La preghiera rimedio alla solitudine
Ora potete capire perché chi non prega è un uomo solo. Di una solitudine profonda che egli sperimenta nel luogo più intimo della propria anima, in quella parte di noi così personale che non può essere partecipata a nessuno, nemmeno alle persone più care o agli amici più intimi. Lì, dove nessuno ci raggiunge, il nostro io si trova solo con sé stesso e con l’unica Presenza possibile, quella di Colui che tiene il nostro essere nelle sue mani perché lo ha creato e lo conduce con amore.
Quando non c’è preghiera, questa presenza è silenzio, e il cuore si riempie di solitudine. La solitudine, a volte pesante, di chi rimane solo con le sue paure, con i suoi timori, con le sue oscurità, le sue inquietudini o, peggio, con le sue miserie e con i suoi peccati. Allora, un uomo potrà anche avere molti impegni che lo assorbono, molti interessi che lo appassionano, molte persone che affollano la sua giornata al punto da apparire sicuro e realizzato, e potrà - forse - guardare alla preghiera come ad un infantilismo ridicolo. Non credetegli! Tutto quel chiasso non è che un alibi, che può apparire convincente perché giustificato da contenuti umani anche buoni e apprezzabili, ma che rimane inevitabilmente un alibi; nasconde la paura di guardarsi dentro e di affrontare sé stesso, la paura di precipitare in un silenzio interiore che è molto simile al vuoto.
Si è detto che l’uomo è un essere “dialogico” perché ha bisogno di comunicare; anzi, è proprio comunicando che egli può cogliere sé stesso come soggetto nella sua identità di persona. Comunque sia, non c’è dubbio che il vero dialogo che rivela l’uomo a sé stesso e che rende possibile ogni altro dialogo è quello che l’uomo può stabilire con il suo Creatore. Quando manca il colloquio con Dio, ogni altra comunicazione si corrompe perché diventa un soliloquio dell’io che si confronta, si misura, si inquieta, cerca spettatori o complici, per cadere poi nel bozzolo dei propri discorsi interiori come dentro una tomba. Spesso prende la strada di un soliloquio triste che finisce nel monologo della disperazione.
Badate, non sto facendo analisi psicologiche, cerco solo di aiutarvi a comprendere l’invito dell’apostolo Giacomo: “Qualcuno di voi è preso dalla tristezza? Preghi!” (Gc.5,13). Non c’è tristezza più pesante della solitudine del cuore quando si è perduto l’abito della preghiera, perché non c’è compagnia più triste di quella che uno fa a sé stesso quando si è allontanato da Dio; ha infatti perduto l’unica presenza che può strapparlo alla solitudine interiore e al peso della sua miseria
Avete mai osservato come il monaco che abita nella cella o nel deserto non vive mai solo, proprio perché lo accompagna una Presenza che non solo gli riempie la vita, ma anche lo unisce profondamente a tutti gli uomini? Ebbene, dobbiamo imparare a non vivere soli nel rumore delle nostre città, a non perdere mai la presenza di Dio; dobbiamo sforzarci di vivere “sempre accompagnati” (Escrivà), sapendo che il Signore, quando la nostra anima è in grazia, abita il centro del nostro cuore. Perciò, in tutte le strade e in tutti gli ambienti di questo mondo, quelli puliti e onesti dove un cristiano e un uomo di onore può vivere, lì è sempre possibile vivere la presenza di Dio avere con lui un colloquio assiduo e intenso. Perciò, ripeteva il Beato Escrivà insegnandolo a migliaia di anime: “La nostra cella è la strada”.
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