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venerdì 10 settembre 2021

VITA DI CRISTO

 


La prima tentazione  

Sapendo che Nostro Signore aveva fame, Satana indicò alcune piccole pietre nere che somigliavano rotonde forme di pane, e disse:  «Se tu sei il Figlio di Dio, comanda a queste pietre di trasformarsi in pane. (Mt. 4: 3)  

La prima tentazione del Nostro Signor Benedetto fu quella di divenire una specie di riformatore sociale, e dar pane alle moltitudini che nel deserto non avrebbero potuto trovare che pietre. La visione di un miglioramento sociale non accompagnato da una rigenerazione spirituale ha costituito una tentazione alla quale, durante tutto il corso della storia, molti uomini importanti hanno ceduto; ma questo, per Lui, non avrebbe significato servire debitamente il Padre: nell'uomo ci sono esigenze più profonde che non il grano macinato, e gioie più grandi che non la pancia piena.  

Disse lo spirito del male: «Afferma il principio del predominio dell'economia! Lascia stare il peccato!» E tuttora, con parole diverse, dice: «Il mio Commissario va nelle aule scolastiche a sollecitare i fanciulli a pregar Dio perché ottenga loro il pane; e quando alle loro preghiere non vien data risposta, ci pensa il mio Commissario a nutrirli. Il Dittatore dà il pane; Dio no, perché Dio non esiste, perché non esiste l'anima; solo il corpo esiste, e il piacere, e il sesso, e l'animale; e quando moriamo, tutto questo finisce». Satana si sforzò d'ispirare a Nostro Signore il sentimento del terrificante contrasto tra la grandezza divina, da Lui asserita, e l'attuale Sua miseria, e Lo tentò a rifiutare le ignominie della natura umana, le sofferenze e la fame, e ad usare il potere divino, se effettivamente lo possedeva, per salvare la Propria natura umana, nonché per guadagnarsi il favor delle folle. Invitò quindi Nostro Signore a cessare di agire come un uomo, e in nome dell'uomo, e ad usare i Suoi poteri soprannaturali per dare alla Sua natura umana benessere, agi e immunità dal dolore. L'aver fame non era forse, per Iddio, quanto di più stolto si potesse immaginare, dal momento che altra volta, per Mosè e il suo popolo, aveva dispiegato nel deserto una tavola miracolosa? Giovanni aveva detto che Dio avrebbe potuto suscitar figli ad Abramo dalle pietre medesime; perché, allora, Egli non le trasformava in pani per Sé? Il bisogno era una realtà di fatto; e una realtà di fatto era anche il potere, se Egli era davvero Dio; perché, allora, sottoponeva la Sua natura umana a tutti i mali e a tutte le sofferenze che sono il retaggio dell'umanità? Perché Dio accettava una simile umiliazione al solo scopo di redimere le Sue creature? «Se tu sei il Figlio di Dio, come affermi di essere, e sei qui per annullare la distruzione operata dal peccato, allora salva te stesso». Era, in tutto, il medesimo genere di tentazione che gli uomini Gli avrebbero lanciato nell'ora della Crocifissione:  

«Se tu sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla Croce!» (Matt: 27: 40)  

La risposta del Nostro Signor Benedetto fu che, pur avendo accettato la natura umana con tutte le sue debolezze e tentazioni e rinunzie, Egli non era senza l'aiuto di Dio.  

«Sta scritto: 'Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio".» (Matt. 4: 4)  

Tali parole erano tolte dall'Antico Testamento là dove esso fa menzione del modo miracoloso come gli Ebrei si erano nutriti nel deserto allorché la manna gli era caduta dal cielo. Egli dunque si rifiutò di appagare l'ardente curiosità di Satana bramoso di sapere se Egli fosse, o non fosse, il Figlio di Dio, ma asserì che Dio può nutrire con qualcosa di ben più grande che non il pane. Nostro Signore non ricorse a poteri miracolosi per provvedere cibo a Se stesso, come più tardi non avrebbe fatto ricorso a poteri miracolosi per scender giù dalla Croce: in tutti i tempi gli uomini avrebbero avuto fame, ed Egli non si sarebbe disgiunto dai Suoi fratelli affamati. Si era fatto uomo e voleva assoggettarsi a tutti i mali dell'uomo, fino all'avvento finale della Sua gloria.  

Nostro Signore non disse che gli uomini non debbano essere nutriti, o che non si debba predicare la giustizia sociale, ma negò la priorità di tali cose. A Satana, in effetti, disse: «Tu mi tenti a una religione che allevierebbe il bisogno; tu vorresti che io fossi un fornaio, invece che un Salvatore; un riformatore sociale, invece che un Redentore. Tu mi tenti ad allontanarmi dalla mia Croce, proponendomi d'essere un capopopolo da dozzina, di quelli che nutrono i ventri invece delle anime. Tu vorresti ch'io cominciassi con la sicurezza, invece di finire con essa; e recassi l'abbondanza esteriore, invece della santità interiore. Tu e i tuoi seguaci materialisti dite: 'L'uomo vive di solo pane', ma io ti dico: 'Non di solo pane'. Il pane, sì, dev'esserci, ma ricordati che perfino il pane prende da me tutto il potere ch'esso ha di nutrire il genere umano. Senza di me, il pane può nuocere all'uomo; e non c'è vera sicurezza fuori della Parola di Dio. Se io dessi solo pane, l'uomo non sarebbe più che un animale, e i cani potrebbero ben venir primi al mio banchetto. Coloro che credono in me devono star saldi in questa fede, pur se affamati e infermi, pur se imprigionati e flagellati.  

«So bene che cos'è la fame umana! Ché senza cibo ho trascorso quaranta giorni. Ma mi rifiuto di diventare un semplice riformatore sociale che provveda soltanto ai ventri. Non puoi dire che sia insensibile alla giustizia sociale, perché in questo momento io provo la fame del mondo. Io sono una cosa sola con ciascun povero membro affamato della stirpe umana. Ecco perché ho digiunato: affinché essi non possano mai dire che Dio non sa che cos'è la fame. Vattene, o Satana! Io non sono propriamente un agitatore sociale che non abbia mai avuto fame, ma Colui che dice: 'Respingo ogni disegno che prometta di far gli uomini più ricchi senza farli più santi'. Ricordati: io che dico: 'Non di solo pane', non ho assaggiato il pane per quaranta giorni!»  

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN 

domenica 25 luglio 2021

VITA DI CRISTO

 


LE TRE SCORCIATOIE DALLA CROCE  

Immediatamente dopo il battesimo, il Nostro Signor Benedetto si ritrasse in solitudine. Il deserto sarebbe stato la Sua scuola, al modo stesso ch’era stato la scuola di Mosè e di Elia. Il ritiro prepara all'azione; e allo stesso fine, più tardi, se ne sarebbe servito Paolo. A qualsiasi consolazione umana Gesù aveva rinunziato perché «stava con le fiere». E per quaranta giorni non mangiò nulla.  

Poiché il fine della Sua venuta era di combattere contro le forze del male, il Suo primo scontro non fu una discussione con un umano dottrinario, ma una contestazione col principe del male in persona.  

«Gesù venne condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo» (Matt. 4: 1)  

La tentazione fu una preparazione d'ordine negativo al Suo ministero, mentre il battesimo era stato una preparazione d'ordine positivo. Nel battesimo, Egli aveva ricevuto lo Spirito e la conferma della Propria missione; nelle tentazioni, ricevette il vigore che si produce direttamente dalla prova e dal cimento. Da un capo all'altro dell'universo sta scritta una legge: che nessuno sarà mai incoronato se prima non avrà lottato. Sopra la testa di coloro che non combattono, nessuna aureola di gloria sta sospesa. I banchi di ghiaccio che galleggiano sulle fredde correnti del Nord non meritano la nostra riguardosa attenzione, appunto perché sono banchi di ghiaccio; ma se dovessero galleggiare senza liquefarsi sulle calde correnti del Gulf Stream, allora ci ispirerebbero rispetto e meraviglia; e di essi, se lo facessero per uno scopo precipuo, potremmo dire che hanno un carattere.  

Il solo modo che abbiamo di dimostrare il nostro amore è di compiere una scelta: le sole parole non bastano. Ecco perché alla prova originaria cui fu sottoposto l'uomo furono poi sottoposti tutti gli uomini; e perfino gli angeli han subito una prova. Nessun merito ha il ghiaccio d'esser freddo, né il fuoco d'essere caldo: soltanto coloro che hanno la possibilità di scegliere possono andar lodati per le azioni che compiono. È appunto attraverso la tentazione, e lo sforzo ch’essa comporta, che il carattere si rivela in tutta la sua profondità. Dice la Scrittura:  

«Beato l'uomo che sopporta la prova, perché quando sarà stato provato riceverà la corona della vita, promessa da Dio a coloro che lo amano» (Giacomo 1: 12)  

I baluardi dell'anima appaiono in tutta la loro possanza quando possente è pure il diavolo cui essi hanno resistito. La presenza della tentazione non implica necessariamente l'imperfezione morale da parte di colui che viene tentato, ché, se così fosse, il Nostro Divin Signore non sarebbe stato tentato. L'intima tendenza al male, qual è quella innata nell'uomo, non è una condizione necessaria all'assalto di una qualche tentazione. A Nostro Signore le tentazioni vennero unicamente dal di fuori, e non già dal di dentro, come il più delle volte accade a noi. Nella prova ch'ebbe a subire Nostro Signore non era in pericolo la perversione degli appetiti naturali, ch'è una tentazione propria a tutti gli altri uomini: il pericolo era bensì rappresentato dall'invito a Nostro Signore a rinunziare alla Sua missione divina, al Suo operato messianico. La tentazione che viene dal di fuori non indebolisce necessariamente il carattere, ché anzi, quando è vinta, offre alla santità l'occasione di accrescersi. Sicché, dato ch'Egli era per essere l'Esempio, doveva insegnarci il modo di conseguire la santità attraverso la sconfitta della tentazione.  

«Poiché appunto per essere stato provato lui e avere sofferto, per questo può venire in aiuto a quelli che sono nella prova» (Ebrei 2: 18)  

Il che è illustrato nel carattere di Isabella in Misura per Misura:  

«Altro è venir tentati, altro cadere».  

