sabato 27 marzo 2021

VITA DI CRISTO

 


Nazaret  

È questo l'unico episodio della Sua fanciullezza del quale parlino le Scritture. Per altri diciotto anni Egli dimorò a Nazaret.  

«Discese con essi e tornò a Nazaret e stava soggetto a loro. Sua madre custodiva nel cuore tutte queste cose, mentre Gesù cresceva in sapienza, età e grazia dinanzi a Dio e agli uomini» (Luca 2: 51, 52)  

Se c'era un Figlio dal quale sarebbe stato lecito aspettarsi la pretesa all'indipendenza personale (specie dopo la Sua vigorosa asserzione nel tempio), era Lui; e invece, per santificare ed esemplificare l'obbedienza umana, e compensare la disobbedienza degli uomini, Egli visse sotto un umile tetto, e sottomesso ai genitori. Per diciotto anni trascorsi senza avvenimenti degni di nota, rimise in sesto i tetti diruti delle case nazarene e riparò i carri degli agricoltori: non c'era bisogna, non c'era compito, per quanto umile, che non facesse parte degli interessi del Padre. 

Quanto alla crescita umana del Dio-uomo, così naturalmente si compiva nel villaggio che neppure i Suoi conterranei avevano coscienza della grandezza di Colui che dimorava fra loro. Era in verità una «decrescita», nel senso ch'Egli rinnegava, abnegava Se stesso per sottomettersi alle Proprie creature. Faceva, si vede, il mestiere del falegname, perché, diciotto anni dopo, i Suoi conterranei avrebbero domandato:  «Non è questi il falegname il figlio di Maria?» (Marco 6: 3)  

Giustino martire, basandosi sulla tradizione, dice che durante quel tempo Nostro Signore fabbricò aratri e gioghi e insegnò agli uomini, attraverso il Suo tranquillo mestiere, la rettitudine.  

Allorché del Divin Fanciullo si dice che cresceva in sapienza, non si vuol intendere, come s'è visto, che in Lui crescesse la consapevolezza della Divinità. In quanto uomo, era soggetto a tutte le leggi che regolano la crescita umana; e perché aveva una mente ed una volontà umane, era naturale che codeste facoltà si sviluppassero in maniera umana.  

Va particolarmente notata, per quanto riguarda il progresso delle sue cognizioni sperimentali, l'influenza di quanti Lo circondavano. E difatti, molte delle immagini da Lui adoperate nelle parabole sono tolte in prestito al mondo in cui era vissuto. Per l'influenza dei genitori Egli apprese la corrente lingua aramaica e, non v'è dubbio, anche quella, liturgica, ebraica; e, molto probabilmente, imparò il greco, che si parlava abbastanza in Galilea ed era anche, per quanto si sa, la lingua di almeno due dei Suoi parenti: Giacomo il Minore e Giuda, che dopo scrissero in greco le loro Epistole.  

Apprese altresì il mestiere di falegname, che implicava un ulteriore sviluppo delle doti intellettive umane; e, più tardi, si meritò il titolo di Rabbi per la Sua profonda conoscenza delle Scritture e della Legge. Sovente cominciava le discussioni con le parole «Non avete letto», provando così la conoscenza che aveva delle Scritture. La famiglia, la sinagoga, l'ambiente, la natura stessa: tutto contribuiva un poco alla sua intelligenza e volontà. Perché Egli aveva sia un 'intelligenza umana che una volontà umana. Senza la prima, non sarebbe potuto crescere nell'umano sapere sperimentale; senza la seconda, non avrebbe potuto obbedire a un più alto volere. Entrambe, inoltre, Gli erano essenziali in quanto uomo. E in quanto uomo fruiva del sapere creato; in quanto Dio, trascendeva il sapere umano. È quel che Giovanni rappresenta con la parola «Verbo», che significa la Sapienza o il Pensiero o l'Intelligenza di Dio.  

