giovedì 25 aprile 2019

Cosa c’è di più abominevole di una mamma che toglie, volontariamente, la vita al proprio figlio, sangue del suo sangue, carne della sua carne?



Dietro i vetri di una finestra mi ritrovo a fissare il cielo e a contemplarne la vastità e i colori dei suoi tramonti, mai uguali a quelli dell’ultima volta. 
Giocoso o malinconico, sembra rispecchiare l’umore della mia anima. Oggi anch’esso è triste e mi restituisce tutti i pensieri, le immagini, i volti che a lui ho affidato.  
Penso ancora una volta alla mia vita in cui ho dovuto spesso confrontarmi con esperienze che mi hanno amaramente segnata, difficili da superare, ma che non ho mai potuto evitare. Ho “vissuto” la battaglia di mia madre contro la leucemia, presentatasi nella sua forma più acuta, l’auto-trapianto di midollo a cui decise di sottoporsi, la probabilità, anzi la quasi certezza, che non sarebbe mai più tornata a casa. Giorni e giorni di attese, di terapie aggressive, di gioie per i suoi brevi ritorni in famiglia, di baci a lei rubati quando, in asepsi, potevo avvicinarmi solo in seguito all’adozione di opportune precauzioni (anche questo mi era negato) e, finalmente, la speranza non delusa…  
Ho visto morire di tumore il mio professore, il mio carissimo amico Francesco, poco più grande di me solo di qualche anno, una cuginetta appena nata, mio zio Matteo, anch’egli consumato dalla malattia. Non ho più i miei nonni materni, forti punti di riferimento nella mia esistenza e fonte inesauribile di amore, sopravvissuto al tempo e alla forzata separazione…  
Mi ritrovo ad ascoltare una canzone, o a ricordare un frammento di passato vissuto insieme e ancora mi emoziono, ancora piango nel silenzio, ancora li cerco, ancora soffro… Grande è il senso di impotenza che mi ha investito per non aver potuto alleviare le loro sofferenze o per non averli potuti avere con me per sempre, per non essere riuscita a donare loro nient’altro che la mia compagnia, i miei sorrisi e il mio affetto. “Questa è la vita e la volontà di Dio” – mi sono ripetuta continuamente per trarre la forza che mi aiutasse ad accettare tutto ciò.  
Né più armoniosa è stata l’aria respirata nella mia casa, ove i litigi continui fra i miei genitori, fra me e mio padre, mi hanno turbato per tanti anni fino a qualche mese fa, quando ho assistito ad un insperato ricongiungimento familiare (mio padre era andato a vivere a casa dei miei nonni) e ho iniziato a godere dalla compagnia di due genitori innamorati come non li avevo mai visti...  
E le delusioni? Quante ne ho avute!! Come tutti in fondo.  
Eppure, in ciascuna delle circostanze rammentate, ho lottato, ho provato ad essere coraggiosa, a tirar fuori la grinta e, soprattutto, non ho mai smarrito né l’ottimismo, né l’amore per la vita...  
Ma c’è una stanza del mio cuore che è impossibile che qualcuno possa conoscere, neanche se volesse. 
Non sapevo che esistesse e si è aperta quando ho deciso di accettare il 

compromesso più meschino e macabro della mia vita: negarmi l’Amore di mio figlio sopprimendone la vita, in cambio, così credevo, della mia libertà e tranquillità.

Ma quale tranquillità! Quale libertà! Le ferite si rimarginano, le delusioni si superano… Invece, ora, sono rimasta intrappolata nel rimorso di non aver saputo pazientare per riflettere e capire ciò che sarebbe stato più giusto, per me e per mio figlio. E’ un rimpianto che pesa e mi schiaccia come un macigno.  
Il 2 novembre 2006 ho conosciuto l’inferno…  
E’ trascorso poco più di un anno da quel giorno maledetto, eppure ne rivivo ogni istante con dolorosa lucidità; ogni volta, la sofferenza si rinnova, procurandomi un male indicibile.  
Più cerco di dimenticarlo, più forte né è il ricordo. 
Esso rimbomba forte nel petto e solo io posso ascoltarlo, perché solo io so ciò che è avvenuto in quell’ospedale, dove non potevo invocare nemmeno la pietà di Dio, perché non degna della sua Misericordia. Sapevo di peccare, ma solamente ora mi rendo conto di aver ucciso…  
Io, da tutti reputata dolce, matura e sensibile, ho ammazzato - perché di questo si tratta - il mio bambino. Io che avrei dovuto proteggerlo, sono stata la sua aguzzina…  
Non potevo sapere quanto sarebbero state vere le parole che la mia amica Liliana mi aveva ripetuto più di una volta quando le comunicai la mia decisione: 

“Pensaci bene. Non potrai più tornare indietro…”.  

Sapevo benissimo che non si trattava di un “agglomerato di cellule”. Avevo visto, con i miei occhi, durante una lezione di medicina legale, all’Università, un piccolo embrione di appena un mese estratto da una donna deceduta, che non sapeva di essere incinta. Il mio professore di allora, fortemente contrario all’aborto, lo aveva “conservato” in Istituto e aveva desiderato che tutti lo vedessero affinché ognuno si rendesse conto della menzogna di chi, favorevole all’interruzione di gravidanza, si nascondeva dietro espressioni inappropriate e ipocrite. E’ stata una delle emozioni più forti e belle che avessi mai provato. Eccezionale! L'embrione, già formato, piccolo come un pollice,aveva la testa, braccia, gambine, bocca… Solo aveva le dita ancora attaccate le une alle altre, gli occhi chiusi e il sesso indeterminato; al suo posto, infatti, c’era un buchino. Lo raccontavo a chiunque incontrassi con un'enfasi particolare, soprattutto per diffondere e portare avanti il messaggio che il mio professore, in quel contesto, aveva voluto ribadire a voce alta: 
“Sì alla vita. No all’aborto”. 
Quanta tenerezza mi aveva suscitato la visione di quel “cucciolo” - come lo avevo chiamato - “Io non lo farei mai. Un bambino, in qualsiasi momento Dio voglia, sarà una Grazia” - così mi riempivo la bocca. 
Nulla, di quello che ero, ho rispettato. 
Ho dato un calcio a quella che sarebbe stata la mia felicità incondizionata. 

Cosa c’è di più abominevole di una mamma che toglie, volontariamente, la vita al proprio figlio, sangue del suo sangue, carne della sua carne? 

Cosa c’è di più sporco di me stessa? Mi sono macchiata del sangue versato dal MIO BAMBINO per una mia incancellabile colpa e per il mio imperdonabile egoismo. 

Testimonianze 






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