Peccaminoso era il tentatore, ma Colui che veniva tentato era innocente. L'intera storia del mondo gravita intorno a due persone: Adamo e Cristo. Adamo, cui era stata data una condizione da conservare, soccombette, e, perdendosi, perdé il genere umano: perché ne era il capo. Quando un governante dichiara la guerra, la dichiarano anche i cittadini, sebbene non facciano, individualmente, una dichiarazione esplicita. Cosicché, quando Adamo dichiarò guerra a Dio, la dichiarò anche l'uomo.  

Con Cristo, adesso, tutto di nuovo era in pericolo: si ripeteva la tentazione di Adamo. Se Dio non avesse assunto natura umana, non sarebbe stato possibile tentarLo. Sebbene le Sue nature, la Divina e l'umana, fossero unite in una sola Persona, la Natura Divina non era diminuita da quella umana, né questa passava la misura a séguito dell'unione con la Natura Divina. Egli poté essere tentato in quanto aveva natura umana. Se intendeva farsi in tutto simile a noi, doveva subire l'esperienza umana di resistere alla tentazione. Ecco perché, nell'Epistola agli Ebrei, ci si rammenta quanto intimamente vincolato all'umanità Lo avessero fatto le prove da Lui affrontate:  

«Non abbiamo infatti un Sommo Sacerdote che non possa compatire le nostre debolezze, ma invece è stato provato in tutto a somiglianza di noi, salvo il peccato» (Ebrei 4: 15)  

È nei disegni di Dio il perfezionare mediante la prova e la sofferenza le creature da Lui amate, ché soltanto portando la Croce è possibile conseguire la Risurrezione. E il diavolo aggredì appunto codesto aspetto della Missione di Nostro Signore. Le tentazioni, infatti, miravano a distogliere Nostro Signore dal compito Suo di salvezza mediante il sacrificio; cosicché, invece della Croce intesa come mezzo di conquista delle anime, Satana Gli suggerì tre scorciatoie per guadagnarsi il favore popolare: una di ordine economico, una seconda basata sui prodigi, e una terza di natura politica. Pochissimi sono coloro che oggigiorno credono nel diavolo; il che serve mirabilmente lo scopo del diavolo. Perché egli s'ingegna di far circolare la notizia della sua morte. L'essenza di Dio è l'esistenza, tanto ch'Egli si definisce: «Io sono Colui che è». L'essenza del diavolo è la menzogna, tanto ch’egli si definisce: «Io sono colui che non è». Poco da fare danno a Satana coloro che non credono in lui: son già dalla sua parte.  

Le tentazioni dell'uomo sono piuttosto facili da analizzarsi, per. ché rientrano sempre in una di queste tre categorie: o riguardano la carne (lussuria e gola), oppure la mente (orgoglio e invidia), oppure l'amore idolatra delle cose (cupidigia). Sebbene per tutta la vita l'uomo sia bersaglio di queste tre specie di tentazioni, esse variano d'intensità a seconda degli anni. Nella giovinezza, difatti, l'uomo è spesso tentato nel senso dell'impurità ed incline ai peccati della carne; nell'età media, la carne si fa meno urgente, e cominciano a predominare le tentazioni della mente, come l'orgoglio e la brama del potere; nell'autunno della vita, è probabile che si affermino le tentazioni nel senso dell'avarizia. Vedendo avvicinarsi il termine della vita, l'uomo si sforza di bandire i dubbi relativi alla sicurezza eterna, ossia alla salvezza, tesoreggiando i beni terreni e raddoppiando la propria sicurezza economica; un'esperienza psicologica acquisita che coloro che da giovani hanno ceduto alla lussuria sono il più delle volte quelli che da vecchi peccano di avarizia. I buoni non sono tentati allo stesso modo dei malvagi, e il Figlio di Dio, che si era fatto uomo, non fu tentato neppure allo stesso modo d'un uomo buono. Le tentazioni di un alcoolizzato a «ritornare al suo vomito», per dirla con la Scrittura, non sono le stesse tentazioni d'un santo a peccare d'orgoglio, quantunque, s'intende, non siano meno reali. Per comprendere le tentazioni cui venne sottoposto Cristo, occorre tener presente che al battesimo conferitoGli da Giovanni, quando Colui che non aveva peccati s'era identificato coi peccatori, i cieli s'erano aperti e il Padre Celeste aveva dichiarato Cristo il Figlio Suo Diletto. Indi Nostro Signore aveva asceso il monte e digiunato per quaranta giorni, trascorsi i quali, dice il Vangelo, «ebbe fame», che è espressione tipicamente eufemica. Satana allora Lo tentò con la scusa di aiutarLo a trovare una risposta a questa domanda: qual era il modo migliore per adempiere il Suo alto destino fra gli uomini? Il problema era di conquistare gli uomini. Ma come? Satana ebbe un'idea satanica, cioè trascurare il problema morale della colpa, con relativa necessità di espiazione, e puntare unicamente sui fattori mondani. Tutt'e tre le tentazioni di Satana mirarono a distogliere Nostro Signore dalla Croce e, di conseguenza, dalla Redenzione. Più tardi Pietro avrebbe tentato Nostro Signore al medesimo modo, ragion per cui sarebbe stato chiamato «Satana».  

La carne umana di cui Egli si era rivestito non era incline all'ozio, ma alla battaglia. Satana vide in Gesù un eccezionale essere umano, che sospettò fosse il Messia e il Figlio di Dio, talché fece precedere ciascuna delle tentazioni da un «se» condizionale. E, infatti, se fosse stato certo di parlare a Dio, non avrebbe cercato di tentarLo. Ma se Nostro Signore fosse stato soltanto un uomo scelto da Dio per operare la salvezza, allora egli avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere per indurLo ad adottare nei confronti degli umani peccati sistemi ben diversi da quelli che avrebbe scelti Dio.

***

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN 

lunedì 24 maggio 2021

VITA DI CRISTO

 


Giovanni il Battista  

L'austero silenzio trentennale fu interrotto soltanto dalla breve scena nel tempio. E ora si avvicinava il momento di passare dalla vita privata alla vita pubblica. E siccome tale evento avrebbe scrollato il mondo, Luca associa l'apparizione dell'araldo di Nostro Signore, Giovanni il Battista, con il regno del tiranno Tiberio, il reggitore di Roma. Plinio, che più tardi avrebbe scritto, in quanto storiografo romano, intorno a Cristo, aveva allora quattro anni; e Vespasiano, che poi, affiancato dal figlio Tito, avrebbe conquistato Gerusalemme, ne contava diciannove, e tra i matrimoni più importanti, che si celebrarono in quel tempo a Roma, troviamo quello della figlia di Germanico, la quale, nove anni dopo, avrebbe dato alla luce il massimo persecutore dei seguaci di Cristo: Nerone. Nel cuore di codesta relativa pace romana «la parola di Dio si fece udire a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Luca 3: 2)  

Giovanni viveva in solitudine nel deserto, indossava un vestito di peli di cammello, con intorno ai fianchi una cintura di cuoio, e si nutriva di locuste e di miele selvatico. Il suo costume di vita intendeva probabilmente rassomigliare a quello di Elia, nel cui spirito egli si sarebbe presentato a Cristo. Giacché predicava la mortificazione, la praticava anche. Poiché doveva preannunziare Cristo, doveva anche evocare una penitente coscienza del peccato. Giovanni era un asceta severo, mosso dalla profonda convinzione del peccato nel mondo, sicché il nocciolo del suo messaggio ai soldati, ai pubblici funzionari, agli agricoltori, e a chiunque altro lo ascoltasse, era: «Pentitevi». La prima voce ammonitrice che si trovi nel Nuovo Testamento dice a tutti gli uomini di cambiare: i Sadducei devono smettere l'amor del mondo; i Farisei, l'ipocrisia e la presunzione di rettitudine; tutti quelli che vanno a Cristo devono pentirsi.  

Giacché il paese era sotto il giogo romano, Giovanni avrebbe potuto scegliere una strada più sicura per ottenere il favore popolare, quella cioè di promettere che Colui che stava per venire, Colui ch'egli annunziava, sarebbe stato un liberatore politico. Tale il mezzo cui sarebbero ricorsi gli uomini; ma Giovanni, invece che un appello alle armi, lanciò un appello per la riparazione dei peccati. E coloro che affermano di discendere da Abramo non devono vantarsene, perché, se volesse, Dio potrebbe dalle pietre stesse suscitare figli ad Abramo.  

«Chi vi ha insegnato, razza di vipere, a sfuggire l'ira che vi sovrasta?  

Fate dunque frutti degni di penitenza e non mettetevi a dire: 'Noi abbiamo Abramo per padre', perché io vi dico che Dio può da queste pietre medesime suscitare figli ad Abramo» (Luca 3: 7, 8)  

Parecchi secoli prima, Isaia aveva predetto che il Messia sarebbe stato preceduto da un messaggero:  «Ecco, io mando il mio angelo dinanzi a te, a prepararti la via. Voce di uno che grida nel deserto: 'Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri'.» (Mc 1: 2, 3)  

Trecento anni circa dopo Isaia, il profeta Malachia profetò che l'araldo Isaia aveva promesso che sarebbe venuto nello spirito di Elia:  «Manderò a voi il profeta Elia» (Malachia 4: 5)  

Ed ora, dopo che i secoli avevano turbinato nello spazio, ecco apparire nel deserto questo grand'uomo che assumeva lo stesso costume di vita di Elia.  

In tutti i paesi, quando il capo del governo desidera visitare un altro governo, manda messaggeri «dinanzi a sé». Così Giovanni il Battista venne mandato a preparare la strada di Cristo, ad annunziare le condizioni del Suo regno e governo; e, a malgrado delle profezie fatte su di lui, negò di essere il Messia, affermando d'essere soltanto  «la voce di uno che grida nel deserto» (Giov. 1: 23)  

Ancor prima d'incontrarsi col Messia, che gli era cugino, annunziò la superiorità di Cristo:  «Viene dopo di me colui che è più forte di me, al quale io non son degno di chinarmi a sciogliere il legaccio dei calzari» (Marco 1: 7)  

Giovanni si considerava indegno di sciogliere il legaccio dei calzari di Nostro Signore, ma Nostro Signore lo avrebbe superato in umiltà, con la lavanda dei piedi degli Apostoli. La grandezza di Giovanni consisteva nel fatto che a lui era stato concesso il privilegio di correre innanzi al carro del Re, dicendo: «Cristo è venuto».  

