L'obbedienza e il Fanciullo al tempio
In occasione della prima Pasqua che cadeva dopo il dodicesimo anno di vita di Gesù, i genitori Lo condussero a Gerusalemme, insieme con gli altri Nazareni. La Legge imponeva che tutti i Giudei di sesso maschile assistessero alle tre solenni festività: la Pasqua, la Pentecoste e i Tabernacoli. Ed è probabile che nel salire al tempio il Divin Fanciullo osservasse, com'era costume, tutte le ingiunzioni della Legge ebraica: a tre anni aveva indossato una veste guernita di fiocchi; a cinque, aveva imparato, sotto la guida della madre, quei passi della Legge ch'erano stati incisi sui rotoli; a dodici, cominciò a portare le filatterie, che sempre i Giudei indossavano ogni qualvolta avevano da recitare la preghiera quotidiana. Parecchi giorni impiegarono per percorrere i sentieri che da Nazaret portano alla Città Santa; e probabilmente, al pari di tutti i pellegrini, la Sacra Famiglia cantò, cammin facendo, i Salmi processionali, intonando il Salmo 121 allorché giunsero in vista delle mura del tempio.
Può darsi che Giuseppe si recasse al tempio per sgozzare l'agnello pasquale, e che il Bambino, raggiunta l'età legale per partecipare alle cerimonie del tempio, osservasse il sangue dell'agnello che veniva fuori dalla ferita, per poi spargersi ai piedi dell'altare nelle quattro direzioni della terra. Ancora una volta la Croce era dinanzi ai Suoi occhi. È inoltre probabile che il Fanciullo assistesse al modo come si preparava la carcassa dell'agnello per il festino; operazione che, in base alla prescrizione della legge, si compiva infilando due spiedini di legno attraverso il corpo: l'uno attraverso il petto, l'altro attraverso le cosce, così che l'agnello sembrasse inchiodato su una croce.
Adempiuti i riti, gli uomini e le donne ripartirono, in due carovane separate, per poi ricongiungersi la sera; ma il fanciullo Gesù rimase in Gerusalemme ad insaputa dei Suoi genitori, i quali, supponendo ch'Egli si trovasse coi loro compagni di viaggio, camminarono per una giornata intera prima di accorgersi della Sua assenza. Talché Gesù venne «perduto» per tre giorni. Nel corso della Sua infanzia si era parlato di «contraddizione», di «spade», di «impossibilità di trovare alloggio», di «esilio», di «strage»: ora si parlava di «perdita». In quei tre giorni Maria giunse alla conoscenza di uno degli effetti del peccato: della perdita di Dio, si vuol dire. Sebbene ella fosse senza peccato, conobbe i timori e la solitudine, le tenebre e l'isolamento propri a ogni peccatore che perda Iddio. Fu come una sorta di sublime giuoco in cui l'una parte si nascondeva e l'altra cercava. Siccome Egli le apparteneva, ella Lo cercava; e però, siccome Egli attendeva alla redenzione, l'aveva lasciata ed era andato al tempio. In Egitto, ella aveva provato la notte buia del corpo; adesso, in Gerusalemme, provava la notte buia dell'anima. Le madri devono abituarsi a portar croci. Non soltanto il suo corpo ma anche la sua anima doveva pagar caro il privilegio d'esserGli madre. Per altri tre giorni, in séguito, ella avrebbe patito: quelli che corrono dal Venerdì Santo alla Domenica di Pasqua. Codesta prima «perdita» era parte della sua preparazione.
Cristo si trova sempre in siti insospettati: in una greppia Lo avevano trovato i Magi; in un paesino Lo si trova poi, ch'è spregiato perfino dagli Apostoli. Nel tempio, ora, Lo trovarono inaspettatamente i genitori. Lo trovarono dopo tre giorni, allo stesso modo che il terzo giorno, appunto, Maria Lo avrebbe ritrovato dopo il Calvario. Dal tempio, perché costituiva la minuscola immagine, il modello minuscolo del Cielo, Egli era grandemente attratto: la casa del Padre era la Sua dimora, e in essa Egli si sentiva a Suo agio.
C'era, nel tempio, una scuola, nella quale alcuni rabbi insegnavano: il mite Hillel era forse ancora in vita e può darsi che si trovasse nel tempio per partecipare alla discussione tenuta dal Divin Fanciullo; e può darsi anche che del numero facessero parte il figlio di Hillel, rabbi Simeone e, chissà, perfino il maggiore dei suoi nipotini, Gamaliele, che sarebbe poi stato il maestro di San Paolo, sebbene a quel tempo Gamaliele dovesse avere soltanto l'età, poco più, poco meno, del Divin Fanciullo. Quanto ad Anna, era stato appena nominato sommo sacerdote, e per certo, se non era presente di persona, ebbe modo di sentir parlare di Lui.
