venerdì 10 maggio 2019

Il suo destino è nelle tue mani, non negarglielo … almeno tu.



Testimonianze 


… Trascorsi quelle due settimane in totale stato di shock. Alternavo momenti di rancore spietato nei confronti di Marco e delle sue ultime parole, ad altri di dolore profondo. Provavo disprezzo e pena per me stessa, dispiacere e cordoglio immenso per quel piccolo essere innocente. Avevo stabilito che doveva tornare indietro lì, da dove era venuto, perché senz’altro lì sarebbe stato più felice che con me, visto l’inferno in cui stavo vivendo, e da cui credevo non sarei mai più uscita. 
Spesso gli parlavo, di notte, piangendo. Gli dicevo, avendo una nitida sensazione che fosse un maschietto: “Amore mio, perdonami, so che puoi comprendere le ragioni del mio gesto, perché tu sei ancora in cielo, e lì resterai per sempre. Da lì potrai vedere e capire molte più cose di quanto non potresti mai fare qui, tra noi poveri esseri umani, infimi e disperati. Non pensare mai che io non ti ami, perché io ti adoro e ti porterò sempre nel mio cuore. Se faccio questo è solo per proteggerti, per evitarti mille sofferenze atroci, quelle sensazioni di rifiuto che proveresti se venissi al mondo in una situazione disastrosa come questa… Sono certa che proveresti un enorme senso di colpa, che ti sentiresti responsabile della mia infelicità. Forse mi odieresti profondamente, e ti chiederesti ogni giorno perché la tua mamma ti ha fatto nascere… Per farti stare male? Per umiliarti? Per colpevolizzarti dei suoi fallimenti? Perdonami, ti prego, e cerca di capirmi, se puoi, amore mio…”. Andavo avanti così tutta la notte, ogni notte per quelle due atroci, incancellabili settimane. 
 Di giorno non parlavo con mia madre. Ero troppo amareggiata e disincantata, e poi mi vergognavo di ciò che stavo per fare, malgrado non fossi del tutto cosciente della gravità della mia decisione. Se uscivo per fare delle commissioni o per andare al lavoro, indossavo una maschera, un sorriso disperato che tentava di nascondere la tragedia che stavo vivendo, ma non riuscivo mai a smettere di pensarci… In quei giorni Marco mi cercò spesso, mi telefonava ogni giorno, ma io non gli risposi più, neppure una volta. Oramai avevo deciso. Ci avevo riflettuto abbastanza, ed ero così arrabbiata, lacerata dal dolore, mi sentivo talmente umiliata che qualunque cosa mi avesse detto, io non avrei mai cambiato idea. 
Perlomeno era ciò che pensavo in quei momenti, quando leggevo il suo nome che appariva intermittente sul display del mio cellulare… La sensazione più atroce che mi è rimasta dentro è l’incertezza sui macabri pensieri di quei giorni: è il dubbio su come le cose sarebbero potute andare, se solo avessi calpestato per un attimo il mio orgoglio, la mia dignità, e lo avessi ascoltato… perdonato. 
Ora ammetto che mi sarebbe di grande aiuto poter scaricare ogni mio senso di colpa su di lui, su mia madre, sul “destino”… ma non posso sfuggire alle mie schiaccianti responsabilità in tutta la vicenda. Avrei dovuto ascoltare Marco, rispondere alle sue innumerevoli chiamate, magari sentirmi ulteriormente umiliata dalle sue cattiverie, e avrei dovuto scegliere di sacrificare la MIA vita, e non quella del mio angelo. 
Non è giusto neppure dar la colpa al destino… cos’è? Chi è il destino? In fondo credo che l’unico essere che potrebbe dipingere l’essenza del destino sia Dio, e certamente non è stato Lui a spingermi a compiere un gesto così atroce… 
La verità è che la colpa è solo mia. 
