Il dì 7 febbraio 1815, così racconta di sé la povera Giovanna Felice. Nella santa Comunione fui trasportata in luogo molto eminente, mi fu permesso di penetrare i preziosi gabinetti del Re supremo. Lui stesso si degnò farsi incontro all’anima mia, per accompagnarla nel suo tabernacolo, per unirla a sé dolcemente. Che cosa sublime! che cosa eccelsa è mai questa!
Introdotta che fu l’anima mia nel tabernacolo del Signore, fu sopraffatta da sublime virtù. Poco e niente so spiegare i mirabili effetti che produssero in me queste sublimi virtù. Al momento fui rivestita di giustizia, che mi rendeva per partecipazione simile all’amato mio bene, per parte di scambievole compiacenza divenne l’anima mia una stessa cosa con lui.
Il dì 7 febbraio 1815, ultimo giorno di carnevale, così Giovanna Felice; il giorno dopo il pranzo mi portai a santa Maria Maggiore a visitare il SS. Sacramento esposto, mi trattenni due ore e mezzo. In questo tempo il mio spirito fu nuovamente condotto nei segreti gabinetti del supremo Re. Introdotta che fui in questo prezioso luogo, che non so descrivere per la sua sublimità, l’anima mia, ebria di amore, tutta ansiosa cercava, per gli ampli spazi di questo divino luogo, l’amato suo bene.
Tanto era profonda la ferita dell’amore, che nelle surriferite unioni aveva ricevute dal dolce strale dell’amato, che mortalmente l’aveva ferita, dico mortalmente ferita, perché l’anima mia morta ad ogni altro bene, non solo terrestre, ma ancora celeste, non sapeva prendere alcuna compiacenza in questo vastissimo, magnificentissimo luogo, ma qual cerva ferita, bramosa solo della perenne fonte del Salvatore, a lui solo erano rivolte le mie premure, il mio cuore non restò appagato né per la magnificenza del luogo, né per il grande onore che ricevetti da quei felici abitatori, che tutti a piena voce si congratulavano con me, lodando e benedicendo il Santo dei santi, miravano l’anima mia qual trionfo dell’infinita misericordia, e pieni di gioia invitavano le gerarchie angeliche a lodare e benedire il Signore, Dio degli eserciti; ma l’anima mia neppure in queste sonore lodi prendeva compiacenza, ma tutta assorta in Dio, cercava l’occhio del bel sole di giustizia.
«Mio Dio», diceva l’anima mia, «a me non basta vedere i vostri splendori; ma desidero e voglio essere stemperata, liquefatta dai cocenti raggi di voi, bel sole di giustizia!».
Intanto l’anima mia andava struggendosi di amore verso l’amato suo bene, e, non potendo più sostenere la forza dell’amore, si adagiò sopra prezioso sgabello. Ecco dunque che è apparso il divin Salvatore, circondato da molte schiere angeliche, tutto amore verso di me si andava approssimando. L’anima mia, alla vista del suo diletto, si andava liquefacendo di amore, e, annientata in se stessa, fu sopraffatta da amoroso deliquio.
DIARIO - Beata Elisabetta Canori Mora
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