In codesta scuola di rabbi, appunto, Lo trovarono Maria e Giuseppe.
«Stava nel tempio, seduto in mezzo ai dottori in atto di ascoltarli e d'interrogarli: e tutti che l'udivano stupivano del suo senno e delle sue risposte» (Luca 2: 46-48)
Che Egli sedesse in mezzo ai dottori indicava che essi non Lo avevano accolto come un semplice allievo, sebbene come un maestro. C'è nel Vangelo a proposito di questa scena, una palese «limitazione» che contrasta con certi scritti apocrifi. Nel Vangelo di Tommaso, che è del secondo secolo e non fa testo, Nostro Signore vien rappresentato come un maestro; e un vangelo arabo, d'un periodo posteriore, parla perfino d'insegnamenti metafisici e astronomici. I Vangeli ispirati, invece, si rivelano quanto mai sobri nella rappresentazione della vita di Nostro Signore, propensi come sono ad attenuarne gli aspetti.
«Al vederlo, essi furono meravigliati» (Luca 2: 48)
Probabilmente, erano meravigliati per la dottrina di cui dava prova. Il Salmista aveva predetto ch'Egli sarebbe stato più sapiente dei Suoi maestri perché oggetto del Suo studio sarebbero state le testimonianze di Dio. Ma lo stupore può anche prodursi dal fatto che una madre, talvolta, stenta ad intendere come il figlio possa essersi rapidamente mutato in adulto e, pertanto, trovarsi in grado di affermare un suo proprio scopo di vita.
In un paese in cui suprema era l'autorità del padre, non fu Giuseppe, il padre adottivo, ma Maria a parlare: «Figlio mio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, contristati, andavamo in cerca di te» (Luca 2: 48)
In codesta sua domanda era implicito il riferimento alla Nascita Verginale. Da quel suo domandare, si capisce com'ella insistesse sull'essere Egli il Figlio suo ancor più che sull'essere anche il Figlio di Dio; e tale distinzione, inoltre, sottolineò accennando altresì alla paternità di Giuseppe, là dove disse: «Tuo padre e io».
Al che, il Divin Fanciullo rispose distinguendo tra colui ch'Egli rispettava come padre terreno e l'Eterno Padre. Tale risposta stabili una disgiunzione, perché, pur non diminuendo in alcun modo il rispetto filiale ch'Egli riconosceva di dovere a Maria e a Giuseppe, tant'è vero che immediatamente tornò a loro sottomesso, li pose decisamente in secondo piano.
Sono codeste le prime parole che i Vangeli registrino di Gesù, e vengono pronunziate in forma interrogativa: «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo attendere a ciò che riguarda il Padre mio?» (Luca 2: 49)
C'è qui un palese riferimento alle parole di Maria: «Tuo padre e io». Nel dire che Sua madre avrebbe dovuto sapere ch'Egli attendeva a quanto riguardava il Padre Suo, si riferiva evidentemente a quanto le era stato rivelato all'atto dell'Annunciazione, allorché l'Angelo le aveva detto: «Lo Spirito Santo scenderà in te, e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra, e perciò il santo che nascerà da te sarà chiamato figlio di Dio» (Luca 1: 35)
Sul tema dei rapporti di parentela con la madre sarebbe tornato in occasione delle nozze di Cana; ora aveva stabilito la natura dei rapporti di parentela col padre adottivo. E cioè: aveva disconosciuto la paternità fisica, affermando, per Sé, la Paternità Divina, quella del Padre Suo Celeste. A Cana, avrebbe detto alla madre: «Che [importa] a me e a te, o donna?» (Giov. 2: 24)
Allora avrebbe inteso parlare di una maternità ben diversa da quella della carne, così come ora aveva alluso a una paternità ben diversa da quella esercitata da Giuseppe. Né di Giuseppe si farà mai più cenno nei Vangeli.
