Carissimi: tristatur aliquis vestrum? Oret. La pandemia? Da quanto tempo i cristiani danno la precedenza alle medicine rispetto alla preghiera, ci siamo forse scordati che cos’è la vera fede: abbiamo smesso di confidare in Dio?
Carissimi: tristatur aliquis vestrum? Oret
di
Francesco Lamendola
«Carissimi: Qualcuno tra voi soffre? Preghi». Con queste semplici, toccanti parole l’Apostolo san Giacomo affronta il tema della preghiera, della sua efficacia e della piena confidenza in Dio. E sono parole doppiamente significative se lette alla luce del particolare momento storico che stiamo vivendo: da un lato, attanagliati dalla paura di rimanere contagiati e rischiare la morte in un letto d’ospedale; dall’altro, siamo profondamente rattristati per il senso di solitudine, d’isolamento, d’incomprensione che è sceso sulle relazioni umane a causa dell’emergenza sanitaria, nel quale pare che anche la presenza di Dio si sia ritratta dalla nostra vita. Come potrebbe essere presente, infatti, il Dio dell’amore in un cuore indurito, amareggiato? Ci è giunta notizia di un sacerdote che si è rifiutato di portare gli estremi conforti religiosi a un malato, in ospedale, per il timore di contrarre il Covid. A parte l’aspetto umano, della viltà e inadeguatezza di quel sacerdote rispetto al compito che era chiamato ad assolvere, si resta sconcertanti dal significato profondo di una simile diserzione: è chiaro che dietro un tale comportamento c’è una completa perdita della fede e un credere solo nella salvezza che viene dalla scienza umana. Se un sacerdote arriva a pensare che Dio lo possa abbandonare nel momento in cui si reca al capezzale di un moribondo, vuol dire che egli non crede più, e probabilmente non da oggi, ma da molto tempo. Da molto, da troppo tempo udiamo sacerdoti parlare nelle chiese in maniera puramente ed esclusivamente umana; da troppo tempo vediamo l’assemblea dei fedeli che si reca alla santa Messa non per andare incontro, con gioia e trepidazione, all’ineffabile Sacrificio Eucaristico, che Gesù Cristo rinnova per ciascuno di coloro che lo amano, ma con atteggiamento del tutto umano, le persone ben ritte in piedi e restie a inginocchiarsi, perfino al momento della santa Comunione, e che prendono l’Ostia con le loro mani, con fare orgoglioso, come se facessero valere un diritto che per troppo tempo era stato negato da un clero arretrato e oscurantista. Da tanto, troppo tempo noi stessi ci siamo scordati che cos’è la vera fede e abbiamo smesso di confidare in Dio, di pregarLo nelle nostre necessità, di attendere da Lui il consiglio, l’aiuto, la sollecitudine di un Padre che mai si scorda dei suoi figli, di un buon pastore che mai abbandonerebbe le pecorelle del suo gregge. Ci siamo riempiti la bocca di parole orgogliose, gonfie di vento, rivolte più ai nostri stessi orecchi, per compiacere le nostre passioni, che non di umili preghiere rivolte esclusivamente a Dio. E, quel che è peggio, siamo stati ingannati sistematicamente da un clero che, avendo perso la fede, è sprofondato sempre più nei vizi: lussuria, superbia e avarizia, ed è giunto a un tal punto d’incredulità e protervia da usare l’ambone per proclamare che il peccato non è più peccato, che il vizio contro natura è cosa buona e lecita, che l’aborto è facilmente perdonato da Dio, che il solo vero peccato è non seguire i propri istinti, non accondiscendere alle proprie passioni, non esercitare i propri diritti. Anche se tali diritti, perfettamente riconosciuti dalla legge umana (ma non dalla ragione naturale) equivalgono a dei veri delitti, che gridano vedetta al cospetto di Dio.
Carissimi: tristatur aliquis vestrum? Oret. «Carissimi: Qualcuno tra voi soffre? Preghi». Con queste semplici, toccanti parole l’Apostolo san Giacomo affronta il tema della preghiera, della sua efficacia e della piena confidenza in Dio!
Scrive dunque l’apostolo san Giacomo (5, 13-15):
Tristatur aliquis vestrum? Oret. Aequo animo est? Psallat. Infirmatur quis in vobis? Inducat presbyteros Ecclesiae, et orent super eum, ungentes eum oleo in nomine Domini: et oratio fidei salvabit infirmum, et alleviabit eum Dominus; et si in peccatis sit, remittentur ei. Confitemini ergo alterutrum peccata vestra, et orate pro invicem, ut salvemini.
13 C'è tra di voi qualcuno che soffre? Preghi. C'è qualcuno d'animo lieto? Canti degli inni. 14 C'è qualcuno che è malato? Chiami gli anziani della chiesa ed essi preghino per lui, ungendolo d'olio nel nome del Signore: 15 la preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo ristabilirà; se egli ha commesso dei peccati, gli saranno perdonati. 16 Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri, pregate gli uni per gli altri affinché siate guariti; la preghiera del giusto ha una grande efficacia.