Simboli al pari di parole adoperava Giovanni. Il simbolo principale della lavanda del peccato era la purificazione mediante l'acqua. Giovanni usava battezzare nel Giordano, in segno di penitenza, ma sapeva che il suo battesimo non avrebbe né rigenerato né ridestato le anime morte, e fu questa la ragione per cui stabili un contrasto tra il battesimo conferito da lui e il battesimo che, più tardi, avrebbe conferito Cristo in persona; e parlando del secondo, disse:  

«Egli vi battezzerà nello Spirito Santo e nel fuoco» (Matt. 3: 11)  

Il giorno in cui Giovanni e Gesù s'incontrarono nel Giordano, Giovanni sentì destarsi in lui la più profonda e reverente umiltà. Avvertiva, sì, il bisogno di un Redentore, ma, allorché Nostro Signore lo invitò a battezzarLo, si mostrò riluttante, ché immediatamente aveva inteso l'incongruità di sottoporre Nostro Signore a un rito che insegnava il pentimento e prometteva la purificazione:  

«Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?» (Matt. 3:14)  

Come avrebbe mai potuto battezzare Colui ch'era senza peccato? Il suo rifiuto a battezzare Gesù significava il riconoscimento della di Lui Innocenza:  

«Gli rispose Gesù: 'Lascia fare per il momento, poiché conviene che noi adempiamo così ogni giustizia'.» (Matt. 3:15)  

Il fine del battesimo di Gesù era il fine stesso della Sua nascita, e cioè quello d'identificarsi con l'umanità peccatrice. Non aveva forse predetto Isaia ch'Egli sarebbe stato «annoverato tra i malfattori?» Nostro Signore, in effetti, disse: 

«Lascia che ciò si compia; in apparenza non ti sembra giusto, ma in realtà è in perfetta armonia con il fine della mia venuta». Perché, se Cristo non era del numero dei malfattori come Persona a sé stante, lo era però come rappresentante dell'umanità peccatrice, sebbene fosse senza peccato.  

Ogni Israelita che veniva a Giovanni faceva confessione dei propri peccati. Ora, è evidente che il Nostro Signore Benedetto non fece una simile confessione, e Giovanni stesso riconobbe che Egli non aveva bisogno di farla: non aveva peccati di cui pentirsi, né peccati da lavare, e tuttavia s'identificava con i peccatori. Ché ai peccatori appunto si assimilò quando scese nel Giordano per ricevervi il battesimo. Gli innocenti possono aiutare i colpevoli a portare i propri fardelli. Così, se un marito è colpevole d'un reato, è insulso stare a dire alla moglie di non angosciarsene, o che non è affar suo. E parimenti assurdo è dire che Nostro Signore non doveva farsi battezzare perché personalmente privo di colpa. Dal momento che intendeva identificarsi con l'umanità, al punto di darsi il nome di «Figlio dell'Uomo», doveva pur farsi partecipe delle colpe degli uomini. E fu questo il significato del battesimo conferito da Giovanni.  

Molti anni prima, Egli aveva detto che doveva attendere a ciò che riguardava il Padre Suo: adesso rivelava che ciò che riguardava il Padre Suo era la salvezza dell'umanità. Esprimeva insomma la parentela ideale col Suo popolo, per amor del quale era stato mandato. Nel tempio, a dodici anni, aveva messo l'accento sulla Sua origine; ora, nel Giordano, sottolineava la natura della Sua missione. Nel tempio aveva parlato del Suo mandato divino; adesso, sotto le mani purificanti di Giovanni, palesava la Sua identità col genere umano.  

Più tardi, il Nostro Signore Benedetto avrebbe affermato:  

«La Legge e i Profeti vanno fino a Giovanni» (Luca 16: 16)  

Con ciò intendeva dire che lunghi secoli avevano fedelmente testimoniato della venuta del Messia, ma che ora una pagina nuova si era aperta, un nuovo capitolo era stato scritto. D'ora in avanti Egli si sarebbe immerso col popolo peccatore. Ché Gli era stato commesso il compito di vivere, d'ora in avanti, fra le vittime del peccato, e di operare per loro, e d'esser consegnato nelle mani dei peccatori, e d'essere accusato di peccato, benché ignaro di peccato. Allo stesso modo che, bambino, era stato circonciso, come se la Sua natura fosse peccaminosa, ora era stato battezzato, sebbene non abbisognasse di purificazione.  

Nell'Antico Testamento c'erano tre riti «battesimali». Il primo era un «battesimo» di acqua: Mosè condusse Aronne e il figlio di lui alle porte del tabernacolo e li lavò con acqua. Al che seguì un «battesimo» di olio, allorché Mosè, per consacrare Aronne, gli versò l'olio sul capo. Il «battesimo» finale fu un «battesimo» di sangue: Mosè prese il sangue dell'ariete immolato per la consacrazione e ne pose sull'estremità dell'orecchio destro e sul pollice della mano destra e sull'alluce del piede destro di Aronne: rito, questo, che implicava una consacrazione progressiva. 

Tali «battesimi» avrebbero avuto la loro contropartita nel Giordano, nella Trasfigurazione e nel Calvario.  

Il battesimo nel Giordano fu un preludio al battesimo del quale Egli avrebbe parlato in séguito: il battesimo della Sua Passione. Due volte, più tardi, accennò al Proprio battesimo: la prima, quando Giacomo e Giovanni Gli chiesero di poter sedere, rispettivamente, all'uno e all'altro lato di Lui, nel Regno Suo; al che Egli rispose domandando loro se erano disposti a farsi battezzare col battesimo ch'Egli stava per ricevere. Sicché il Suo battesimo d'acqua prefigurava il Suo battesimo di sangue: il Giordano fluì nei rossi fiumi del Calvario. La seconda volta, Egli accennò al Suo battesimo quando disse agli Apostoli:  

«Io devo ancora essere battezzato con un battesimo, e come sono angustiato finché esso non si compia!» (Luca 12: 50)  

Nelle acque del Giordano, Egli s'identificò con i peccatori; nel battesimo della Sua Morte, avrebbe portato l'intero fardello delle loro colpe. Nell'Antico Testamento, il Salmista parla di «entrare nell'acqua profonda» come di un simbolo di sofferenza, che è, palesemente, la medesima immagine. Era giusto descrivere l'agonia e la morte come una sorta di battesimo.  

Con sempre maggiore vivezza, in quell'occasione, il miraggio della Croce dové apparire alla Sua mente: non fu un pensiero successivo. Nelle acque del Giordano Egli era temporaneamente immerso soltanto per riemergere, alla maniera stessa che dalla morte sulla Croce e dalla sepoltura nella tomba sarebbe stato sommerso soltanto per emergerne trionfalmente nella Risurrezione. A dodici anni aveva proclamato la missione commessaGli dal Padre; ora si preparava all'oblazione.  

«Come Gesù fu battezzato ed uscì fuori dall'acqua, i cieli gli si apersero, e vide lo Spirito di Dio discendere a guisa di colomba e venire sopra di lui, mentre dal cielo una voce diceva: 'Questi è il mio Figlio diletto, nel quale ho riposto le mie compiacenze'» (Matt. 13: 6, 17)  

La sacra umanità di Cristo era il vincolo che congiungeva il cielo alla terra. La voce dal cielo che Lo proclamò Figlio Di letto dell'Eterno Padre non annunziò un fatto nuovo, né una nuova condizione filiale del Nostro Signor Benedetto: significò unicamente una dichiarazione solenne di tale condizione filiale, che esisteva ab aeterno ma che ora cominciava a manifestarsi pubblicamente come termine di mediazione tra Dio e l'uomo. Le compiacenze del Padre, nell'originale greco, sono riportate col tempo aorista, a denotare l'eterno atto di contemplazione amorevole con cui il Padre considera il Figlio.  

Il Cristo che uscì dall'acqua, come dall'acqua era uscita la terra all'atto della creazione e dopo il Diluvio, e come dalle acque del Mar Rosso erano usciti Mosè e il suo popolo, era adesso glorificato dallo Spirito Santo apparso in forma di colomba. Lo Spirito di Dio non appare mai a guisa di colomba se non qui. Il Libro del Levitico parla di offerte fatte a seconda della condizione economica e sociale del donatore: chi era in grado di donarlo portava un manzetto, mentre un povero offriva un agnello; ma i più poveri fruivano del privilegio di portar colombe. Quando la madre di Nostro Signore Lo presentò al tempio, la sua offerta consisté in una colomba. La colomba era il simbolo della mitezza e della pace, ma, soprattutto, era una forma di sacrificio possibile ai più umili. Gli Ebrei, sempre che pensavano a un agnello o a una colomba, pensavano a un sacrificio per un peccato; perciò lo Spirito che scese sopra Nostro Signore fu per essi un simbolo di sottomissione al sacrificio. Nel battesimo, Cristo si era già simbolicamente congiunto con gli uomini, ad anticipare la Sua immersione nelle acque della sofferenza; ma adesso, attraverso la venuta dello Spirito, era stato anche incoronato, indicato e consacrato a tale sacrificio. Le acque del Giordano Lo congiunsero con gli uomini, lo Spirito Lo incoronò e consacrò al sacrificio, la Voce attestò che del di Lui sacrificio l'Eterno Padre si sarebbe compiaciuto. In quella occasione i semi della dottrina della Trinità, piantati nell'Antico Testamento, cominciarono a rivelarsi, e col passar del tempo sarebbero diventati più chiari: il Padre, il Creatore; il Figlio, il Redentore; lo Spirito Santo, il Santificatore. Le parole stesse che il Padre aveva pronunziate, «Questi è il mio Figlio», erano state profeticamente rivolte al Messia un migliaio d'anni avanti, nel secondo salmo:  

«Tu sei il Figlio mio, oggi io ti ho generato» (Salmi 2: 7)  

Più tardi, il Nostro Signor Benedetto avrebbe detto a Nicodemo:  

«In verità, in verità ti dico che se uno non rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio» (Giov. 3: 5)  

Il battesimo nel Giordano segnò la fine della vita privata di Nostro Signore e l'inizio del Suo ministero pubblico. Quando era sceso nell'acqua, ai più era noto soltanto come il figlio di Maria; ne venne fuori pronto a rivelarsi qual era stato da ogni eternità: il Figlio di Dio. Egli era il Figlio di Dio a somiglianza dell'uomo in tutto e per tutto, tranne che nel peccato. Lo spirito lo aveva consacrato non propriamente per insegnare, ma per redimere.  

