mercoledì 31 marzo 2021

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE

 


IL DIPLOMATICO

Altre questioni più difficili, che interessavano direttamente il papato, attirarono l'attenzione di Pio V. San Carlo Borromeo operava con grande zelo delle urgenti riforme nella sua Milano. Disturbati nella loro vita comoda, i malcontenti spuntarono da ogni parte, e, assecondati da qualche ecclesiastico, divennero arroganti contro il loro arcivescovo. 

   Avendo il cardinale dato ordine al capitano dei suoi agenti di incarcerare alcuni individui sospetti e pericolosi, scoppiò una vera sedizione; l'autorità civile, sobillata dai ribelli, fece a sua volta arrestare il capitano, gli inflisse in punizione pubblica “tre tratti corda”, e lo fece bandire da Milano. L'arcivescovo, per vendicare l'offesa recata alla sua giurisdizione, scomunicò gli ufficiali e i procuratori che si erano immischiati in quella brutta faccenda, e rimise l'affare alla Santa Sede. 

   Il duca di Albuquerque, governatore della città, s'affrettò a informare il suo sovrano Filippo Il. Quindi, nell'ottobre del 1567, spedì a Roma il senatore Gian Paolo Chiesa con l'ordine di colorire abilmente la questione, di insinuare nell'animo del Pontefice sospetti sull'assolutismo del Borromeo, e ottenere se non un biasimo formale sull' operato del cardinale, almeno una parola ufficiosa che lasciasse trapelare qualche segno di disapprovazione per l'arcivescovo, e qualche attenuante per l'autorità civile da potersi facilmente sfruttare a proprio vantaggio. 

   Pio V in questa contesa si mostrò diplomatico fine e risoluto. Senza tagliar subito netta la questione, volle, a quanto sembra, risolverla elegantemente. Accolse con grande cortesia l'inviato milanese, e lo indusse ad ammettere che l'ossequio dimostrato dall' Albuquerque verso il re di Spagna giustificava perfettamente l'ossequio che egli dimostrava nella difesa dei diritti dell'onore del Re dei re. E dopo che il Chiesa fu uscito dal Quirinale, contentissimo dell'udienza, Pio V si felicitò per mezzo di lettere col senato di Milano che contasse tra i suoi membri una persona cosi distinta, e l'assicurò che prima di pronunciare una sentenza arbitrale, la commissione dei cardinali e giuristi da lui incaricati avrebbe esaminate seriamente tutte le rimostranze fatte. 

   Filippo II, avendo a sua volta udito l'inviato d'Albuquerque, ebbe l'impressione che l'arcivescovo di Milano fosse un ambizioso, esperto in cabale, pronto ad arrogarsi il governo della città, e che sotto il manto della divozione nascondesse ambizioni prettamente umane. Ordinò dunque al marchese Seralvio di rivendicare presso il Pontefice il libero esercizio della sua sovranità, e di passare a Milano per fare all'arcivescovo le proprie rimostranze. 

   L'abboccamento fu assai vario e piccante. Minacce, preghiere, promesse si alternarono sulle labbra dell'ambasciatore, il quale credeva di intimorire il Borromeo con la sua alterigia castigliana e la dignità che gli conferiva l'importanza della sua missione. 

   San Carlo trattò la questione a base di diritto canonico, e si guardò dignitosamente dal lasciarsi cogliere nella rete 4 . E, congedato il marchese, per mezzo dell'Ormanetto fece rimettere a Pio V una lettera che onora ugualmente i due santi, tanta rettitudine, serenità e confidenza risplendono in essa. 

   “Io non domando, gli scrisse, alcuna soddisfazione per l'oltraggio fatto alla mia persona, e prego la Santità Vostra a non darsene pensiero. Basterà che la S. V. giudichi secondo l'equità ch'è propria della Sede Apostolica, e ottenga il rispetto dovuto all'autorità del Pontefice. La mia condotta si ispira solo alla difesa dei diritti della Chiesa milanese, e protesto che non ho altra intenzione se non quella di rimettere nelle mani dei miei successori il libero esercizio della loro giurisdizione. Ma poiché V. S. conosce bene i titoli sui quali si fondano i privilegi della Chiesa, lascio alla vostra prudenza ogni decisione. Avete presso di voi, Santo Padre, degli uomini molto pii, dotti, pieni di discernimento; parecchi di essi ebbero già a trattare simili questioni al Concilio. E quello che più conta, V. S. è guidata dallo Spirito Santo. Io attendo dunque con tranquillità d'animo le vostre decisioni, alle quali intendo di sottomettermi con tutto il cuore, essendo intimamente convinto che i vostri ordini non possono essere che giustissimi, e santissime le vostre deliberazioni”. 

   Per parte sua Pio V continuava ad agire. Non contento di tener corrispondenza coll'arcivescovo, col governatore e col senato di Milano, diede ordine al suo Nunzio a Madrid di rendere nota a Filippo II la gravità della contesa, e fargli constatare il contrasto fra lo zelo che il re mostrava per la religione e l'atteggiamento preso dai suoi delegati. 