Arrivò purtroppo il giorno in cui la mia decisione doveva concretizzarsi. 
Quelle due settimane erano volate via, e io non potevo più rimandare. 
Avevo deciso. 
Ed ero anche convinta che avrei dovuto farlo il prima possibile, perché così anche il mio piccolo avrebbe sofferto di meno. Era un feto di otto settimane, non potevo attendere che crescesse ancora. Dovevo trovarmi in clinica di buon’ora, per fare gli ultimi esami, e per aspettare il mio turno. Purtroppo non ero l’unica ragazza che aveva deciso di interrompere la propria gravidanza. 
Ci andai con mia madre, mio padre non venne mai a conoscenza di nulla (almeno questo mi consola: non avergli dato questo dolore). Avevo un incredibile vuoto nella mente. Rifiutavo di pensare, di capire, di credere che quello che stavo per fare era un gigantesco errore, un peccato imperdonabile. 
Non ero lucida, non ero io. Desideravo solo che tutto avvenisse in fretta, perché prima sarebbe finita e prima avrei potuto cercare di dimenticare. Pensare questo fu un altro madornale errore: finché avrò vita non dimenticherò. 
Non ricordo bene la successione cronologica degli eventi, i miei ricordi sono confusi, oscurati dal dolore, e indicibilmente strazianti. 
Dovevo trovarmi in clinica alle sette del mattino, per fare alcuni accertamenti, un’ecografia veloce, e firmare una sorta di liberatoria per svincolare la struttura da ogni responsabilità. Nessuno mi chiese perché avessi preso tale orribile decisione. Nessuno se ne dispiacque. Erano maledettamente abituati a quella ignobile routine… Durante l'ecografia non riuscii a dire neppure una parola, tanto meno a chiedere spiegazioni sull’immagine che stavo vedendo. Istintivamente avrei voluto informarmi sullo stato di salute di quella creatura innocente, ma non lo feci poiché mi sembrava profondamente cinico da parte mia. Dopo questo esame fui accompagnata in una stanza, nella quale trovai anche un’altra ragazza, che aveva un paio d’anni più di me, e con cui iniziai a parlare, per cercare di non pensare al momento che stavo vivendo. Ci confidammo un po’ sulle ragioni che ci avevano spinto ad arrivare in quella camera. Lei mi disse che era venuta insieme al suo ragazzo, perché avevano deciso, di comune accordo, che era troppo presto per avere un bambino, e che non avrebbero potuto trascorrere molto tempo con lui, perché troppo impegnati nel lavoro. Disse che le dispiaceva che quel bambino crescesse con i nonni, e che quindi preferiva “non tenerlo” e rimandare la sua maternità… 
Era amareggiata, ma paradossalmente serena che anche il suo fidanzato fosse d’accordo con lei. Si vantava addirittura del fatto che lui le fosse vicino in quel momento, non si aspettava tanto calore da parte sua. 
Io ero stravolta, non parlavo più. Provavo vergogna per il fatto di essere lì da sola, con mia madre in sala d’attesa, e il padre del mio bambino chissà dove. 
Allo stesso tempo, pur non essendo affatto nelle condizioni di criticare quella ragazza, trovavo profondamente ingiusto e immotivato il suo gesto. Pensavo che se fossi stata io al suo posto, se avessi avuto ancora accanto il mio ragazzo, non avrei certo deciso di interrompere la gravidanza per delle banalissime, insignificanti questioni “pratiche”. Sono certa che anche lei si sia pentita amaramente della sua decisione, forse anche più di me… 
Un’infermiera ci fece spogliare ed indossare un camice verde, ci disse di togliere gli ori e di attendere. 
Dopo circa un quarto d’ora ci portarono, una alla volta, in sala pre-operatoria, dove io scoppiai in lacrime, finché arrivò l’altra ragazza, e mi chiese, con una voce triste, se mi stessi pentendo di quella decisione. Non riesco a pensare a quel momento senza ricominciare a piangere… 
Non le risposi in quel momento, non riuscivo a parlare, ma sentivo che non potevo tornare indietro. 