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN 

sabato 27 marzo 2021

VITA DI CRISTO

 


Nazaret  

È questo l'unico episodio della Sua fanciullezza del quale parlino le Scritture. Per altri diciotto anni Egli dimorò a Nazaret.  

«Discese con essi e tornò a Nazaret e stava soggetto a loro. Sua madre custodiva nel cuore tutte queste cose, mentre Gesù cresceva in sapienza, età e grazia dinanzi a Dio e agli uomini» (Luca 2: 51, 52)  

Se c'era un Figlio dal quale sarebbe stato lecito aspettarsi la pretesa all'indipendenza personale (specie dopo la Sua vigorosa asserzione nel tempio), era Lui; e invece, per santificare ed esemplificare l'obbedienza umana, e compensare la disobbedienza degli uomini, Egli visse sotto un umile tetto, e sottomesso ai genitori. Per diciotto anni trascorsi senza avvenimenti degni di nota, rimise in sesto i tetti diruti delle case nazarene e riparò i carri degli agricoltori: non c'era bisogna, non c'era compito, per quanto umile, che non facesse parte degli interessi del Padre. 

Quanto alla crescita umana del Dio-uomo, così naturalmente si compiva nel villaggio che neppure i Suoi conterranei avevano coscienza della grandezza di Colui che dimorava fra loro. Era in verità una «decrescita», nel senso ch'Egli rinnegava, abnegava Se stesso per sottomettersi alle Proprie creature. Faceva, si vede, il mestiere del falegname, perché, diciotto anni dopo, i Suoi conterranei avrebbero domandato:  «Non è questi il falegname il figlio di Maria?» (Marco 6: 3)  

Giustino martire, basandosi sulla tradizione, dice che durante quel tempo Nostro Signore fabbricò aratri e gioghi e insegnò agli uomini, attraverso il Suo tranquillo mestiere, la rettitudine.  

Allorché del Divin Fanciullo si dice che cresceva in sapienza, non si vuol intendere, come s'è visto, che in Lui crescesse la consapevolezza della Divinità. In quanto uomo, era soggetto a tutte le leggi che regolano la crescita umana; e perché aveva una mente ed una volontà umane, era naturale che codeste facoltà si sviluppassero in maniera umana.  

Va particolarmente notata, per quanto riguarda il progresso delle sue cognizioni sperimentali, l'influenza di quanti Lo circondavano. E difatti, molte delle immagini da Lui adoperate nelle parabole sono tolte in prestito al mondo in cui era vissuto. Per l'influenza dei genitori Egli apprese la corrente lingua aramaica e, non v'è dubbio, anche quella, liturgica, ebraica; e, molto probabilmente, imparò il greco, che si parlava abbastanza in Galilea ed era anche, per quanto si sa, la lingua di almeno due dei Suoi parenti: Giacomo il Minore e Giuda, che dopo scrissero in greco le loro Epistole.  

Apprese altresì il mestiere di falegname, che implicava un ulteriore sviluppo delle doti intellettive umane; e, più tardi, si meritò il titolo di Rabbi per la Sua profonda conoscenza delle Scritture e della Legge. Sovente cominciava le discussioni con le parole «Non avete letto», provando così la conoscenza che aveva delle Scritture. La famiglia, la sinagoga, l'ambiente, la natura stessa: tutto contribuiva un poco alla sua intelligenza e volontà. Perché Egli aveva sia un 'intelligenza umana che una volontà umana. Senza la prima, non sarebbe potuto crescere nell'umano sapere sperimentale; senza la seconda, non avrebbe potuto obbedire a un più alto volere. Entrambe, inoltre, Gli erano essenziali in quanto uomo. E in quanto uomo fruiva del sapere creato; in quanto Dio, trascendeva il sapere umano. È quel che Giovanni rappresenta con la parola «Verbo», che significa la Sapienza o il Pensiero o l'Intelligenza di Dio.  

«Il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ... Tutto per mezzo di lui è stato fatto e senza di lui non è stato fatto nulla di ciò ch'è stato fatto ... Il Verbo si è fatto carne, ed abitò tra noi» (Giov. 1: 1,3,14)  

Gli intimi rapporti ch'Egli aveva col Padre Suo nei cieli non erano solo quelli che si producevano dalla preghiera e dalla meditazione, ché questi può stabilirli qualsiasi essere umano. Si producevano bensì dall'identità della Sua natura con la Divinità.  

Poiché tra gli uomini il peccato più diffuso è l'orgoglio, ossia l'esaltazione dell'ego, si capisce come Cristo, per espiare l'orgoglio, dovesse praticare l'obbedienza. Egli non era di quelli che obbediscono per gratitudine, o allo scopo di foggiare il proprio carattere; è vero invece che, essendo Egli il Figlio, già pienamente si allietava dell'amore del Padre; e in virtù appunto di tale pienezza si profondeva in Lui un fanciullesco desiderio di arrendersi alla volontà del Padre. Tale la ragione ch'Egli diede della resa Sua alla Croce. Un'ora prima all'incirca di entrare in agonia nell'Orto, avrebbe detto:  «Perché il mondo deve sapere che io amo il Padre e che opero come il Padre mi ha ordinato» (Giov. 14:31)  

I soli atti della fanciullezza di Cristo dei quali si abbia testimonianza sono atti di obbedienza: obbedienza al Padre Celeste e ai genitori terreni. Il fondamento dell'obbedienza all'uomo, Egli insegnò, è l'obbedienza a Dio.  

Agli anziani che non onorano Dio capita di non essere onorati dai giovani. L'intera Sua vita fu sottomissione: si sottopose al battesimo di Giovanni, quantunque non ne abbisognasse; si assoggettò a pagare il tributo al tempio, sebbene, come Figlio del Padre, ne andasse esente; e ai Suoi stessi discepoli comandò di sottomettersi a Cesare. Il Calvario proiettò la sua ombra su Betlemme, allo stesso modo che ora oscurava gli anni di obbedienza ch’Egli trascorreva a Nazaret. Assoggettandosi alle creature, benché fosse Dio, si preparava all'obbedienza finale: a obbedire, cioè, all'umiliazione della Croce.  

Per diciotto anni, dopo ch’era andato smarrito nel tempio, Colui che aveva creato l'universo si assunse la parte d'un falegname di villaggio, d'un artigiano del legno. I chiodi e le traverse a Lui familiari nella bottega sarebbero diventati poi gli strumenti della Sua tortura, ed Egli stesso sarebbe stato inchiodato a un albero. C'è da domandarsi il perché di una così lunga preparazione per un breve ministero di tre anni, e la ragione potrebbe essere benissimo questa: ch’Egli aspettava che la natura umana da Lui assunta crescesse in età fino a raggiungere la perfezione, così che al Padre Suo Celeste potesse offrire allora il sacrificio perfetto. Al modo stesso che gli agricoltori attendono che il grano sia maturo prima di mieterlo e sottoporlo alla macina, Egli attendeva che la Sua natura umana raggiungesse le proporzioni più perfette e il sommo della bellezza, prima di consegnarla al martello dei crocifissori e alla falce di coloro che avrebbero mietuto il Pane Celeste di Vita. L'agnello neonato non veniva mai offerto in sacrificio, né è il primo rossore d'una rosa recisa a pagare il tributo a un amico. Ogni cosa ha la sua ora di perfezione. E giacché Egli era l'Agnello che poteva stabilire l'ora del proprio sacrificio, giacché era la Rosa che poteva scegliere il momento della propria recisione, attendeva paziente, umile e obbediente, mentre cresceva in età e in grazia e in sapienza dinanzi a Dio e agli uomini. Poi avrebbe detto: «Questa è la vostra ora». E il grano di prima scelta e il vino più rosso sarebbero allora diventati gli elementi più preziosi del sacrificio. 

Mons. Fulton J. Sheen

lunedì 22 febbraio 2021

VITA DI CRISTO

 


L'obbedienza e il Fanciullo al tempio  

In occasione della prima Pasqua che cadeva dopo il dodicesimo anno di vita di Gesù, i genitori Lo condussero a Gerusalemme, insieme con gli altri Nazareni. La Legge imponeva che tutti i Giudei di sesso maschile assistessero alle tre solenni festività: la Pasqua, la Pentecoste e i Tabernacoli. Ed è probabile che nel salire al tempio il Divin Fanciullo osservasse, com'era costume, tutte le ingiunzioni della Legge ebraica: a tre anni aveva indossato una veste guernita di fiocchi; a cinque, aveva imparato, sotto la guida della madre, quei passi della Legge ch'erano stati incisi sui rotoli; a dodici, cominciò a portare le filatterie, che sempre i Giudei indossavano ogni qualvolta avevano da recitare la preghiera quotidiana. Parecchi giorni impiegarono per percorrere i sentieri che da Nazaret portano alla Città Santa; e probabilmente, al pari di tutti i pellegrini, la Sacra Famiglia cantò, cammin facendo, i Salmi processionali, intonando il Salmo 121 allorché giunsero in vista delle mura del tempio.  

Può darsi che Giuseppe si recasse al tempio per sgozzare l'agnello pasquale, e che il Bambino, raggiunta l'età legale per partecipare alle cerimonie del tempio, osservasse il sangue dell'agnello che veniva fuori dalla ferita, per poi spargersi ai piedi dell'altare nelle quattro direzioni della terra. Ancora una volta la Croce era dinanzi ai Suoi occhi. È inoltre probabile che il Fanciullo assistesse al modo come si preparava la carcassa dell'agnello per il festino; operazione che, in base alla prescrizione della legge, si compiva infilando due spiedini di legno attraverso il corpo: l'uno attraverso il petto, l'altro attraverso le cosce, così che l'agnello sembrasse inchiodato su una croce.  