L’Apostolo non dice: se uno di voi è malato, chiamate un medico; ma dice: se uno di voi è malato, chiamate un sacerdote. Questo non significa che non ci si debba rivolgere a un medico in caso di malattia; ma che la speranza principale va indirizzata al Signore, di cui il sacerdote è un ministro e, nell’esercizio delle sue funzioni, un alter Christus. Certo, sono parole dure per i nostri orecchi: terribilmente dure. Da quanto tempo i cristiani danno la precedenza alle medicine rispetto alla preghiera? Siamo onesti: non da qualche anno, ma da secoli. Nelle grandi pestilenze del passato i cristiani pregavano, facevamo digiuni e processioni, affollavano le chiese; e il clero si prodigava in mezzo ai malati, per assisterli e confortarli sia sul piano materiale, sia su quello spirituale. Oggi invece è sufficiente non una vera pandemia, ma una supposta pandemia, proclamata sotto la pressione d’un organismo sovranazionale palesemente colluso con l’interesse privato delle grandi case farmaceutiche; basta una influenza un po’ più cattiva delle altre (perché “costruita” artificialmente), ma il cui indice di mortalità è comunque dello zero virgola qualcosa, perché noi sprofondiamo nel terrore, scordando completamene il Signore e le sue promesse, ci rivolgiamo con fiducia assoluta, quasi isterica, a quel sistema sanitario che rappresenta, invece – anche se questo è secondario rispetto al discorso che stiamo facendo – il problema più grave, nel senso che molti dei cosiddetti morti da Covid sono stati provocati, in realtà, da terapie sbagliate, dovute alla cieca applicazione di protocolli sanitari contrari a tutto ciò che la sana esperienza medica avrebbe dovuto suggerire in una circostanza come quelle attuali.
La pandemia? Da quanto tempo i cristiani danno la precedenza alle medicine rispetto alla preghiera, ci siamo forse scordati che cos’è la vera fede: abbiamo smesso di confidare in Dio?
Si noti poi un altro aspetto del discorso di san Giacomo che fa letteralmente a pugni con la nostra mentalità moderna. Egli pone in relazione il discorso sulla malattia con quello sul peccato: non dice che la malattia è una conseguenza del peccato, ma suggerisce che esiste una misteriosa relazione fra la malattia fisica e quella morale, che consiste nell’allontanamento da Dio e nei comportamenti disordinati che ne conseguono. Chi rimane strettamente unito a Dio, agisce anche da figlio di Dio, o, come direbbe san Giovanni, da figlio della luce; chi è lontano da Lui, agisce come un figlio delle tenebre. Non è vero che tutti gli uomini sono i figli di Dio. Tutti gli uomini sono Sue creature: ma quanto ad essere Suoi figli, ciò dipende da loro, non solo da Lui. Egli non può e non vuole imporre alcun obbligo alle Sue creature: desidera che esse vengano a Lui per un libero atto della volontà. E se si sceglie di stare nelle tenebre, allora non è strano che anche la salute del corpo ne risenta, perché il disordine della vita morale si riflette nel disordine della vita biologica. Anche questo è un discorso che oggi non piace, anzi, è considerato senz’altro politicamente scorretto. Chi ha una certa età, ricorda bene cosa si disse, anche e specialmente da parte “cattolica” (cattolica progressista, s’intende) negli anni in cui venne in luce l’enorme diffusione del peccato di Sodoma negli Stati Uniti e specialmente negli ambienti metropolitani della California, in particolare quelli legati al mondo del cinema; gli anni, per intenderci, della rivelazione che il mitico attore Rock Hudson, emblema della virilità per eccellenza, stava morendo di Aids, e che aveva contratto la malattia a causa delle sue abitudini sessuali, delle quali nulla il pubblico sapeva o immaginava (1985). Si disse: «Come osate fare il processo a quei poveri malati; come osate affermare che c’è una relazione fra il loro stile di vita e il male che ora li colpisce? Non siete caritatevoli, non siete delle belle persone; siete meschini e malvagi nel fare simili discorsi». Eppur è un fatto, e non una maligna opinione, che un certo tipo di comportamento, sessuale e non sessuale, favorisce l’insorgere di certe malattie, o il diffondersi di certe infezioni. È un fatto, per esempio, che scambiarsi la siringa quando ci si fa di eroina in un gruppo di tossicodipendenti, oppure avere dei rapporti anali che provocano lacerazioni nei tessuti e quindi la perdita di sangue, tutto questo non contribuisce alla sicurezza delle persone al tempo in cui è presente una malattia che si diffonde attraverso gli scambi di sangue. E stiamo parlando solo degli aspetti materiali ed esteriori, non abbiamo neppure sfiorato l’aspetto morale; eppure neanche questo era lecito dire, e tuttora continua ad essere considerato di pessimo gusto, quasi un voler infierire contro delle persone che stanno già soffrendo. Per la stessa ragione, è considerato politicamente scorretto avanzare anche il più lieve collegamento fra la violenza subita da una donna (o da un uomo) e l’insieme di una vita disordinata o di una vera e propria attività di prostituzione: come se porre tale collegamento, evidente e innegabile, equivalesse a giustificare la violenza che c’è stata; il che invece è tutto un altro discorso.
