MICHELA
La mia lotta per scappare dall'Inferno
Lo schiaffone del parroco
Quando venni adottata pensai che finalmente avevo trovato una famiglia e che da allora in poi avrei potuto vivere tranquilla, insieme con il mio fratellino. In quegli anni Settanta, però, non c'era ancora una «cultura dell'adozione», come si direbbe oggi, con la consapevolezza dei vari aspetti collegati alla questione e delle difficoltà che si sarebbero dovute affrontare tutti assieme. Io certamente non avevo un carattere facile, ma anche i miei genitori adottivi non erano preparati al loro difficile compito, né avevano qualche punto di riferimento su cui contare.
Nei primi anni hanno cercato di darci quella basilare educazione che in collegio ci era mancata, anche a riguardo delle cose più elementari. Basti pensare che a tavola io mangiavo esclusivamente la pastasciutta e il pane: non ero abituata ad altro. Quando per la prima volta mi comprarono un gelato, io mi rigiravo il cono fra le mani perché non l'avevo mai visto prima. E così era per la minestra, per la verdura, eccetera.
Però probabilmente le loro aspettative nei miei confronti erano diverse da ciò che io ero in grado di offrire. Avevo un atteggiamento ribelle che non facilitava i rapporti fra noi, mentre loro erano eccessivi nelle reazioni. Per esempio, una volta a mio fratello capitò di rompere un vaso. Quando la mamma se ne accorse cominciò a urlare chiedendo chi fosse stato. Io vidi mio fratello in difficoltà e decisi di accusarmi al suo posto, ma lei se ne accorse e successe un caso di stato, per giorni e giorni continuò a chiedermi: «Perché ci hai detto questa bugia?». Alla fine mi portò da una psicologa che mi sottopose ad alcuni test e venne fuori che avevo un'intelligenza superiore alla norma: così mia madre la smise di ossessionarmi e non ci andammo più.
Una cosa che ricordo dei primi tempi nella mia famiglia adottiva era la sensazione che mio padre avesse un comportamento anormale, perché non mi picchiava quando facevo qualche guaio. Ero troppo abituata alle punizioni del collegio, cosicché avevo cominciato ad alzare il tiro, provocandolo con azioni sempre più forti. Quando finalmente un giorno la combinai talmente grossa da farlo uscire dai gangheri, me le diede di santa ragione e io ne fui proprio contenta.
Nel frattempo ci avevano però pensato altri familiari a farmi violenza. Un mio cugino, più grande d'età, cominciò ad abusare di me con la scusa del gioco del dottore. E dopo di lui ci fu un altro parente molto stretto che mi violentò più volte. La cosa strana, però, era che tutto questo non mi faceva sentire una vittima. Per me, in un certo senso, il sesso era una cosa normale, già sperimentata: cosicché io cercavo di compiacerli, di non deluderli, perché in quelle occasioni sentivo di valere qualcosa, mi sentivo importante per qualcuno. A undici anni, in prima media, ho poi avuto il primo rapporto sessuale con un vero fidanzatino, un ragazzo che aveva tre anni più di me e frequentava la prima superiore.
Della prima comunione non ho grande memoria. Ricordo solo il vestitino come una sposa, che mi causò un enorme disagio. Dopo ci fu il pranzo in famiglia, e anche quel giorno le ho buscate perché avevo fatto il broncio dopo che un mio zio mi aveva detto una cosa scema e io gli avevo risposto male. La cresima invece me la ricordo bene. La feci a dodici anni, invece che a undici: la motivazione ufficiale fu per farla insieme con mio fratello,
che era di un anno più piccolo, ma in realtà fu la suora a rinviarmi, perché lei voleva che io sapessi le preghiere a memoria e io per partitopreso mi rifiutavo.
Quando giunse il giorno della cerimonia, venne in parrocchia il vescovo e tutti i bambini gli baciavano la mano. Quando è stato il mio turno, l'ho guardato e gli ho detto: «No, io la mano non te la bacio perché mi fa schifo». Mi è arrivato uno schiaffane del parroco che mi ha girato la faccia dall'altra parte. Credo che il ve- scovo se la ricordi ancora oggi la scena... Ecco perché a lungo ho avuto la convinzione che chi diventava prete e suora lo faceva per incapacità di fare un altro lavoro: davanti a una bambina che dice così al vescovo c'è da farsi una risata, e invece a me è arrivato un ceffone davanti a tutti!
Per scaricarmi - ero davvero un maschiaccio - mi davo allo sport, soprattutto al calcio. Già verso gli otto anni andavo allo stadio e vedevo 90° minuto, in compagnia di mio nonno che era un vero tifoso. Inconsciamente, volevo andare contro le regole. E comunque nel paese dove vivevo allora c'erano soltanto il campo di calcio e il fiume: perciò ho imparato a giocare a pallone e a nuotare.
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