Adempiuti i riti, gli uomini e le donne ripartirono, in due carovane separate, per poi ricongiungersi la sera; ma il fanciullo Gesù rimase in Gerusalemme ad insaputa dei Suoi genitori, i quali, supponendo ch'Egli si trovasse coi loro compagni di viaggio, camminarono per una giornata intera prima di accorgersi della Sua assenza. Talché Gesù venne «perduto» per tre giorni. Nel corso della Sua infanzia si era parlato di «contraddizione», di «spade», di «impossibilità di trovare alloggio», di «esilio», di «strage»: ora si parlava di «perdita». In quei tre giorni Maria giunse alla conoscenza di uno degli effetti del peccato: della perdita di Dio, si vuol dire. Sebbene ella fosse senza peccato, conobbe i timori e la solitudine, le tenebre e l'isolamento propri a ogni peccatore che perda Iddio. Fu come una sorta di sublime giuoco in cui l'una parte si nascondeva e l'altra cercava. Siccome Egli le apparteneva, ella Lo cercava; e però, siccome Egli attendeva alla redenzione, l'aveva lasciata ed era andato al tempio. In Egitto, ella aveva provato la notte buia del corpo; adesso, in Gerusalemme, provava la notte buia dell'anima. Le madri devono abituarsi a portar croci. Non soltanto il suo corpo ma anche la sua anima doveva pagar caro il privilegio d'esserGli madre. Per altri tre giorni, in séguito, ella avrebbe patito: quelli che corrono dal Venerdì Santo alla Domenica di Pasqua. Codesta prima «perdita» era parte della sua preparazione.  

Cristo si trova sempre in siti insospettati: in una greppia Lo avevano trovato i Magi; in un paesino Lo si trova poi, ch'è spregiato perfino dagli Apostoli. Nel tempio, ora, Lo trovarono inaspettatamente i genitori. Lo trovarono dopo tre giorni, allo stesso modo che il terzo giorno, appunto, Maria Lo avrebbe ritrovato dopo il Calvario. Dal tempio, perché costituiva la minuscola immagine, il modello minuscolo del Cielo, Egli era grandemente attratto: la casa del Padre era la Sua dimora, e in essa Egli si sentiva a Suo agio.  

C'era, nel tempio, una scuola, nella quale alcuni rabbi insegnavano: il mite Hillel era forse ancora in vita e può darsi che si trovasse nel tempio per partecipare alla discussione tenuta dal Divin Fanciullo; e può darsi anche che del numero facessero parte il figlio di Hillel, rabbi Simeone e, chissà, perfino il maggiore dei suoi nipotini, Gamaliele, che sarebbe poi stato il maestro di San Paolo, sebbene a quel tempo Gamaliele dovesse avere soltanto l'età, poco più, poco meno, del Divin Fanciullo. Quanto ad Anna, era stato appena nominato sommo sacerdote, e per certo, se non era presente di persona, ebbe modo di sentir parlare di Lui.  

In codesta scuola di rabbi, appunto, Lo trovarono Maria e Giuseppe.  

«Stava nel tempio, seduto in mezzo ai dottori in atto di ascoltarli e d'interrogarli: e tutti che l'udivano stupivano del suo senno e delle sue risposte» (Luca 2: 46-48)  

Che Egli sedesse in mezzo ai dottori indicava che essi non Lo avevano accolto come un semplice allievo, sebbene come un maestro. C'è nel Vangelo a proposito di questa scena, una palese «limitazione» che contrasta con certi scritti apocrifi. Nel Vangelo di Tommaso, che è del secondo secolo e non fa testo, Nostro Signore vien rappresentato come un maestro; e un vangelo arabo, d'un periodo posteriore, parla perfino d'insegnamenti metafisici e astronomici. I Vangeli ispirati, invece, si rivelano quanto mai sobri nella rappresentazione della vita di Nostro Signore, propensi come sono ad attenuarne gli aspetti.  

«Al vederlo, essi furono meravigliati» (Luca 2: 48)  

Probabilmente, erano meravigliati per la dottrina di cui dava prova. Il Salmista aveva predetto ch'Egli sarebbe stato più sapiente dei Suoi maestri perché oggetto del Suo studio sarebbero state le testimonianze di Dio. Ma lo stupore può anche prodursi dal fatto che una madre, talvolta, stenta ad intendere come il figlio possa essersi rapidamente mutato in adulto e, pertanto, trovarsi in grado di affermare un suo proprio scopo di vita.  

In un paese in cui suprema era l'autorità del padre, non fu Giuseppe, il padre adottivo, ma Maria a parlare:  «Figlio mio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, contristati, andavamo in cerca di te» (Luca 2: 48)  

In codesta sua domanda era implicito il riferimento alla Nascita Verginale. Da quel suo domandare, si capisce com'ella insistesse sull'essere Egli il Figlio suo ancor più che sull'essere anche il Figlio di Dio; e tale distinzione, inoltre, sottolineò accennando altresì alla paternità di Giuseppe, là dove disse: «Tuo padre e io».  

Al che, il Divin Fanciullo rispose distinguendo tra colui ch'Egli rispettava come padre terreno e l'Eterno Padre. Tale risposta stabili una disgiunzione, perché, pur non diminuendo in alcun modo il rispetto filiale ch'Egli riconosceva di dovere a Maria e a Giuseppe, tant'è vero che immediatamente tornò a loro sottomesso, li pose decisamente in secondo piano.  

Sono codeste le prime parole che i Vangeli registrino di Gesù, e vengono pronunziate in forma interrogativa:  «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo attendere a ciò che riguarda il Padre mio?» (Luca 2: 49)  

C'è qui un palese riferimento alle parole di Maria: «Tuo padre e io». Nel dire che Sua madre avrebbe dovuto sapere ch'Egli attendeva a quanto riguardava il Padre Suo, si riferiva evidentemente a quanto le era stato rivelato all'atto dell'Annunciazione, allorché l'Angelo le aveva detto:  «Lo Spirito Santo scenderà in te, e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra, e perciò il santo che nascerà da te sarà chiamato figlio di Dio» (Luca 1: 35)  

Sul tema dei rapporti di parentela con la madre sarebbe tornato in occasione delle nozze di Cana; ora aveva stabilito la natura dei rapporti di parentela col padre adottivo. E cioè: aveva disconosciuto la paternità fisica, affermando, per Sé, la Paternità Divina, quella del Padre Suo Celeste. A Cana, avrebbe detto alla madre:  «Che [importa] a me e a te, o donna?» (Giov. 2: 24)  

Allora avrebbe inteso parlare di una maternità ben diversa da quella della carne, così come ora aveva alluso a una paternità ben diversa da quella esercitata da Giuseppe. Né di Giuseppe si farà mai più cenno nei Vangeli.  

Al tempio, Nostro Signore si sottrasse al diritto del padre adottivo, allo stesso modo che più tardi, a Cana, si sarebbe sottratto ai diritti della madre. Il Suo supremo fine era d'essere un Salvatore, il che tuttavia comportava, per il momento, l'obbedienza ai Suoi custodi terreni. Il Fanciullo si riferiva a una realtà storica di cui la madre e il padre adottivo sarebbero dovuti essere a conoscenza, una realtà che giustificava la Sua presenza in quel luogo e quindi escludeva qualsiasi motivo di ansietà loro nei confronti Suoi. Questa la ragione per cui domandò: «Perché mi cercavate?»; questa la ragione per cui aggiunse: «Non sapete che io devo attendere a ciò che riguarda il Padre mio?» Con ciò, insomma, intendeva dire che appunto li, nel tempio del Padre Suo, Egli doveva essere. E fu quello il primo dei molti «devo» che il Nostro Signor Benedetto avrebbe pronunziati nel corso della Sua vita ad indicare che aveva accettato una missione, che obbediva all'ordine di costituire un riscatto. Il fatto stesso ch'Egli associasse la parola «devo» al Padre Suo Celeste significava che la Sua condizione di Figlio implicava obbedienza. A dodici anni, Egli s'imponeva ciò che alla Sua natura umana avrebbe recato sofferenza, ma l'intera natura Sua tendeva al compimento di un «devo» divino.  

Se c'è qualcosa che dissipa l'erronea credenza che la Sua consapevolezza dell'unità col Padre si sia sviluppata gradatamente, è appunto questa scrittura, dalla quale risulta come Egli, fanciullo dodicenne, accennasse alla Propria misteriosa origine e alla natura meramente putativa del padre, nonché alla piena coscienza d'esser tutt'uno con la Divinità. Già Egli, insomma, si rendeva perfettamente conto delle divine costrizioni che signoreggiavano la Sua vita. E più volte adoperò la parola «devo».  

Devo predicare il Regno di Dio.  Devo dimorare nella tua casa.  Devo attendere all'opera di Colui che mi ha mandato. Molte sono le cose che il Figlio dell'Uomo deve patire. Il Figlio dell'Uomo dev'essere innalzato.  Il Figlio dell'Uomo deve soffrire per partecipare della gloria di Dio.  Il Figlio dell'Uomo deve risorgere.  

Parlava sempre come un esecutore d'ordini. Pur libero dalle coercizioni dell'eredità, delle circostanze o della famiglia, questo Fanciullo di dodici anni disse di esser vincolato da un incarico celeste, epperò aveva domandato perché mai Lo cercassero, stupito che ad essi occorresse una qualche altra spiegazione, che non fosse quella ch'Egli obbediva alla volontà del Padre Suo. L'imperativo dell'Amor Divino si manifestò in quel «devo». Non c'era una differenza sostanziale tra il Fanciullo nel tempio e l'Uomo che avrebbe detto di «dover essere innalzato» sulla Croce. Egli sarebbe dovuto morire per amor di salvezza: la Sua filiale obbedienza al Padre coincideva con la Sua pietà per gli uomini. Ma non sarebbe stata una tragedia, «perché il Figlio dell'Uomo sarebbe risorto dopo tre giorni». Alle menti umane il Suo disegno si rivelò per gradi, ma nella Sua mente non si produsse una rivelazione graduale, un intendimento nuovo, della ragione della Sua venuta.  

L'attendere per tre giorni nel tempio a ciò che riguardava il Padre Suo non differiva in alcun modo dall'attendere per tre giorni nel sepolcro a ciò che riguardava il Padre Suo. Come tutti gli altri episodi della Sua infanzia, anche questo testimoniò della Missione della Croce. Tutti gli uomini nascono per vivere: Egli era nato per adempiere l'incarico del Padre, ossia morire e, pertanto, salvare. Queste Sue parole, le prime di cui si abbia testimonianza, somigliano le gemme di un fior di passione: la Domenica di Pasqua Maria Lo avrebbe ritrovato nel tempio, nel tempio del Suo Corpo glorificato.  