E’ questo il momento in cui i ricordi mi portano ad odiare mia madre. Era l’unica persona che sapeva, l’unica che avrebbe potuto fermarmi, l’unica che aveva acconsentito ad accompagnarmi in quell’inferno, e ad aspettarmi quasi con disinvoltura, come se stessi facendo un banale esame del sangue. Mia madre è stata un mostro, e non lo ha mai capito. 
Quando fu il mio turno mi trasportarono con una barella in sala operatoria. 
Ricordo le facce sorridenti, persino dolci, benevole, di quei mostri dei medici, che mi spiegarono quale posizione avrei dovuto assumere e poi, avvicinandomi una maschera con dentro dell’anestetico, mi chiesero di inspirare e contare fino a dieci. 
Mi addormentai all’istante, in quell’istante in cui avrei dovuto fermare tutto, scendere da quel lettino maledetto, e scappare via. Avrei dovuto … ma non lo feci. In quel momento stavo distruggendo due vite, senza riuscire a rendermene conto. 
Quando mi svegliai provai un forte dolore al ventre, non riuscivo quasi a muovermi, e perdevo sangue. 
Nel mio cuore ero infinitamente triste, disperata, azzittita dal dolore fisico e morale che stavo provando, mentre il mondo lì fuori non si accorgeva di nulla. Mi riportarono nella camera in cui avevo atteso il mio turno. Lì trovai l’altra ragazza al telefono con il fidanzato che l’aspettava al piano di sotto. Gli spiegava che stava bene, che era tutto a posto, che era andato tutto bene, che aveva un po’ di dolore, niente di grave, e che poco dopo sarebbe scesa. 
Io non parlavo con nessuno, non avevo nessuno a cui poter dire come mi sentivo, anche perché ero così sconvolta che non sarei riuscita a parlare in ogni caso, tanto era grande il mio dolore, e il mio senso di colpa. 
Stavo zitta, e cercavo di non pensare a quello che era accaduto. Provai a non pensare a niente e a nessuno. Tentavo di dimenticare quella sensazione orrenda, quel vuoto incolmabile che provavo dentro, e che in realtà non mi hai MAI abbandonato. Mi accompagna tuttora. 
Quando ripresi un po’ di energie, l’infermiera mi accompagnò giù, dove c’era mia madre, che si preoccupava solo del mio stato fisico. 
Mi chiese se avessi la forza di camminare o meno, se riuscivo ad arrivare alla macchina, e nient’altro. Il ritorno a casa fu di un silenzio assordante, che mi scoppia tuttora nelle orecchie, silenzio in cui cercavo di sfuggire al ricordo, così terribilmente vicino di quell’esperienza, misto al torpore dell’anestetico. 
Arrivammo a casa. Mi misi a letto perché non avevo la forza di restare in piedi. Era ora di pranzo, mio padre arrivò dal lavoro, chiese di me, e mia madre disse che avevo rimesso e non mi sentivo bene, per cui stavo cercando di riposare un po’. 

Quando arrivi a prendere una decisione così dolorosa, così tragica, così crudele, non c’è nessuna giustificazione, nessuna spiegazione. 
Non sai quello che stai facendo. 
Non capisci l’importanza vitale che ha quel gesto così brutale e impulsivo. Non ti rendi conto del dolore immenso che andrà ad insediarsi, in maniera indelebile, nel tuo cuore. Né capisci quanto questa scelta, presa in pochi giorni, sconvolgerà tutto il corso della tua vita, intorno a te, e soprattutto dentro di te. 
