IL CARDINALE
Il Ghislieri non fu creato nel primo concistoro tenuto da Paolo IV, benché se ne fosse già fatto il nome; non mancarono perciò i soliti motteggiatori, che cominciavano a parlare di “caduta in disgrazia”. Ma il 15 marzo 1557, senza alcun preannunzio, il Papa lo chiamò a far parte del Sacro Collegio. A richiesta del nuovo eletto la chiesa della Minerva ebbe titolo cardinalizio, che fu assegnato a lui; titolo ch'egli cambiò più tardi con quello di S. Sabina sull' Aventino.
Il Papa, non contento di averlo investito d'una tale dignità, gli volle conferire un'autorità ancora maggiore, non più conferita a nessun altro, nominandolo Inquisitore Generale di tutta la cristianità, e assoggettando alla sua giurisdizione tutti gli inquisitori e gli stessi vescovi. E per rendere più rispettabile agli occhi di tutti questa carica di altissima importanza, Paolo IV volle preconizzare solennemente in concistoro il titolare. Soltanto la gran fama di virtù che godeva il cardinale Alessandrino, poté impedire ai suoi colleghi di giudicare esorbitanti queste sovrane attribuzioni. Dopo San Pio V, tale carica è sempre stata occupata dallo stesso Pontefice, come Prefetto del S. Ufficio.
Da cardinale, il Ghislieri non diminuì in nulla l'austerità della sua vita. Sotto la porpora ci doveva essere anzitutto il religioso; perciò introdusse per primo il costume che i religiosi vescovi o cardinali, conservassero nei vestiti il colore del rispettivo Ordine.
Conoscendo molto bene i motti satirici rivolti dal popolo a certi ecclesiastici troppo teneri verso i loro parenti, fece sapere alla propria famiglia, che incominciava a inorgoglirsi alquanto della dignità d'uno dei suoi membri, e ne sognava dei vantaggi, che deponesse ogni speranza di far fortuna. Una sua nipote tentò d'insinuarsi destramente, perché venissero appagati i propri desideri di ambizione.
Il cardinale le rispose con una lettera del 26 marzo 1558 molto cortese, ma risoluta, raccomandandole più moderazione, e dicendole che l'unico mezzo per conciliarsi la sua benevolenza, era non già quello di inorgoglirsi di uno zio elevato in dignità, ma il santo fervore della divozione. Paolina, la nipote, osò sostenere, che casi richiedeva la dignità cardinalizia; e il Santo le fece intendere che casi voleva la sua condizione di povero religioso, e che nessun dono, in qualche modo degno di biasimo, avrebbe mai contristata la sua coscienza. Se per suo servizio aveva preferito chiamare degli estranei piuttosto che dei paesani, l'aveva fatto perché si trattava di gente buona e onesta.
Nutriva un'affettuosa venerazione per quelli che convivevano nella sua casa, e se era severo quando si trattava di questioni dottrinali o di reprimere disordini, si mostrava affabile e dolce verso i suoi familiari. Ben lontano dall'imitare il lusso di qualche suo collega nel cardinalato, ridusse il numero delle persone di servizio, pensando più al bene della loro anima che all'eleganza delle loro livree. I cappellani e i valletti sapevano che, ponendosi al suo servizio, in luogo di sontuosità e feste principesche avrebbero trovato frugalità, divozione e perfino qualche pratica monastica; ma sapevano pure che il loro padrone, dolce e benigno, li dispensava sovente dai loro uffici, li trattava molto bene se malati e più che dare ordini procurava di edificarli.
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Paolo IV e per la sua tarda età e per i dispiaceri che gli recavano i suoi nipoti, non poté mandare ad esecuzione vasti disegni che aveva quando assunse la tiara. I suoi sforzi, contrariati, vennero meno, e dopo aver lottato sino a ottantaquattro anni, l'abile manovratore si spense il 18 agosto 1559, lasciando l'Europa settentrionale in preda alle guerre civili.