Il peccato non è più peccato? La malattia mortale dell’anima conduce all’inferno: questa è la verità che oggi il clero neomodernista, tradendo il suo mandato e ingannando i fedeli, ha deciso di tacere, facendo loro credere che Dio perdona tutto senza condizioni, il che è falso!
Ma torniamo al discorso sulla fede. Chi vive secondo la volontà di Dio, chi agisce da figlio della luce, non deve aver paura di nulla, neanche delle malattie. Da un punto di vista umano, ci sono due tipi di malattie: quelle da cui si guarisce e quelle mortali. Per il cristiano, le une sono permesse da Dio affinché la persona torni a contemplare l’essenziale, sbarazzandosi di ciò che è superfluo ma che forse aveva acquistato troppo spazio nella sua vita; le altre sono il mezzo per riportare l’anima al cospetto di Dio, cosa che prima o poi avviene per ogni creatura (ma che troppi cristiani moderni tendono a scordare, comportandosi come se la vita terrena dovesse durare in eterno). Da un punto di vista cristiano, c’è una sola malattia: quella dell’anima; la quale a sua volta si può suddividere in due categorie, la malattia da cui si può guarire e la malattia mortale. La prima è quella che serve, attraverso le prove, le cadute e le riprese, a rafforzare la fede e a riavvicinare l’anima a Dio; la seconda è quella che l’allontana definitivamente e irreparabilmente da Lui. La malattia mortale dell’anima conduce all’inferno: questa è la verità che oggi il clero neomodernista, tradendo il suo mandato e ingannando i fedeli, ha deciso di tacere, facendo loro credere che Dio perdona tutto senza condizioni, il che è falso. Quei sacerdoti e quei vescovi si sono assunti una responsabilità gravissima della quale verrà loro chiesto di rendere conto; quanto al signor Bergoglio che da otto anni inganna e tradisce il gregge che gli era stato affidato, e continua imperterrito, con diabolica pervicacia, a insegnare eretiche dottrine basate sul concetto che il peccato è rimesso al peccatore senza bisogno di pentimento ed espiazione, o addirittura che molti peccati non sono in realtà tali, crediamo che il vaso dell’ira divina sia ormai quasi colmo, e anche lui sarà chiamato a render conto di tutto il male che ha fatto alle anime. E lo diciamo da credenti, con timore e tremore, cioè ben consapevoli del fatto che tutti gli uomini sono peccatori e quindi lo siamo certamente anche noi; e che i giudizi di Dio sono insondabili, perché i Suoi pensieri non sono i nostri pensieri, e tutto quel che crediamo di sapere è polvere e paglia dinanzi a Lui.
Che cosa si deve fare, allora, in questo tristo tempo, tempi di turbamento e di scoraggiamento, tempi di solitudine e d’incredulità? Tener sempre vivo il fuoco della fede, pregare moltissimo e rimettere ogni preoccupazione in Colui che sa, che può e che vuole farsene carico, perché Egli conosce i pesi che possiamo portare e quelli che non lo possiamo, e che presto verrà in nostro soccorso. Come dice san Paolo nella Epistola ai Romani (13,11-14):
Fratres: Scientes, quia hora est jam nos de somno súrgere. Nunc enim própior est nostra salus, quam cum credídimus. Nox præcéssit, dies autem appropinquávit. Abjiciámus ergo ópera tenebrárum, et induámur arma lucis. Sicut in die honéste ambulémus: non in comessatiónibus et ebrietátibus, non in cubílibus et impudicítiis, non in contentióne et æmulatióne: sed induímini Dóminum Jesum Christum.
11 Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. 12 La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. 13 Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. 14 Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri.
Il giorno è vicino: Non bisogna perdersi di coraggio, perché forse non manca molto al chiarimento definitivo!
Riflettiamo: la notte è avanzata, il giorno è vicino. Non bisogna perdersi di coraggio, perché forse non manca molto al chiarimento definitivo. Le prove da affrontare sono difficili ma non impossibili: nulla d’impossibile Dio ci chiede di sostenere, ma tutto diventa possibile a colui che rimane unito a Lui. Come il tralcio dà molto frutto se resta attaccato alla vite, così noi: lo ha promesso Gesù, e tanto basta (Gv 15,1-2): 1 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Così sia.
Del 23 Febbraio 2021
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