La disgrazia più grande che ti può capitare, in una situazione di per sé già tanto delicata, è non avere accanto la persona giusta, alla quale basterebbe semplicemente spendere due parole, dettate dal cuore, per salvarti per sempre dall’inferno… per rendere la tua vita felice, senza rimpianti, senza rimorsi indicibili, che ti ruberanno il sonno per sempre e distruggeranno tutti i tuoi sogni. 
Quelle parole potrebbero avere il potere supremo di proteggerti dalla tua follia, dalla tua incoscienza, da quel mostro che si nasconde in ognuno di noi (anche se a volte non ne abbiamo la consapevolezza). 
Quella persona, in quel momento, avrebbe la facoltà di trasformare ogni tua lacrima in un sorriso. Potrebbe farti percepire la grandezza di un gesto d’amore, di un crudele atto di egoismo che muta in dedizione. Potrebbe trasformarlo in splendente generosità, in calore umano, in amore grande e profondo, permettendo che una situazione apparentemente insostenibile, come per incanto, diventi un sogno: quel sogno che facevi da bambina, giocando con le bambole… 
Allo stesso modo però, le sue parole potrebbero essere così fatalmente crudeli, così indifferenti al tuo dolore, all'atrocità del gesto che stai per compiere (ma di cui purtroppo non sei consapevole), da dilaniarti l’anima per sempre… Da lacerarti il cuore con una ferita così profonda che il tempo non riuscirà in alcun modo a cancellare. Anzi, ogni giorno che verrà, sarà per te motivo di angoscia, di afflizione, di sofferenza, di rimorso… E sarà ogni giorno più difficile continuare la tua vita, nel cercare di convincerti di poter vivere anche tu come gli altri, e che a poco a poco resterà solo un triste, lontano ricordo di ciò che è successo. 
Quale errore imperdonabile non sai di commettere formulando questi pensieri “fatalistici”, distaccati persino, come non appartenessero a te. Come se quello non fosse tuo figlio, non fosse una parte di te, come se non stessi negando l'esistenza ad un essere umano, ma semplicemente facendo una scelta difficile di vita… Quella non è una scelta di vita ma, se mai, una scelta di morte! 
Quelle riflessioni misere, circoscritte allo stato d’animo di quei giorni, così insignificanti rispetto a tutti gli anni che verranno, ti indurranno a vivere senza entusiasmo, senza alcuna gioia, con la voglia di piangere sempre, di morire una volta per tutte, finalmente… 
Ogni mattina, al tuo risveglio, desidererai con tutta te stessa che arrivi presto sera, così che tu possa infilarti nel letto per chiudere gli occhi e cercare di dormire il più a lungo possibile, per non pensare, per scacciare i pensieri tristi, i ricordi e il rimpianto per la scelta che hai fatto, e di cui ti pentirai per sempre. 
Ma non servirà a nulla neanche questo. Restare sola con te stessa ti farà ancora più male. Crederai di poterti sentire più libera, lontana da sguardi curiosi e indiscreti incrociati durante il giorno. Ma non sarà così. 
La solitudine e il vuoto in quei momenti terribili ti assalgono, i pensieri malinconici si ingigantiscono. Il dolore diventa disperazione, non riesci a dormire, perché la colpa è solo tua. 
Vorresti gridare, ma non puoi farlo perché non puoi farti sentire, non avresti il coraggio di spiegarne la ragione… Vorresti che le tue lacrime ti riportassero indietro nel tempo, che il pentimento sincero abbia il potere di darti una seconda possibilità… Ma sai che non è così. 
L’esperienza dell’aborto è un incubo agghiacciante, che spero tanto possa non ripetersi mai, possa non essere mai più vissuto da nessun’altra donna sulla faccia della terra. Purtroppo però, mi sento impotente al pensiero di non poter fare altro che scrivere, scrivere parole su parole, per cercare di far comprendere la disperazione più profonda attraverso la descrizione della mia dolorosissima esperienza, ma chissà se serviranno mai a qualcuno… a proteggerlo da una tragedia così grande, a salvare non una, ma due vite… Almeno questo spero: che questo mio infernale tormento possa aiutare qualcun altro a non provarlo mai. Mai. Perché da quel giorno in poi, vivere sarà la tua pena più grande, ma in quel momento non potrai capirlo. 