Già la spada si avvicinava a Maria, ancor prima che la Croce al Figlio, perché ella sentiva già il taglio della separazione. Sulla Croce, nella Sua natura umana, Egli avrebbe pronunziato il grido della Sua suprema angoscia: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», ma Maria lo pronunziò quando Egli era ancora un fanciullo, smarrito nel tempio. Delle pene dell'anima, le più penetranti sono quelle imposte da Dio, in quanto Gesù impose quelle alla madre Sua. Solo esternamente le creature possono ferirsi a vicenda, ma la fiamma purificatrice di Dio può entrare nelle loro anime come una spada dal duplice taglio. Entrambe le nature di Lui rivelavano a lei com'ella dovesse prepararsi alla vita dolorosa del Figlio: la Sua natura umana, celando a lei per quei tre giorni, o, meglio, per quelle tre notti, la soavità del Suo Volto; la Sua Natura Divina, proclamando che il Padre Lo aveva mandato sulla terra per assolvere un compito celeste: quello di aprire il cielo all'umanità pagando il debito contratto dagli umani peccati. 

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN

mercoledì 25 novembre 2020

VITA DI CRISTO

 

I Magi e la strage degli innocenti  

Simeone aveva predetto che il Divino Infante sarebbe stato una Luce per i Gentili. I quali erano già in cammino. Alla Sua nascita, c'erano stati i Magi, ovvero i dotti dell'Oriente; alla Sua morte, ci sarebbero stati i Greci, ovvero i filosofi dell'Occidente. Il Salmista aveva predetto che i re dell'Oriente sarebbero venuti a rendere omaggio a Emanuele. Seguendo una stella, essi si recarono difatti a Gerusalemme per chiedere ad Erode dove fosse nato il Re.  

«Alcuni Magi, venuti dall'Oriente, giunsero a Gerusalemme e chiesero 'Dov'è il nato re dei Giudei? Perché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo'» (Matt. 2: 1,2)  

Fu una stella a guidarli. Ai Gentili Dio aveva parlato attraverso la natura e i filosofi; agli Ebrei, attraverso le profezie. Il tempo era maturo per la venuta del Messia, e il mondo intero lo sapeva. Sebbene astrologhi, l'esile traccia di verità presente nella scienza loro delle stelle li condusse alla Stella secondo il percorso seguito da Giacobbe, allo stesso modo che più tardi il «Dio Ignoto» degli Ateniesi avrebbe fornito a Paolo l'occasione di predicar loro il Dio che quelli non conoscevano ma vagamente desideravano. Quantunque provenissero da un paese in cui vigeva l'adorazione delle stelle, cessarono dalla pratica di tale religione, in quanto si prosternarono e adorarono Colui che aveva creato le stelle. A compimento delle profezie di Isaia e di Geremia, i Gentili «vennero a Lui dagli estremi limiti della terra». La Stella, ch'era scomparsa mentre essi interrogavano Erode, riapparve, e definitivamente si fermò sopra il luogo ov'era nato il Bambino.  

«Vedendo la stella, provarono una grandissima gioia; ed entrati nella casa, trovarono il bambino con Maria, sua madre, e, prosternatisi, l'adorarono. Aperti poi i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Matt. 2: 10,11)  

E Isaia aveva profetato:  «Un'onda di cammelli ti coprirà, i dromedari di Madian e di Efa; verranno tutti quei di Saba recando oro e incenso e annunziando le lodi del Signore» (Isaia 60: 6). 

Tre doni recarono: l'oro per onorare la Sua Regalità, l'incenso per onorare la Sua Divinità, e la mirra per onorare la Sua Umanità, ch'era destinata alla morte. Per la Sua sepoltura si adoperò la mirra: la greppia e la Croce sono anche in questo senso congiunte tra loro in quanto in entrambe troviamo la mirra.  

Quando i Magi vennero dall'Oriente recando doni per il Bambino, Erode capì ch'era nato il Re chiaramente annunziato dai Giudei, e oscuramente si spaventò delle aspirazioni dei Gentili; sennonché, come tutti gli uomini dotati di sentimenti carnali, mancava di spiritualità, e si reputò quindi certo che quel Re fosse un re politico. E s'informò del luogo in cui Cristo era nato, e i principi dei sacerdoti e i dotti gli risposero: «A Betlemme, in Giudea, perché così è stato scritto dai profeti». Erode disse che avrebbe voluto recarsi ad adorare il Bambino, ma le sue azioni provarono le sue vere intenzioni: «Se questo è il Messia, bisogna che lo uccida». «Erode, vedendo che i Magi si erano presi gioco di lui, montò su tutte le furie e ordinò che in Betlemme e nei dintorni venissero uccisi tutti i bambini maschi» (Matt. 2: 16)  

Erode rimarrà nel tempo il prototipo di coloro che indagano sulla religione ma non agiscono mai come dovrebbero in base alla conoscenza che ne ricevono: simili agli annunziatoci dei treni, costoro conoscono tutte le stazioni, ma non viaggiano mai. Di niun valore è il massimo sapere ove non sia accompagnato dalla sottomissione e dalla volontà di operare rettamente.  

I totalitari si compiacciono d'affermare che il Cristianesimo è il nemico dello Stato: un eufemismo per dire che ad essi stessi è nemico. Erode fu il primo totalitario a pensarla così: vedeva un nemico in Cristo ancor prima che questi compisse i due anni. Ma poteva mai un Bambino nato in una caverna sotterranea scrollare i potentati e i re? Poteva mai Lui, che nel demos, o popolo che dir si voglia, non aveva ancora un séguito, essere un nemico pericoloso per il demos cratos, cioè per la democrazia, ossia per il governo del popolo? Nessun essere umano in si tenera età avrebbe mai potuto usar simile violenza a uno Stato. Lo zar, per esempio, non paventò Stalin, figlio d'un ciabattino, quando contava due anni: non esiliò il figlio del ciabattino, e la madre sua, per tema che un giorno quegli potesse costituire una minaccia per il mondo. Analogamente, nessuna spada pendette sul capo di Hitler bambino; né il governo cinese agì contro Mao Tse-tung quando questi era ancora in fasce, in quanto non paventò che un giorno costui potesse consegnar la Cina alla falce omicida. Perché dunque si ordinò alle guardie di agire contro quell'Infante? Dev'essere stato certamente per questo, che coloro che posseggono lo spirito del mondo celano un odio istintivo, una istintiva invidia per il Dio che regna sopra i cuori umani. L'odio che alla morte di Cristo il secondo Erode avrebbe dimostrato per Lui aveva avuto il suo prologo nell'odio che il padre suo Erode il Grande, aveva nutrito per Cristo Bambino.  

Erode paventava che Colui ch'era venuto a portare una corona celeste potesse rapirgli l'orpello: affermò di voler recar doni, ma il solo dono che voleva recare era la morte. Talvolta i malvagi nascondono i propri iniqui disegni sotto un'apparenza di religione: «Io sono religioso, ma ...» Per due ragioni gli uomini possono indagare su Cristo: o per adorare o per nuocere; e alcuni sarebbero fin disposti a servirsi della religione per tradurre in atto i loro iniqui disegni, al modo stesso che Erode si servi dei Magi. Le domande relative alla religione non producono in tutti i cuori i medesimi risultati. Ciò che gli uomini vogliono sapere circa la Divinità non è mai tanto importante quanto il motivo per cui vogliono saperlo.  

Prima che Cristo compisse i due anni, sangue si sparse per cagion Sua: e fu il primo attentato alla Sua vita. Una spada per il Bambino; sassi per l'Uomo; e la Croce finale. Così il Suo popolo stesso Lo accoglieva. Betlemme fu l'alba del Calvario. La legge del sacrificio che si sarebbe avvinghiata intorno a Lui e ai Suoi Apostoli, e a tanti dei Suoi seguaci nei secoli futuri, principiò a operare ghermendo quelle giovani vite che sono così felicemente commemorate nella Festa dei Santi Innocenti. Una croce per Pietro, uno spintone da un pinnacolo per Giacomo, un pugnale per Bartolomeo, una caldaia d'olio bollente seguita da una lunga attesa per Giovanni, una spada per Paolo, e molte spade per i bimbi innocenti di Betlemme. «Il mondo vi odierà,» promise Cristo a tutti coloro che recavano il segno del Suo sigillo. Quegli Innocenti morirono per il Re che non avevano mai conosciuto. Come agnellini, morirono per l'Agnello, prototipi di una lunga processione di màrtiri, quei bambini che non avevano mai lottato e che, nondimeno, sono stati incoronati. All'atto della circoncisione, Egli sparse il Proprio sangue: adesso la Sua venuta annunzia lo spargimento del sangue altrui per cagione Sua. Come la circoncisione era il segno dell'Antica Legge, così la persecuzione sarebbe stata il segno della Nuova Legge. «In mio nome,» Egli disse agli Apostoli, «sarete perseguitati». Tutto intorno a Lui parlava della Sua morte, perché essa era il fine della Sua venuta. La porta stessa che metteva nella stalla in cui Egli era nato fu contrassegnata col sangue, al medesimo modo delle soglie degli Ebrei in Egitto. Per Lui, in occasione della Pasqua, nei secoli trascorsi, avevano sanguinato gli agnelli innocenti; per Lui ora sanguinano, simili ad agnelli umani, i bimbi innocenti senza macchia. Ma Dio avvertì i Magi di non ritornare da Erode.  

«Se ne tornarono al loro paese seguendo un'altra via» (Matt. 2: 12)  

Nessuno di quelli che con buona volontà si sono recati incontro a Cristo han mai fatto ritorno per la stessa strada percorsa all'andata. Frustrato nel disegno di uccidere il Divino, l'irato tiranno ordinò la strage indiscriminata di tutti i bambini maschi al di sotto dei due anni. C'è più d'un modo per praticare il controllo delle nascite.  

Maria era già preparata ad una Croce nel corso della vita del suo Piccino, al contrario di Giuseppe, che, partendo da un grado inferiore di conoscenza, abbisognò della rivelazione d'un angelo, che gli dicesse di condurre in Egitto il Bambino e la madre Sua.  