   “Voi farete presente a Sua Maestà, scrisse il cardo Alessandrino, che il S. Padre, ben lontano dal sollevare i sudditi contro il re, desidera renderli sempre più devoti all'autorità reale, ma ch'è assai più facile governare gli Stati i cui popoli vivono cristianamente e rispettano la Chiesa, che le province irreligiose e dissolute... Sua Santità è molto addolorata per questa disubbidienza ed è disposta a infliggere severe punizioni. Abbiate dunque cura di parlar a sua Maestà con l'energia che si conviene. 

   Il Papa citò infatti i colpevoli a Roma. Tuttavia, in vista delle richieste del march. Seralvio e per non disgustare il re di Spagna per questioni di procedura, ottenuta soddisfazione sui punti essenziali, temperò il suo rigore. Questa condiscendenza del Papa fu interpretata come una manovra e una tacita lezione per l'arcivescovo di Milano. Lo stesso Borromeo non poté evitare che si facesse su lui un tale sospetto. Nel 1570, ritornando sulla questione, diceva all'Ormanetto: “Io non nego di avere talvolta l'impressione che molte persone d'importanza e che guardano troppo agli umani interessi, abbiano forse influito alquanto sulle sante intenzioni e sullo zelo di Sua Santità. Né posso negare che molteplici considerazioni, riguardanti il governo generale della Chiesa, abbiano agito sul suo animo, considerazioni ch'io ignoro, né posso scoprire. Ma io penso sempre che se all'inizio del conflitto si fosse proceduto senza indugi, si sarebbe distrutta la cagione di questi avvenimenti nella sua stessa sorgente. Queste dilazioni hanno infatti dato luogo a molti di credere, e qui e in Spagna, che il S. Padre abbia avuto timore delle minacce del marchese Seralvio. Tuttavia, io non dubito affatto che Sua Santità ha fatto tutto colla sola intenzione di procurare più sicuramente la gloria di Dio e la pace della Chiesa...” (18 gennaio 1570. Bibl. dei Barn., tomo I, Del Governo). 

   Intanto gli oppositori del Borromeo coglievano tutti i pretesti per nuocergli. Una folla di invidiosi ronzava attorno alla sua riputazione, impaziente di metterla alla prova. Il Borromeo, caduto in disgrazia del re di Spagna e accusato a Milano, pareva ormai vicino a soccombere sotto i colpi di numerosi spiacevoli incidenti. Sembra che anche i canonici della Scala abbiano avuto parte in questo complotto; l'atteggiamento da loro preso favori per lo meno i progetti degli intriganti. . 

   Questo nobile Capitolo, come tanti altri in quei tempi, si faceva forte della sua esenzione dalla giurisdizione vescovile. Ma nessun arcivescovo aveva mai acconsentito a una tale emancipazione. Il Borromeo comunque avvisò i canonici che avrebbe fatta la visita pastorale alla loro collegiata. A questa nuova, lo stupore dei canonici si tramutò presto in collera; essi invocarono l'appoggio dell'Albuquerque, che si mostrò ben contento di sostenerli, fomentando il loro risentimento. Presto incominciarono le ostilità. 

   I canonici scomunicarono il vicario dell'arcivescovo, e giunsero al punto di citare lo stesso cardinale al tribunale d'un subexecutor apostolicus improvvisato. Ma San Carlo era della stessa tempra di Pio V; intervenne personalmente alla visita e si presentò alla porta della chiesa. I canonici si barricarono, appostando degli uomini armati che tiravano alcuni colpi d'archibugio. Davanti ad una simile violenza, il Borromeo lanciò l'interdetto sul Capitolo e sul giudice impostore. 

L'Albuquerque colse la palla al balzo. Con lettere piene di sdegno fece conoscere al re e al Papa i nuovi attentati dell'arcivescovo. La città si mise in rivolta; era quindi necessario agire prontamente. Solo la rimozione di questo turbolento che minacciava di sottrarre i milanesi alla giurisdizione del re poteva calmare l'effervescenza generale. 

   Pio V, avvisato del conflitto il 1° settembre 1569, impiegò dieci giorni a fare un'inchiesta. Al “delitto del figlio Gabriele de Queva, duca d'Albuquerque, governatore dello Stato di Milano”, scrisse un Breve nel quale, nonostante le formule ossequiose, dichiarava di schierarsi dalla parte di San Carlo. 