Al tempio, Nostro Signore si sottrasse al diritto del padre adottivo, allo stesso modo che più tardi, a Cana, si sarebbe sottratto ai diritti della madre. Il Suo supremo fine era d'essere un Salvatore, il che tuttavia comportava, per il momento, l'obbedienza ai Suoi custodi terreni. Il Fanciullo si riferiva a una realtà storica di cui la madre e il padre adottivo sarebbero dovuti essere a conoscenza, una realtà che giustificava la Sua presenza in quel luogo e quindi escludeva qualsiasi motivo di ansietà loro nei confronti Suoi. Questa la ragione per cui domandò: «Perché mi cercavate?»; questa la ragione per cui aggiunse: «Non sapete che io devo attendere a ciò che riguarda il Padre mio?» Con ciò, insomma, intendeva dire che appunto li, nel tempio del Padre Suo, Egli doveva essere. E fu quello il primo dei molti «devo» che il Nostro Signor Benedetto avrebbe pronunziati nel corso della Sua vita ad indicare che aveva accettato una missione, che obbediva all'ordine di costituire un riscatto. Il fatto stesso ch'Egli associasse la parola «devo» al Padre Suo Celeste significava che la Sua condizione di Figlio implicava obbedienza. A dodici anni, Egli s'imponeva ciò che alla Sua natura umana avrebbe recato sofferenza, ma l'intera natura Sua tendeva al compimento di un «devo» divino.
Se c'è qualcosa che dissipa l'erronea credenza che la Sua consapevolezza dell'unità col Padre si sia sviluppata gradatamente, è appunto questa scrittura, dalla quale risulta come Egli, fanciullo dodicenne, accennasse alla Propria misteriosa origine e alla natura meramente putativa del padre, nonché alla piena coscienza d'esser tutt'uno con la Divinità. Già Egli, insomma, si rendeva perfettamente conto delle divine costrizioni che signoreggiavano la Sua vita. E più volte adoperò la parola «devo».
Devo predicare il Regno di Dio. Devo dimorare nella tua casa. Devo attendere all'opera di Colui che mi ha mandato. Molte sono le cose che il Figlio dell'Uomo deve patire. Il Figlio dell'Uomo dev'essere innalzato. Il Figlio dell'Uomo deve soffrire per partecipare della gloria di Dio. Il Figlio dell'Uomo deve risorgere.
Parlava sempre come un esecutore d'ordini. Pur libero dalle coercizioni dell'eredità, delle circostanze o della famiglia, questo Fanciullo di dodici anni disse di esser vincolato da un incarico celeste, epperò aveva domandato perché mai Lo cercassero, stupito che ad essi occorresse una qualche altra spiegazione, che non fosse quella ch'Egli obbediva alla volontà del Padre Suo. L'imperativo dell'Amor Divino si manifestò in quel «devo». Non c'era una differenza sostanziale tra il Fanciullo nel tempio e l'Uomo che avrebbe detto di «dover essere innalzato» sulla Croce. Egli sarebbe dovuto morire per amor di salvezza: la Sua filiale obbedienza al Padre coincideva con la Sua pietà per gli uomini. Ma non sarebbe stata una tragedia, «perché il Figlio dell'Uomo sarebbe risorto dopo tre giorni». Alle menti umane il Suo disegno si rivelò per gradi, ma nella Sua mente non si produsse una rivelazione graduale, un intendimento nuovo, della ragione della Sua venuta.
L'attendere per tre giorni nel tempio a ciò che riguardava il Padre Suo non differiva in alcun modo dall'attendere per tre giorni nel sepolcro a ciò che riguardava il Padre Suo. Come tutti gli altri episodi della Sua infanzia, anche questo testimoniò della Missione della Croce. Tutti gli uomini nascono per vivere: Egli era nato per adempiere l'incarico del Padre, ossia morire e, pertanto, salvare. Queste Sue parole, le prime di cui si abbia testimonianza, somigliano le gemme di un fior di passione: la Domenica di Pasqua Maria Lo avrebbe ritrovato nel tempio, nel tempio del Suo Corpo glorificato.
Già la spada si avvicinava a Maria, ancor prima che la Croce al Figlio, perché ella sentiva già il taglio della separazione. Sulla Croce, nella Sua natura umana, Egli avrebbe pronunziato il grido della Sua suprema angoscia: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», ma Maria lo pronunziò quando Egli era ancora un fanciullo, smarrito nel tempio. Delle pene dell'anima, le più penetranti sono quelle imposte da Dio, in quanto Gesù impose quelle alla madre Sua. Solo esternamente le creature possono ferirsi a vicenda, ma la fiamma purificatrice di Dio può entrare nelle loro anime come una spada dal duplice taglio. Entrambe le nature di Lui rivelavano a lei com'ella dovesse prepararsi alla vita dolorosa del Figlio: la Sua natura umana, celando a lei per quei tre giorni, o, meglio, per quelle tre notti, la soavità del Suo Volto; la Sua Natura Divina, proclamando che il Padre Lo aveva mandato sulla terra per assolvere un compito celeste: quello di aprire il cielo all'umanità pagando il debito contratto dagli umani peccati.
Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN
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