«Lèvati, prendi il bambino e la madre sua e fuggi in Egitto. Ivi ti fermerai finché io non ti avvisi, perché Erode cercherà il bambino per ucciderlo. Giuseppe si alzò e, preso di notte tempo il bambino e la di lui madre, riparò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Matt. 2: 13-15)  

All'esilio doveva essere condannato il Salvatore, ché altrimenti gli innumerevoli esuli dai paesi perseguitati mancherebbero di un Dio comprensivo della pena di quanti non hanno tetto e volgono in precipitosa fuga. Con la Sua presenza in Egitto, l'Infante Salvatore consacrò una terra che del popolo Suo stesso era stata la tradizionale nemica, dando in tal modo a sperar bene a quegli altri paesi che più tardi Lo avrebbero scacciato. Si diè quindi un Esodo al rovescio, perché il Divin Bambino fece dell'Egitto la Sua dimora temporanea. Al modo che aveva cantato Miriam, cantava adesso Maria, mentre un secondo Giuseppe vigilava sul Pane di Vita del quale avevano fame i cuori umani. L'assassinio degli innocenti ordinato da Erode rievoca la strage dei fanciulli ebrei ordinata dal Faraone; e ciò che accadde alla morte di Erode rievocò l'Esodo originario. Allorché Erode il Grande venne a morire, un angelo stabili il cammino di Giuseppe, comandandogli di tornare in Galilea; dove quegli andò e prese dimora perché si compisse ciò ch’era stato detto dai profeti:  «Egli sarà chiamato Nazareno».  

«Quando ebbero adempite le prescrizioni della legge del Signore, se ne tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret» (Luca 2: 39)  

Il termine «Nazareno» stava a significare dispregio. Quel villaggetto sito ai piedi dei monti si trovava lontano dalle strade maestre: annidato com' era in una conca collinosa, era tagliato fuori dalle vie percorse dai mercanti greci, dalle legioni romane, dai viaggiatori del bel mondo. Non è neppure menzionato nelle antiche carte geografiche. Meritava quel nome, perché non era che un «rampollo», un germoglio cresciuto sul ceppo d'un albero: alcuni secoli prima, difatti, Isaia aveva predetto che un «ramo», o «germoglio», o «rampollo» sarebbe spuntato dalle radici di quella terra, e che, misero sarebbe parso, e che da molti sarebbe stato disprezzato, e che, tuttavia, infine avrebbe dominato il mondo. Il fatto che Cristo fissasse la Sua residenza in un villaggio tenuto in tanto dispregio stava a prefigurare l'oscurità e l'ignominia che avrebbero poi vessato Lui e i Suoi discepoli: sopra il Suo Capo, sul «segno di contraddizione», sarebbe stata inchiodata la parola «Nazaret», a significare il dileggiante ripudio delle Sue asserzioni. Prima, allorché Filippo aveva detto a Natanaele:  «Abbiamo trovato colui di cui scrissero Mosè nella Legge, e i profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazaret» (Giov. 1: 45)  

Natanaele aveva ribattuto:  «Può mai venir qualcosa di buono da Nazaret? (Giov. 1: 46)  

Si crede talvolta che le grandi città racchiudano tutto lo scibile umano, mentre i paesini sono considerati retrogradi e incivili. Cristo scelse per la gloria della Sua nascita l'insignificante Betlemme, per la Sua adolescenza la schernita Nazaret, ma per l'ignominia della Sua morte la gloriosa, cosmopolita Gerusalemme. «Può mai venir qualcosa di buono da Nazaret?» non è che il preludio a «Può mai venire una qualche redenzione da un uomo che muore su una croce?» Nazaret fu per Lui un luogo d'umiliazione, una palestra per il Golgota. Si trovava in Galilea, Nazaret, e la Galilea tutta era una regione spregevole agli occhi del ben più progredito popolo di Giudea. La parlata galilea era considerata aspra e rozza, tanto che quando Pietro rinnegò Nostro Signore la serva gli fece notare che appunto la sua pronunzia lo aveva tradito: sì, egli era stato col Galileo. Nessuno si sarebbe quindi mai sognato di guardare alla Galilea come a una fonte d'insegnamento; eppure, il Galileo era la Luce del Mondo. Perché Dio sceglie quanto v'è di più misero su questa terra per confondere i presuntuosi e gli orgogliosi. Natanaele, pertanto, non fece che esprimere lo stolto pregiudizio, antico quanto il genere umano, che le persone vengono giudicate più o meno capaci d'insegnare alcunché a seconda dei rispettivi luoghi di origine. La sapienza terrena proviene di là dove sempre l'aspettiamo: i successi librari, i «fari di conoscenza», le università; mentre la Sapienza Divina proviene da sorgenti insospettate, che il mondo deride. L'ignominia di Nazaret Lo avrebbe, in séguito, perseguitato, ché i Suoi ascoltatori lo avrebbero così schernito: «Come mai costui sa di lettere se non ha mai studiato?» (Giov. 7: 15)  

Il che non significava soltanto la riluttanza a dar credito al Suo sapere, ma anche un modo di farsi beffe del Suo «retrogrado» villaggio ... Com'era infatti possibile ch'Egli sapesse? Non sospettavano, coloro, la verità: cioè che, oltre al sapere proprio al Suo intelletto umano, Egli possedeva una Sapienza che non era di origine scolastica, né didattica, e neppure d'ispirazione divina, nel senso dell'ispirazione divina dei profeti. Dalla madre Sua Egli aveva appreso, e dalla sinagoga del villaggio; ma i segreti del Suo sapere andavano ricercati nell'identità Sua col Padre ch'è nei Cieli.  

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN 

mercoledì 14 ottobre 2020

VITA DI CRISTO

 


La presentazione al tempio 

A Betlemme, Egli era stato un esule; durante la circoncisione, un precoce Salvatore; e adesso, a séguito della presentazione al tempio, divenne un segno di contraddizione.  

Come Gesù era stato circonciso, così Maria era stata purificata, sebbene Egli non avesse bisogno della circoncisione perché era Dio, ed ella non avesse bisogno della purificazione perché era stata concepita senza peccato.  

«Quando poi furono compiuti i giorni della di lei purificazione secondo la legge di Mosè, lo portarono a Gerusalemme per presentarlo al Signore» (Luca 2: 22)  

La realtà del peccato nella natura umana è sottolineata non solo dalla necessità di patir dolore durante la circoncisione al fine di espiare il peccato stesso, ma anche dalla necessità della purificazione. Fin da quando Israele era stato liberato dalla servitù egiziana, fin da quando era stato ucciso il primogenito d'ogni egiziano, il primogenito degli Ebrei era stato sempre riguardato come da consacrarsi al Signore.  

Quaranta giorni dopo la Sua nascita, ch'era il tempo fissato per un maschio in obbedienza alla Legge, Gesù venne portato al tempio. Il Libro dell'Esodo aveva decretato che ogni primogenito apparteneva al Signore; nel Libro dei Numeri si legge che i maschi della tribù di Levi erano stati scelti per il servizio sacerdotale, e codesta consacrazione sacerdotale era intesa in sostituzione del sacrificio del primogenito, rito peraltro non mai praticato. Ma quando il Divino Infante fu portato al tempio da Maria, la legge della consacrazione del primogenito venne pienamente osservata, perché assoluta fu la consacrazione del Bambino al Padre, e Lo avrebbe condotto alla Croce.  

Troviamo qui un altro esempio di come Dio in forma di uomo partecipasse della povertà del genere umano.  

Le offerte tradizionali in occasione della purificazione erano un agnello e una tortora se i genitori erano ricchi, e due tortore o due piccioni se i genitori erano poveri. Orbene, la madre che aveva messo al mondo l'Agnello di Dio non aveva alcun agnello da offrire, tranne l'Agnello di Dio. All'età di quaranta giorni Dio venne presentato al tempio: dopo trent'anni circa avrebbe rivendicato il tempio e se ne sarebbe servito come del simbolo del Suo Corpo nel quale dimorava la pienezza della Divinità.  

Non soltanto il Primogenito di Maria veniva presentato al tempio, ma anche il Primogenito dell'Eterno Padre. In quanto che era l'Unigenito del Padre, veniva ora presentato come Il Primogenito di un'umanità rigenerata. In Lui principiava una nuova stirpe. Il carattere dell'uomo ch'era nel tempio, e il cui nome era Simeone, è descritto con queste semplici parole:  «Persona giusta e pia, che attendeva la consolazione d'Israele» (Luca 2: 25)  

Lo Spirito Santo gli aveva rivelato:  «ch'egli non sarebbe morto prima di vedere il Cristo del Signore» (Luca 2: 26)  

Le sue parole sembrano significare che alla vista di Cristo l'afflizione della morte scompare subito. Preso fra le braccia il Bambino, ricolmo di letizia il vecchio infatti esclamò:  «Ora, o Signore, concedi pure che il tuo servo se ne vada in pace, secondo la tua parola, perché gli occhi miei hanno visto la tua salute, da te preparata al cospetto di tutti i popoli: luce per illuminare le nazioni e gloria del popolo d'Israele» (Luca 2: 29-32)  

Simile a una sentinella era Simeone, inviata da Dio per spiare il momento dell'apparizione della Luce; e quando finalmente la Luce apparve, egli fu pronto a cantare il Nunc dimittis. In un Bambino povero portato da gente povera di cui povera era l'offerta, Simeone scoprì la ricchezza del mondo. Nel prendere fra le braccia il Bambino, codesto vegliardo non somigliava ai vecchi di cui paria Orazio, ché non indietro egli guardò, ma innanzi a sé, e non solamente al futuro del proprio popolo ma anche a quello di tutti i Gentili d'ogni tribù e nazione della terra. Un vecchio al tramonto della propria esistenza parlò del mattino del mondo; nella sera della vita, descrisse la promessa di un nuovo giorno. E ora che in virtù della fede aveva visto il Messia, i suoi occhi potevano pur chiudersi, ché nulla di più bello ormai avrebbero potuto mirare. Alcuni fiori si aprono solo la sera. Ciò ch'egli adesso aveva visto era la «Salvezza», e non già la salvezza dalla povertà, ma la salvezza dal peccato.  