«Il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ... Tutto per mezzo di lui è stato fatto e senza di lui non è stato fatto nulla di ciò ch'è stato fatto ... Il Verbo si è fatto carne, ed abitò tra noi» (Giov. 1: 1,3,14)  

Gli intimi rapporti ch'Egli aveva col Padre Suo nei cieli non erano solo quelli che si producevano dalla preghiera e dalla meditazione, ché questi può stabilirli qualsiasi essere umano. Si producevano bensì dall'identità della Sua natura con la Divinità.  

Poiché tra gli uomini il peccato più diffuso è l'orgoglio, ossia l'esaltazione dell'ego, si capisce come Cristo, per espiare l'orgoglio, dovesse praticare l'obbedienza. Egli non era di quelli che obbediscono per gratitudine, o allo scopo di foggiare il proprio carattere; è vero invece che, essendo Egli il Figlio, già pienamente si allietava dell'amore del Padre; e in virtù appunto di tale pienezza si profondeva in Lui un fanciullesco desiderio di arrendersi alla volontà del Padre. Tale la ragione ch'Egli diede della resa Sua alla Croce. Un'ora prima all'incirca di entrare in agonia nell'Orto, avrebbe detto:  «Perché il mondo deve sapere che io amo il Padre e che opero come il Padre mi ha ordinato» (Giov. 14:31)  

I soli atti della fanciullezza di Cristo dei quali si abbia testimonianza sono atti di obbedienza: obbedienza al Padre Celeste e ai genitori terreni. Il fondamento dell'obbedienza all'uomo, Egli insegnò, è l'obbedienza a Dio.  

Agli anziani che non onorano Dio capita di non essere onorati dai giovani. L'intera Sua vita fu sottomissione: si sottopose al battesimo di Giovanni, quantunque non ne abbisognasse; si assoggettò a pagare il tributo al tempio, sebbene, come Figlio del Padre, ne andasse esente; e ai Suoi stessi discepoli comandò di sottomettersi a Cesare. Il Calvario proiettò la sua ombra su Betlemme, allo stesso modo che ora oscurava gli anni di obbedienza ch’Egli trascorreva a Nazaret. Assoggettandosi alle creature, benché fosse Dio, si preparava all'obbedienza finale: a obbedire, cioè, all'umiliazione della Croce.  

Per diciotto anni, dopo ch’era andato smarrito nel tempio, Colui che aveva creato l'universo si assunse la parte d'un falegname di villaggio, d'un artigiano del legno. I chiodi e le traverse a Lui familiari nella bottega sarebbero diventati poi gli strumenti della Sua tortura, ed Egli stesso sarebbe stato inchiodato a un albero. C'è da domandarsi il perché di una così lunga preparazione per un breve ministero di tre anni, e la ragione potrebbe essere benissimo questa: ch’Egli aspettava che la natura umana da Lui assunta crescesse in età fino a raggiungere la perfezione, così che al Padre Suo Celeste potesse offrire allora il sacrificio perfetto. Al modo stesso che gli agricoltori attendono che il grano sia maturo prima di mieterlo e sottoporlo alla macina, Egli attendeva che la Sua natura umana raggiungesse le proporzioni più perfette e il sommo della bellezza, prima di consegnarla al martello dei crocifissori e alla falce di coloro che avrebbero mietuto il Pane Celeste di Vita. L'agnello neonato non veniva mai offerto in sacrificio, né è il primo rossore d'una rosa recisa a pagare il tributo a un amico. Ogni cosa ha la sua ora di perfezione. E giacché Egli era l'Agnello che poteva stabilire l'ora del proprio sacrificio, giacché era la Rosa che poteva scegliere il momento della propria recisione, attendeva paziente, umile e obbediente, mentre cresceva in età e in grazia e in sapienza dinanzi a Dio e agli uomini. Poi avrebbe detto: «Questa è la vostra ora». E il grano di prima scelta e il vino più rosso sarebbero allora diventati gli elementi più preziosi del sacrificio. 

Mons. Fulton J. Sheen

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