lunedì 28 ottobre 2024

Trasformata dalla Trinità

 


Lo stesso giorno, 18 maggio 1815, dopo il pranzo, nell’assistere alla novena della SS. Trinità, si tratteneva il mio spirito in santi affetti verso l’augustissimo sacramento; si protestava di voler star sempre con lui, e, piena di amore, offriva all’eterno Padre gli alti meriti del buon Gesù, per mezzo del quale offriva tutta me stessa all’augusta Trinità.

Tutto ad un tratto si sopì lo spirito e mi fu mostrata l’anima mia sotto la forma di nobilissimo tempio, dove vedevo magnifico altare, adorno di preziosi ornamenti, molto diversi dai nostri. Nel vedere tanta magnificenza, il mio spirito fu sopraffatto dall’ammirazione. Non poteva comprendere la cagione di tanta magnificenza. Terminata la novena, vidi apparire i santi patriarchi Felice e Giovanni che, avvicinatisi all’altare, aprirono il sacro ciborio, e presa nelle loro mani la sacra ostia, la posero in una sacra patena di oro finissimo, pieni di rispetto e riverenza, servendosi delle stesse cerimonie della Chiesa, la condussero nel tempio dell’anima mia, e la collocarono sopra il magnifico altare, come già dissi.

A grazia così particolare il mio spirito restò per qualche momento sopraffatto dallo stupore, estatica nel contemplare il grande amore del mio caro Gesù, quando improvviso dardo si vide dalla sacra ostia scoppiare e venne sollecito ad incendiare il mio cuore. L’amabile saetta mi fece morire e poi mi ridonò la vita. L’anima mia, piena di affetto, rivolta ai santi Felice e Giovanni: «Miei cari padri, deh, ditemi voi, dunque io più non vivo, ma vive in me Dio, che vita mi dà!».

Seguìto questo fatto, i santi patriarchi, pieni di compiacenza per il favore ottenutomi dalla divina Trinità, pieni di santo amore, unirono il povero mio spirito al loro sublime spirito, e ambedue li offrirono all’augusta Trinità. Restarono i sentimenti privi di umana forza e ogni idea sensibile dell’anima sparì; il corpo restò immobile almeno per ben tre quarti, poi con fatica e stento andai alla mia casa, e appena fui arrivata mi posi a sedere, e come morta affatto, senza proferir parola, senza cambiarmi l’abito, come sono solita.

Le figlie si affliggevano, vedendomi in quello stato di moribonda, pallida, che dà l’ultimo fiato. Per grazia dell’Altissimo, potei dire a loro: «Ritiratevi in camera, non vi prendete pena». A questo mio comando sovente si partirono, e mi lasciarono sola.

Oh, come in un baleno fu affatto incenerito il mio spirito dal prodigioso dardo! E per un’ora buona restai morta affatto. Quando tornai nei sensi, una nuova vita mi parve respirare. Ebbra di amore santo, con umile sentimento, piena di santo affetto, così presi a parlare: «Mio Dio, dimmi dove apprendesti amore, e come senza merito tu mi potesti amare. Mio Dio, più non rammenti l’enorme tradimento? Oh, prodigioso amore! io non ti comprendo!». La testa mi vacilla, e il mio cuore, ripieno di nobile carità; la celeste fiamma fa prova di scoppiar l’alma dal seno, una dirotta pioggia di lacrime scorrevano dagli eclissati occhi, che appena distinguevano; un’attrazione di amore unita a santi affetti mi tenevano sopita, senza poter riflettere. Intanto la bella fiamma ardeva nel mio seno e si struggeva in lacrime il povero mio cuore. Che grazia è questa mai, che non si può comprendere? Mio Dio, il tuo immenso amore fuori di te ti trasse, non ti si può comprendere! Per beneficarmi, cosa facesti mai? Mi mancano i termini, non posso più spiegare.

Beata Elisabetta Canori Mora


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