   “Ogni affronto, diceva, fatto a una sì eminente dignità della Chiesa, è fatto a noi e alla Santa Sede. Vostra Signoria desidera che noi giudichiamo il cardinale Borromeo uomo impetuoso e ostinato; ma, benché abbiamo rispetto per le vostre parole, siamo costretti dall'equità a non accettare questa vostra opinione. Ci ricordiamo benissimo dell'ammirabile condotta tenuta da cotesto degno arcivescovo, quando, sotto il pontificato di Pio IV, suo zio e nostro illustre predecessore, disbrigava meravigliosamente gli affari della Chiesa. S'egli meritasse veramente quanto voi gli rimproverate, come mai durante il tempo di un'amministrazione più importante e più difficile di quella di Milano non ha lasciato nessuna traccia dell'indole che voi gli rinfacciate? Sentiamo perciò una gran pena nel vedere un vescovo, dato manifestamente da Dio alla vostra città, così puro, così zelante, così attento nell'estirpare gli abusi, perseguitato da quelli che dovrebbero difenderlo e colmarlo di elogi, e diventar vittima di recriminazioni tanto ingiuste, non essendovi in lui ombra di alcuna mancanza”. 

   Questa lettera, che era per se stessa una punizione, non disarmò il governatore il quale, oltre ad avanzare nuove istanze presso la corte di Madrid, si lamentò amaramente con S. Pio V. Avendo appreso dai suoi corrieri che la commissione cardinalizia aveva dichiarato illegittime le pretese dei canonici della Scala e ratificato le decisioni dell'arcivescovo, perdette completamente il senso della misura, raccolse delle abbiette calunnie, lasciandosi sfuggire parole di vendetta. 

   Il Papa si mostrò alquanto commosso per il suo dolore, e si degnò rispondergli, ma con un linguaggio sostenuto e pieno di energia. Questi riguardi, usati verso Albuquerque per calmare la sua irritazione e ricondurlo a pensieri più giusti, non fanno altro che mettere meglio in rilievo le gravi rimostranze del Papa. Come avrebbe avuto ardire il governatore di mandare ad effetto le sue minacce, quando gli si facevano sentire senza ambagi le punizioni che gli sarebbero state inflitte? 

   Pio V scrisse il giorno 8 ottobre 1569: 

   “Per una specie di paterno mutismo, suggeritoci dal nostro affetto verso la S. V., passiamo sotto silenzio ciò che nelle ultime vostre lettere ci sembra offrire minor materia a discussioni, perché la salvezza della vostra anima e il rispetto che abbiamo per la giustizia devono essere la regola di quanto scriviamo. Se non conoscessimo molto bene il card. Borromeo, saremmo vivamente impressionati dalle cattive informazioni che voi allegate, a proposito dei suoi costumi, delle sue mire e del suo modo di procedere. Ma la stima personale che abbiamo di lui, confermata da relazioni esatte su quanto egli pensa, sulla sua condotta, sui suoi famigliari e sulla sua amministrazione, ci, inclina a credere che il nemico del genere umano, giudicando funeste ai suoi progetti le buone relazioni tra la S. V. e il cardinale, faccia di tutto per far perdere la stima a un prelato così santo... Voi dite che per assicurare la giurisdizione regale siete costretto a farlo allontanare dalla città e dallo Stato. Quantunque noi non abbiamo difficoltà a rispondere alle vostre minacce secondo giustizia, vi avvertiamo tuttavia, per pura benevolenza, che riflettiate bene a quanto volete fare, per non dover pentirvi troppo tardi di esservi messo in un imbarazzo che potrebbe recarvi del danno. Per il cardinale noi non abbiamo alcuna apprensione. Qual gloria maggiore per lui che essere bandito, per aver difesa la libertà e i diritti della Chiesa? Quand'anche dovesse suggellare col sangue i suoi interdetti, non dovrebbe considerarsi come un essere privilegiato da Dio? È dunque vostro interesse evitare qualsiasi misura imprudente, poiché mentre procurereste al cardinale una gloria imperitura, attirereste sul vostro capo il biasimo del mondo cristiano, e coprireste il vostro nome d'una macchia indelebile”. 

   Questa contesa tra autorità locali, gonfiata a bella posta, tini di provocare un conflitto tra la Spagna e la Santa Sede. Pio V, desiderando di evitarlo, avverti il suo nunzio di mettere in guardia Filippo II da falsi rapporti; quindi spedì a Madrid come ambasciatori straordinari Vincenzo Giustiniani, generale dei domenicani e Acquaviva referendario della Signatura. I due inviati riuscirono a dissipare le prevenzioni del re, ottennero che questi disapprovasse il modo di agire dell'Albuquerque e facesse buon viso alle ragioni di San Carlo. 

   Ma siccome l'affronto era stato pubblico, e le violenze del governatore e dei canonici continuavano a tenere in subbuglio la città, il Papa volle una riparazione solenne. I magistrati, complici della temeraria impresa, furono costretti a chiedere perdono davanti al popolo, e i canonici della Scala dovettero fare ammenda onorevole all'arcivescovo, accompagnandolo processionalmente fino alla loro collegiata, ove gli prestarono omaggio di obbedienza. 

   Si comprende come il Borromeo, sensibile a questi atti del Santo Padre e alle lodi tributate al suo zelo abbia voluto rendergli questa testimonianza: “nelle perturbazioni provocate contro il mio ministero ho ricevuto dal S. Padre degli aiuti che non avrei osato sperare neppure da Pio IV, mio zio” 5 . 

Card. GIORGIO GRENTE

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