Quando non riesci ad avere uno sguardo ampio sulla tua vita, non riesci ad uscire fuori da te stessa, dal tuo infimo egoismo. Non riesci a vedere quanto sia ingiusto, sbagliato, riprovevole e indegno il tuo gesto. Tutto diventa “normale”, viene banalizzato dal contesto, come fosse una scelta pari a qualunque altra… In realtà è la scelta più importante della tua vita. Non potrai dimenticare mai. 

Ad essere onesta non percepii fino in fondo la reale, atroce gravità del mio gesto finché non passò qualche mese, durante il quale ero persino convinta di aver fatto la scelta giusta per me, per il piccolo e per il mio ex-ragazzo, che speravo di non rivedere mai più. Decisi di voltare pagina, cercai di farmi dei nuovi amici e mi iscrissi all’Università, con l’intenzione di prendere una seconda laurea: qualunque cosa pur di non fermarmi a riflettere… 
Fu tutto inutile, e patetico. 
Durante le lezioni, a contatto con i miei nuovi compagni, diciottenni, mi sentivo estremamente sola, e diversa... Loro avevano una freschezza e una sfrontatezza tipiche della loro età e della loro condizione di studenti alla prese con i primi studi veramente impegnativi e piacevolmente stimolanti. 
Nei loro occhi si leggeva chiaramente il senso di onnipotenza che erano convinti di possedere. Credevano di aver capito tutto, ormai, della vita, che niente e nessuno avrebbe potuto ridestarli dal sogno che stavano vivendo, che quegli anni meravigliosi non avrebbero mai avuto fine. 
Ed io, seduta insieme a loro, intenta a nascondere il senso di spaesamento che mi assaliva ogni volta che prendevo posto in aula, li osservavo con un’infinita tristezza. Pensavo a quanto fossero (in realtà) ancora ingenui, talmente immaturi da non riuscire a vedere, a capire quanto la vita possa essere ostile, crudele, e ti si possa rivoltare contro in un istante, distruggendo ogni tuo più piccolo entusiasmo di essere al mondo. Dopo qualche tempo, i miei pensieri divennero altri, poiché i rimorsi di coscienza cominciavano a profilarsi nella mia mente, piano piano, giorno per giorno, diventando sempre più dolorosi. Fino a che non fu tutto improvvisamente chiaro e devastante. Fino a che non mi resi conto, fino in fondo, di ciò che ero stata capace di fare. 
Allora non ci fu più spazio per alcuna riflessione lucida. Piangevo, piangevo e deliravo, soprattutto di notte, quando nessuno poteva sentirmi, quando nessuno poteva intuire il mio dolore, il motivo delle mie lacrime, della vergogna e dei rimorsi che mi consumavano senza pietà. 
Mi tiravo i capelli, e mi davo dei pugni violenti sulla fronte, guardandomi allo specchio per capire che razza di persona riflettesse, per capire chi io fossi veramente. Il mio intento era di riuscire a piangere più forte, di fare uscire fuori tutta la mia disperazione, della quale mi sentivo incapace di disfarmi. 
Cercavo un pretesto, una ragione per patire, perché in fondo desideravo solo espiare la mia colpa, pagare, soffrire fino al giorno della mia morte, che speravo imminente. Ma ogni giorno, puntualmente, dovevo svegliarmi la mattina, dovevo aprire gli occhi e cercare di far finta di nulla. 
Desideravo solo restare a letto, ed era un sacrificio enorme uscire di casa e tentare di condurre una vita normale. Io non ero normale. Mi ero macchiata di una colpa che mi strappava ogni diritto di considerarmi una persona “normale”; mi sentivo un mostro. E’ passato un anno e mezzo da quel maledettissimo giorno, ma non è cambiato niente. Non ho più sentito Marco, qualche volta mi è capitato di incontrarlo per caso… ma ormai era divenuto un estraneo. Sono rimasta sola. 