Il card. Alessandrino che l'amava, lo pianse assai, tanto più che il successore Pio IV, d'un naturale differente, più gioviale, meno asceta, sembrava seguire altre vie. Questi, fatto Papa, non solo concesse ai romani i divertimenti carnevaleschi, ma si mostrò molto duro coi Caraffa e i loro aderenti. Tollerò in pace che il popolo delirante distruggesse la statua di Paolo IV, eretta sulla piazza del Campidoglio, e lasciò che con vergognoso e inutile insulto, tra grida clamorose, ne facesse rotolare la testa nel Tevere. Quindi diede ordine che fossero arrestati i nipoti del suo antecessore e, fatto istruire a loro carico un processo, li condannò. Uno di essi mori in prigione, e due altri furono giustiziati sul ponte di Castel S. Angelo.
Il card. Alessandrino, che aveva goduto il favore del Papa defunto, rinnegato e oltraggiato, non aveva proprio da temere nulla? Molti prevedevano prossimo l'abbassamento del Ghislieri. Ma, sia che Pio IV ammirasse la sua virtù, sia che volesse pigliar tempo, lo confermò nella carica di Inquisitore Generale; però siccome il Papa, diplomatico di carriera, voleva governare in persona, lo nominò vescovo di Mondovì, in Piemonte, senza dargli esplicitamente la libertà di andarvi a fissare la sua residenza, sapendo che il Ghislieri, attaccato com'era al proprio dovere, se ne sarebbe andato da sé.
Cosi veniva alla chetichella allontanato da Roma uno dei consiglieri di Paolo IV, e uno dei cardinali indipendenti, capace di resistere senza paura, qualora fosse stato necessario, a dei progetti temerari o troppo umani.
Il cardinale Alessandrino lasciò Roma nel 1560, per recarsi a visitare la diocesi affidatagli, e mettere mano alle riforme richieste dall'incuria dell'autorità ecclesiastica vacillante e dalle insidie dell'eresia. Dopo una tappa a Bagni di Lucca, invitato dal Duca di Savoia andò a Genova, accoltovi con regale munificenza.
Entrato in diocesi e presone possesso, si diede interamente a ravvivare il fervore sonnacchioso dei canonici di Mondovì, e a rimettere in vigore l'esercizio del culto. Percorse quindi tutte le parrocchie, e predicando con unzione sacerdotale, ebbe la consolazione di ricondurre i fedeli all'osservanza delle leggi morali e alla frequenza dei Sacramenti.
I dolci ricordi dell'infanzia, e della prima sua giovinezza trascorse a Bosco e a Vigevano l'indussero a fare una visita a quei due paesi, e se non poté rivedere i suoi genitori, morti prima della sua elevazione alla sacra porpora, rivide insieme ad altri della sua famiglia i suoi vecchi confratelli e gli allievi del convento di Vigevano, e poté trovare tra loro un po' di ristoro alle inquietudini e alle gravi occupazioni della sua vita.
Egli pensava di non poter rientrare in Roma per un bel tratto di tempo; ma vi fu presto chiamato da un ordine improvviso del Sommo Pontefice. Pio IV aveva compreso che le funzioni d'inquisitore richiedevano la presenza del titolare, e d'altra parte S. Carlo Borromeo non cessava di persuadere lo zio, che i consigli dell' Alessandrino avrebbero accelerata la conclusione del Concilio di Trento.
I cardinali videro con piacere questo ritorno. Il Ghislieri, nonostante lo studio che poneva per essere dimenticato, finiva di farsi ricordare. Il card. Farnese, sempre pieno di fasto, aveva regalato al Borromeo una splendida carrozza con dei bellissimi cavalli, ma non osando fare una simile offerta all'Alessandrino, si limitò ad augurargli, augurio un po' pericoloso, la tiara.
Il Ghislieri intervenne veramente per troncare le questioni che trascinavano in lungo il Concilio? Può essere. E' però certo ch'egli ebbe parte in questa grave causa, coll'esortare a nominare legato il cardo Morone, come successore del cardinale di Mantova. E si sa con quale destrezza il nuovo plenipotenziario riuscì a guadagnarsi l'imperatore Massimiliano, e a impedirgli che prolungasse le sue trattative.
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Del Card. GIORGIO GRENTE
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