo campo i viaggi ci insegnano molte cose, mostrandoci che gli uomini in generale sono ancora, grazie a Dio, molto preoccupati dal problema religioso. Ritenere l'anima umana indifferente alle cose dello spirito e al desiderio delle cose celesti significa conoscerla male. È vero il contrario. Questi princìpi sono essenziali nell'esercizio quotidiano dell'apostolato. 

UNA VIGLIACCHERIA 

Davanti al laicismo e all'ateismo, allinearsi interamente vuol dire capitolare e rimuovere gli ultimi ostacoli alla loro diffusione. Il sacerdote è una predicazione vivente grazie alla sua veste, grazie alla sua fede. L'assenza apparente di sacerdoti, soprattutto in una grande città, costituisce un grave regresso nella predicazione del Vangelo. È la continuazione dell'opera nefasta della Rivoluzione che ha saccheggiato le chiese, delle leggi di separazione che hanno scacciato religiosi e religiose, che hanno laicizzato le scuole. È rinnegare lo spirito del Vangelo, che ci ha predetto le difficoltà che verranno dal mondo al sacerdote e ai discepoli di Nostro Signore. Queste tre constatazioni hanno conseguenze gravissime nell'anima del sacerdote, che si secolarizza, e trascinano le anime dei fedeli verso una rapida laicizzazione. Il sacerdote è il sale della terra. «Se il sale diventa insipido con che gli si renderà sapore? A null'altro è buono che a essere buttato via e calpestato dagli uomini» (Mt. 5, 13). Ahimè, non è forse ciò che aspetta al varco in ogni momento questi sacerdoti che non vogliono più apparire tali? Il mondo non li amerà per questo, bensì li disprezzerà. Quanto ai fedeli, saranno dolorosamente colpiti dal fatto di non saper più con chi hanno a che fare. La veste era una garanzia di autenticità del sacerdozio cattolico.

Considerati il contesto storico, le circostanze, i motivi, le intenzioni, il nostro problema non è perciò irrilevante, una pura questione, molto secondaria, di moda ecclesiastica. Si tratta della funzione stessa del sacerdote come tale, nel mondo e nei confronti del mondo. Ed è proprio su di essa che intendono prendere posizione quei sacerdoti e religiosi che portano l'abito civile nonostante le proibizioni episcopali. Ed è per questo che la norma che autorizza il clergyman non ha mai avuto alcun effetto restrittivo nei confronti dell'uso dell'abito laico, anzi ha assunto il significato di un incoraggiamento a portarlo. Il problema non è più se il sacerdote dovrà mantenere la talare oppure portare il clergyman fuori e la talare in chiesa o in canonica; ci domandiamo se il sacerdote manterrà o no un qualunque abito ecclesiastico. Noi, in queste circostanze, abbiamo scelto di mantenere l'abito ecclesiastico, cioè la veste talare nelle nostre Province dov'è stata in uso fino a ora, e il clergyman nelle Province là dov'è usato, sempre portando la veste nelle comunità e in chiesa. Diciamo «in queste circostanze» giacché va da sé che, se fossero prese nei confronti dell'abito ecclesiastico nuove misure che salvaguardassero i due princìpi sopra enunciati - il segno esteriore del sacerdozio e la testimonianza evangelica - e questo in modo decoroso e discreto ma evidente, non esiteremmo ad adottarle. Possano, miei cari confratelli, queste considerazioni farci aderire con tutta l'anima nostra al nostro sacerdozio e alla nostra missione in questo mondo. Con Nostro Signore speriamo di poter dire alla fine della nostra vita: «Padre, ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato traendoli dal mondo… Ti ho reso gloria sulla terra, ho compiuto l'opera che mi hai affidato» (Gv. 17, 3, 6). 

Parigi, festa di Nostra Signora di Lourdes, 11 febbraio 1963

 Marcel Lefèbvre