Ho tanti amici, ma mi sento ugualmente sola… 
Il dolore è sempre lì, a volte sembra assopirsi, per qualche istante, ma poi ritorna, sempre più lacerante. Non mi dà tregua, mi perseguita. Il senso di colpa, misto alla pena che provo per quell’Angelo cui ho negato TUTTO, è una sensazione terribile, che spero non provi mai nessuno nella propria vita. 
Il tempo non è in grado di cancellare quella sensazione d'impotenza, di crudeltà, d’indescrivibile rimpianto che ti attanaglia ogni giorno; al contrario, ti tiene lucida per ricordarti costantemente il tuo imperdonabile errore. 
Quando vivi un’esperienza dolorosa come la mia, andando avanti nel percorso della vita, quella tristissima scelta ti apparirà sempre più nitida, in tutta la sua disumana essenza. 
Avrai tanto, troppo tempo per riflettere e per capire fino in fondo l’entità del disastro cui hai dato luogo. Capirai solo allora che valeva la pena di aspettare ancora un giorno, di confidare il tuo stato d’animo ad una persona in grado di aiutarti, magari ad un sacerdote, se pur con un po’ di vergogna; di non agire d'impulso, in un momento di rabbia, ma di sforzarti ad andare oltre quegli attimi di smarrimento. Perché c’è sempre un motivo per salvare un bambino dalla morte. Perché non spetta a te decidere quale debba essere il suo destino. 
Perché tu sei qui, lui non c’è e non ci sarà mai, e la colpa è solo tua. E’ un fardello troppo pesante da sopportare per la tua coscienza. 
Poter guardare i suoi occhietti resterà il tuo sogno più grande, disperatamente cercherai un volto da dare a tuo figlio, un profilo, un sorriso… 
Ma resteranno tutte malinconiche illusioni bagnate da lacrime amare. 
Quel bimbo che hai rifiutato non potrà tornare più. 
Mai più. 


Conclusione 

 Rivolgo a te queste parole, come tutto il senso di queste dolorose pagine raccontate con le lacrime agli occhi. A te, piccola donna, che forse in questo momento ti trovi nella mia stessa condizione di allora, a te che forse sei ancora in tempo… Me lo auguro tanto, con tutto il cuore, e mi auguro che il sacrificio enorme che ho fatto per raccontarti la mia storia, possa servirti a capire quanto sia ingiusto negare una vita, quanto dolore possa portare con sé una scelta così drastica, e che senso di morte conserverà il tuo cuore dopo tale esperienza. 
Non farlo, non farlo mai, in nessun caso. 
Pensa sempre alla tua creatura come ad un miracolo, in qualunque modo sia giunta fino a te. Anche se tutto il resto fosse buio e triste, lui sarà la tua stella, lui ti salverà da te stessa. 
Ama immensamente il tuo Angelo, sacrifica tutto per lui o per lei. Non te ne pentirai neppure per un istante. 
E soprattutto, non credere a coloro che ti diranno che quello non è ancora un bambino, che si tratta semplicemente di “cellule” in trasformazione… Ognuno di noi è stato questo a suo tempo, ma ad ognuno di noi è stata data l’opportunità di crescere, lentamente, fino a diventare adulto… E anche noi siamo stati bambini, dei bambini stupendi che, come dei piccoli angeli, hanno portato tanta gioia intorno a loro. 

Pensa a questo, a quanto amore potrà darti tuo figlio, pensa che la sua vita dipende esclusivamente da te, che lui sta vivendo solo grazie a te, e che di questo ti sarà grato per sempre. 

Il suo destino è nelle tue mani, non negarglielo … almeno tu.

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