MICHELA
La mia lotta per scappare dall'Inferno
Inizia la battaglia contro tutto e tutti
Sono nata una quarantina d'anni fa, nel giorno in cui la Chiesa cattolica celebra la festa di santa Gemma Galgani. Una coincidenza davvero singolare e in qualche modo provvidenziale perché, come ho saputo soltanto dopo il mio ritorno alla fede, Gemma è stata una delle sante che più hanno combattuto contro il demonio, uscendone ovviamente vincitrice.
Mia madre, che viveva in una città del Nord Italia, aveva una relazione con un uomo sposato, con il quale ha generato me e altri cinque fratelli e sorelle. Dal canto suo, lui aveva altri tre figli nati nel matrimonio. Per un paio d'anni sono rimasta con la mamma. A un certo punto, forse per problemi economici o perché non riusciva a seguire da sola tutti i sei bambini, mi ha messa in un collegio, insieme con mio fratello minore.
Quando andrò alla ricerca delle mie origini, nel 2004, scoprirò che mio padre naturale era un personaggio importante, ammanigliato sia a livello politico che a livello ecclesiastico. Secondo quanto mi racconterà mia madre, lui agli inizi era molto affettuoso con me. Che cosa sia successo in seguito non l'ho mai saputo con esattezza.
A sei anni d'età fui adottata e dei quattro anni che avevo trascorso nella struttura non ricordo molto. Non è un'esagerazione dire che lì mi sentivo soltanto un numero, perché era proprio così: non ci chiamavano mai per nome.
Probabilmente devo aver rimosso tante cose che in quel luogo mi avevano procurato sofferenza: di fatto l'istituto, un po' di tempo dopo la mia uscita, venne chiuso a causa delle violenze che praticavano su noi bambini.
Una fotografia mi è però ben chiara nella mente. Avevo quattro anni all'incirca e mi trovavo in parlatorio in compagnia di una donna bionda, che mi parlava con tristezza. Si trattava dell'ultimo incontro con mia madre, che aveva deciso di firmare l'autorizzazione affinchè io fossi posta in adozione. Lei mi teneva le mani, quando suonò la campana che ci chiamava in refettorio. In collegio tutto funzionava al ritmo di questo segnale, che scandiva la giornata da quando ci svegliavamo a quando andavamo a dormire.
Io cercai subito di divincolarmi, perché il rispetto della campana era un imperativo categorico. Ma lei era probabilmente turbata nell'animo e mi trattenne ancora un po' nella sua stretta, per darmi l'ultimo saluto fra le lacrime. Perciò ho fatto tardi e non sono riuscita a mettermi al posto che mi toccava nella fila, dove ci si metteva in ordine dal più alto al più basso, ma sono finita in fondo. Quando stavo per sedermi a tavola, un assistente mi è venuto vicino e mi ha detto: «Tu non mangi, vieni via con me». Mi ha portata in una stanza bianca che non avevo mai visto, dove c'era un letto appoggiato al muro. Sembrava proprio un letto d'ospedale, con le sbarre di metallo sui due lati, e sul muro di fronte c'era uno specchio. Mi ha fatto spogliare e mi ha cominciato a colpire con un frustino. Ricordo benissimo i piombini che mi colpivano e mi laceravano la pelle. Poi mi ha detto di stendermi sul letto e mi ha fissato alla tempia, ai polsi e alle caviglie alcune piastrine fredde, che erano collegate con dei fili a un macchinario. Lo ha acceso e ho sentito delle scosse elettriche che mi facevano saltare per aria. Riflesso nello specchio, vedevo il mio corpo sobbalzare in modo assurdo su quel letto. Sono rimasta chiusa lì dentro per diversi giorni. Da quel momento capii che non c'era più da scherzare.
Qualche mese dopo mi trovavo in giardino e giocavo con una capretta. Stando all'aperto, non avevo udito la campana e, quando rientrai, successe la medesima sequenza. Questa volta, però, l'assistente abusò sessualmente di me e mi fece molto male. Per diversi giorni mi tennero da sola in quella stanza per curarmi, perché ovviamente mi erano rimasti dei segni. Sulle ferite mi mettevano un liquido che bruciava tantissimo. L'infermiera mi diceva: «Se obbedisci, non ti succede niente».
In un'altra occasione, non ricordo neanche che cosa avessi combinato, mi è arrivata una botta fortissima con il manico della scopa sulla colonna vertebrale. Un dolore atroce, che tuttora mi torna periodicamente, perché ci fu lo spostamento di una vertebra. Un ulteriore danno che mi porto da quei tempi è la fragilità dei legamenti, perché ci tenevano a lungo fermi nei lettini, in modo che non dessimo fastidio andando su e giù nei corridoi. E dura cercare di rimuovere i ricordi amari, quando ti ritrovi dei "promemoria" così...
La sensazione che mi è rimasta è che gli abusi su di me cominciarono dopo che mia madre non venne più a trovarmi, poiché aveva accettato di darmi in adozione. Nel mio subconscio, l'avvio dei problemi è strettamente associato al momento in cui quelle mani materne si staccarono dalle mie. Ecco perché il maggiore problema psicologico che nel corso della mia vita ho dovuto rielaborare, e nel quale corro tuttora il rischio di ricadere, è proprio quello dell'abbandono.
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