L'inno di Simeone fu un atto di adorazione. Tre sono gli atti di adorazione, dei quali si abbia conoscenza, compiuti nei primi giorni di vita del Divino Infante: adorarono i pastori, adorarono Simeone e Anna la profetessa, adorarono i pagani Re Magi. Il canto di Simeone fu come un tramonto in cui un'ombra annunzi una sostanza reale, e fu il primo inno d'uomo nella vita di Cristo. Eppure, mentre si rivolse a Maria e a Giuseppe, Simeone non si rivolse al Bambino, ché sarebbe stato disdicevole ch'egli desse la propria benedizione al Figlio dell'Altissimo, e perciò benedisse loro, ma non benedisse il Bambino.  

Però, dopo l'inno di Lode, Simeone si rivolse solo alla madre, perché sapeva che lei, e non Giuseppe, aveva vincoli di parentela col Bimbo ch'egli teneva fra le braccia; e vide inoltre che per lei, e non per Giuseppe, erano in serbo i dolori. Disse dunque Simeone:  «Questo bambino è destinato ad esser causa di rovina e di risurrezione di molti in Israele, e a diventare un segno di contraddizione» (Luca 2: 34)  

Era come se la storia tutta del Divino Infante si svolgesse innanzi agli occhi del vecchio, ché ogni particolare di quella profezia si sarebbe compiuto durante la vita del Bambino. C'era, in quelle parole, un senso profondo della Croce, delineata ancor prima che le braccine del Bimbo potessero distendersi al punto di produrre la forma d'una Croce. Un terribile conflitto il Bambino avrebbe creato tra il bene e il male, strappando loro le maschere e provocando quindi una inimicizia tremenda; una pietra d'inciampo Egli sarebbe stato e, al tempo stesso, una spada separatrice del male dal bene, e una pietra di paragone rivelatrice dei moventi e delle indoli dei cuori umani. E gli uomini non sarebbero più stati gli stessi, una volta che avessero udito il Suo nome e conosciuto la Sua vita: sarebbero stati costretti ad accettarLo, oppure a respingerLo, ché nessun compromesso nei Suoi confronti si sarebbe dato: nient' altro che l'accettazione o il rifiuto, la risurrezione o la morte. Per la Sua natura stessa, Egli avrebbe mosso gli uomini a rivelare i rispettivi atteggiamenti intimi nei riguardi di Dio; ma la Sua missione non era di mettere le anime alla prova, bensì di redimerle; e tuttavia alcuni uomini, perché avevano anime peccaminose, avrebbero avuto in orrore il Suo avvento. Affrontare la fanatica opposizione dell'umanità sarebbe stato.  

D'ora innanzi, il Suo destino, dal che atroci angustie sarebbero venute a Maria. «Tu sei benedetta tra le donne,» le aveva detto l'angelo, e ora Simeone le diceva che, perché benedetta, ella sarebbe stata la Mater Dolorosa. Uno dei castighi del peccato originale era che la donna avrebbe partorito con dolore; e ora Simeone le diceva ch'ella avrebbe continuato a vivere nel dolore del Figlio suo.  

Poiché Egli sarebbe stato l'Uomo dei Dolori, ella sarebbe stata la Madre dei Dolori. Una Madonna senz'angoscia per il Cristo angosciato sarebbe stata una Madonna vuota d'amore. Poiché a tal punto amò gli uomini da voler morire per espiarne la colpa, Cristo volle che anche la madre Sua venisse avvolta nelle fasce del patimento da Lui vissuto.  

Dal momento che aveva udito le parole di Simeone, mai più ella avrebbe sollevato le mani del Bambino senza vedervi l'ombra dei chiodi; e ogni tramonto sarebbe stato un'immagine rosso sangue della di Lui Passione. Simeone aveva gettato via il fodero che agli occhi degli umani celava il futuro, e fatto balenare dinanzi agli occhi di lei la lama del dolore del mondo; talché ogni battito ch'ella avesse sentito di quei minuscoli polsi avrebbe somigliato l'eco d'un persistente martello.  

Poiché alla salvezza Egli si consacrava traverso la sofferenza, anch'ella avrebbe a tal fine sofferto. Appena varata era quella giovane vita, e già Simeone, come un vecchio marinaio, parlava di naufragio: l'amaro calice del Padre non si era ancora accostato alle labbra dell'Infante, e già una spada veniva mostrata alla madre.  

Via via che Cristo si avvicina ad un cuore, maggior coscienza questo prende delle proprie colpe e, pertanto, o Gli chiederà misericordia, e troverà quindi la pace, oppure contro di Lui si volgerà perché non ancora disposto a cessare dall'iniquità. Ond'Egli separerà i buoni dai malvagi, il grano dalla pula. Il modo come gli uomini reagiranno alla Presenza divina costituirà la prova: o essi faranno appello a tutti i mezzi che le nature egotistiche han da contrapporle, oppure si galvanizzeranno in un atto di rigenerazione e di risurrezione. Era come se Simeone avesse definito Cristo il «Divino Disturbatore», il quale avrebbe provocato i cuori degli umani a operare o il bene o il male. Una volta al Suo cospetto, gli uomini devono infatti decidersi o per la luce o per le tenebre; dinanzi a chiunque altro possono far mostra di «spregiudicatezza», ma la Presenza Sua ne denuda i cuori, ond'essi sono indotti alla scelta: terreni fertili, o aride rocce. Ai cuori Egli non può avvicinarsi se non illuminandoli e separandoli, sicché, una volta al Suo cospetto, essi rivelano il proprio intimo sentire e nei confronti della bontà nei confronti di Dio.  

Il che non potrebbe mai accadere se Egli non fosse che un maestro di dottrine umanitarie; e ben lo sapeva Simeone, e perciò alla madre di Nostro Signore disse che il Figlio suo avrebbe dovuto soffrire perché energicamente la Sua vita avrebbe contraddetto le compiacenti massime con cui la maggior parte degli uomini governa la propria esistenza. In un'anima Egli avrebbe agito ad un modo, in un'altra ad un altro modo, come il sole che quando splende sulla cera l'ammorbidisce, e quando splende sul fango l'indurisce. Non v'è nel sole differenza di sorta: differenti sono bensì unicamente gli oggetti su cui splende il sole. In quanto Luce del Mondo, Egli avrebbe rallegrato i buoni e coloro che avessero amato la luce; per contro, con i malvagi e con coloro che avessero preferito vivere nelle tenebre, sarebbe stato come un riflettore acceso a scandagliare. Il seme è il medesimo, ma differiscono i suoli, e ogni suolo verrà giudicato dal modo come avrà reagito al seme. La volontà salvatrice di Cristo è limitata dalla libera reazione di ogni anima, cui è dato di scegliere tra l'accettazione e il rifiuto. E ciò appunto Simeone voleva significare quando disse:  «E così saranno rivelati i pensieri di molti cuori» (Luca 2: 35)  

Una fiaba orientale narra di uno specchio magico che si serbava limpido quando lo rimiravano i buoni, e si appannava quando lo osservavano gli impuri, sicché il proprietario poteva sempre dire quale fosse l'indole di quanti lo adoperavano. Orbene, Simeone disse a quella madre che il Figlio sarebbe stato come quello specchio: gli uomini Lo avrebbero amato oppure odiato, a seconda dei propri riflessi. Un raggio di luce che cada su di una lastra fotografica sensibile produce un mutamento chimico di cui non si può cancellar la traccia, e Simeone aveva detto che la Luce di quel Bambino cadendo sugli Ebrei e sui Gentili avrebbe impresso su ciascuno d'essi l'incancellabile vestigio della sua presenza. Aveva anche detto, Simeone, che il Bambino avrebbe svelato le intime e vere disposizioni degli uomini e cimentato i pensieri di chiunque Lo avesse avvicinato: Pilato avrebbe temporeggiato e poi dato prova di debolezza; Erode Lo avrebbe schernito; Giuda avrebbe fatto leva su una sorta di avida sicurtà sociale; Nicodemo avrebbe brancolato nelle tenebre per trovare la Luce; i collettori delle imposte sarebbero diventati onesti; e le prostitute sarebbero diventate pure; i giovani ricchi avrebbero respinto la Sua povertà; i prodighi sarebbero tornati a casa; Pietro si sarebbe pentito; un Apostolo si sarebbe impiccato. Da quel giorno in poi, Egli avrebbe continuato ad essere un segno di contraddizione, epperò era giusto che morisse su un pezzo di legno composto di due sbarre di cui l'una contraddiceva l'altra. La sbarra verticale della volontà di Dio è negata dalla sbarra orizzontale della contrastante volontà umana. Come la circoncisione stava a simboleggiare il sangue ch'Egli avrebbe versato, così la Purificazione prefigurava la Crocifissione.  

Dopo aver detto ch'Egli era un segno di contraddizione, Simeone si volse alla madre, aggiungendo:  «A te stessa una spada trapasserà l'anima» (Luca 2: 35)  

Cosicché non le disse solamente ch'Egli sarebbe stato respinto dal mondo, ma anche che alla Crocifissione di Lui si sarebbe accompagnata la trafittura di lei. Come per Sé il Bambino aveva voluto la Croce, così per lei aveva voluto la Spada del Dolore. Se aveva deciso d'esser l'Uomo dei Dolori, aveva anche deciso ch'ella fosse la Madre dei Dolori! Non sempre Dio risparmia afflizioni ai buoni: il Padre non risparmiò il Figlio, e il Figlio non risparmiò la madre: alla di Lui Passione doveva accompagnarsi la di lei compassione. Un Cristo che non avesse sofferto, che non avesse spontaneamente pagato il debito dell'umana colpa, si sarebbe ridotto al livello d'una guida moraleggiante; e una madre che non si fosse resa partecipe delle sofferenze di Lui non sarebbe stata degna del suo grande compito.  

Non si limitò, Simeone, a farle scintillare una spada innanzi agli occhi: le disse anche dove la Provvidenza aveva destinato che fosse conficcata. In séguito, il Bambino avrebbe detto: «Sono venuto a recare la spada». Simeone le disse ch'ella l'avrebbe sentita nel cuore mentre il Figlio pendeva dal segno di contraddizione ai cui piedi ella stava, trafitta dal dolore: la lancia che avrebbe, materialmente, trapassato il cuore di Lui avrebbe, misticamente, attraversato il cuore di lei. 

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN