giovedì 13 febbraio 2020

La battaglia continua



L’ALTARE A FORMA DI “MENSA”

La “Mediator Dei” di Pio XII l’aveva già condannata!
“Is rector aberret itinere, qui priscam altri velit “mensae” formam restituere” (= È fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di “mensa”!).
Fu un’altra frode, quindi! Difatti, l’altare “versus populum” fu introdotto dal card. Lercaro, proprio con una “frode”, come lo si può provare dalla sua circolare del 30 giugno 1965, n° 3061, dalla Città del Vaticano ai Vescovi. Difatti, l’altare prese subito la forma di “mensa”, in luogo della forma di ara sacrificale, quale ne fu, invece, per oltre una millenaria tradizione!

Quella nuova forma la si potrebbe anche dire “ereticale”, dopo che il Concilio Tridentino, nella sua XXII Sessione, col canone I, aveva colpito con l’anatèma chiunque volesse sostenere che la Messa non è altro che una “cena”:

«Si quis dixerit, in Missa non offerri Deo verum et proprium Sacrificium, aut quod “offerri” non sit aliud quam nobis Christum ad manducandum dare, anathema sit!».

Dopo quattro secoli dal Tridentino, perciò, fu un gesto scandaloso quello del Vaticano II! Certo, la Costituzione Liturgica non osò dire, espressis verbis, l’eresia della “Messacena”, né disse apertamente che l’altare dovesse prendere l’antica forma di mensa e di essere rivolto al popolo, ma nessuno si fece vivo quando il card. Lercaro, abusivamente, nella sua Circolare scrisse:

«con il 7 marzo (1965) c’è stato un generale movimento per celebrare “versus populum”»...

e aggiunse questa sua spiegazione “arbitraria”:

«... Si è constatato, infatti, che questa forma (altare “versus populum”) è la più conveniente (?!) dal punto di vista pastorale»!..

È chiaro, quindi, che il Vaticano II ignorò, nella Costituzione Liturgica, il problema dell’altare “versus populum”, accettando la scelta... pastorale del card. Lercaro e della sua “equipe” rivoluzionaria!..
Ma l’autore di quella “trovata”, forse, ne sentì anche rimorso, se poi sentì il bisogno di scrivere:

«Teniamo, comunque, a sottolineare, come la celebrazione di tutta la Messa “versus populum”... non è assolutamente indispensabile... per una “Pastorale” efficace.
Tutta la Liturgia della Parola... nella quale si realizza, in modo più ampio, la partecipazione attiva dei fedeli, per mezzo del “dialogo” (?!) e del “canto”, ha già il suo svolgimento... reso, oggi, più intelligibile anche dall’uso della lingua parlata dal popolo... verso l’Assemblea... È certamente auspicabile che, anche la Liturgia Eucaristica... sia celebrata “versus populum”»!

Il Vaticano II, quindi, aveva lasciato “carta bianca” in mano al card. Lercaro, come lo aveva fatto con mons. Bugnini! E lo fece in termini sbrigativi, come appare dall’art. 128 della Costituzione Liturgica:

«... Si rivedano quanto prima... i Canoni e le disposizioni ecclesiastiche, riguardanti il complesso delle cose (?) esterne, attinenti al culto sacro e specialmente quanto riguarda la costruzione degna ed appropriata degli edifici sacri... la forma (?!) e la erezione degli altari, la nobiltà e la sicurezza del tabernacolo eucaristico».

Strabiliante!.. forse che si poteva mettere in dubbio la nobiltà e la sicurezza dei tabernacoli marmorei, i gioielli d’opere d’arte e di fede della Tradizione?.. Una nobiltà, purtroppo, che fu calpestata, derisa e buttata via dalle chiese, proprio dal fanatismo e stupidità di tanti organi esecutori del Vaticano II delle ben sette “Instructiones” ed exeq. della Costituzione Liturgica!.. Tutte fantasie surriscaldate da “falsi profeti” di una “Pastoralità” di cui, per venti secoli, la Chiesa non aveva nemmeno conosciuto il nome!..
Purtroppo, gli altari “versus populum” piovvero nelle chiese e nelle Cattedrali ancora prima che uscissero i nuovi Canoni, ancora prima che uscisse una Legislazione Canonica, ancora prima che la “Instrutio Oecum. Concilii” ne avesse fatto almeno il nome: “altari versus populum”, dove si accenna solo al celebrante che “deve potere facilmente girare attorno all’altare” (“perché”?..) “e celebrare rivolto verso il popolo”.
Ora, tutto questo non può essere che la tragica conferma, da parte dei novatori, del loro voler mettere in primo piano l’idea ereticale che la Messa altro non sia che un “banchetto”, una “cena” e non più la memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce, in modo incruento. E la conferma di questo la si ebbe con la “Istitutio Generalis Missalis Romani”, all’articolo 7:

«Cena dominica, sive Missa, est sacra synaxis, seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdotale praeside, ad memoriale Domini celebrationem...».

È chiaro, quindi, che il soggetto, qui, è solo la “coena dominica”, puramente e semplicemente sine adiecto!.. Infatti, ai due termini “Coena dominica” e “Missa” si è dato il medesimo valore che la filosofia scolastica-tomistica attribuisce ai termini “ens” et “verum” et “bonum”:
ens et verum... convertuntur!
ens et bonum... convertuntur!
Così, anche la “cena dominica” et “Missa”... convertuntur!
Ora, questa definizione della Messa, della quale si è fatta “unum idemque” con la “cena dominica”, e “unum idemque” con la “congregatio populi” ad celebrandum “memoriale Domini”, richiama immediatamente la condanna del Canone I della Sessione XXII.a del Concilio di Trento:

«Si quis dixerit in Missa non offerri Deo verum et proprium Sacrificium, aut quod “offerri” non si aliud quam nobis Christum ad manducandum dari, anatema sit!».

Inutile, perciò, fare salti mortali per cercare di spiegare che, per “dominica coena”, si intendeva “l’ultima cena” di Gesù con i suoi Apostoli, perché la “cena” di quella Pasqua non fu che la “circostanza”, alla fine della quale Gesù istituì l’Eucarestia!
Anche se si volesse intendere che la Messa è solo un “sacrum convivium, in quo Christus sumitur”, si cadrebbe ancora nell’eresia, condannata con anatema dal Concilio di Trento!
Per meglio mettere in evidenza la gravità di detta eresia, contenuta nell’art. 7 della “Istitutio Generalis Missalis Romani”, con la definizione: “Coena dominica, seu Missa”, si legga la dottrina dogmatica, insegnata da Pio XII nella Allocuzione ai partecipanti al Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale (il 22 settembre 1956): 

«Anche quando la consacrazione (che è l’elemento centrale del Sacrificio Eucaristico!) si svolge senza fasto e nella semplicità, essa (la “consacrazione”) rimane il punto centrale di tutta la Liturgia del Sacrificio, il punto centrale della “actio Cristi”... cuius personam gerit sacerdos celebrans”!

Quindi, è chiaro che la Messa non è affatto una “cena”, la “Coena Domini”, ma bensì è la rinnovazione incruenta del Sacrificio della Croce, come ci aveva sempre insegnato, prima del Vaticano II, la Chiesa!
Ora, il princìpio primo della logica (“sine qua non”!) è il princìpio di identità e di contraddizione (che fa lo stesso!), che insegna: “idem non potest esse et non esse, simul”. Quindi, non possono aver ragione due Papi, dei quali uno (Pio XII) definisce un punto di dottrina, e l’altro (Paolo VI) lo definisce in senso contrario sul medesimo argomento e sotto il medesimo aspetto.
Perciò, la Dottrina la si insegna anche - e meglio! - con i fatti, gli esempi pratici. Fu il metodo divino di Gesù, che, prima, “coepit facere” e poi “docere” (verbis). 
Ora, l’introduzione fraudolenta dell’altare “versus populum” è un “fatto” che ha sovvertito tutto un “ordine”, contrario, che “preesisteva da oltre un millennio”, ossia “versus absidem”, che era stato collocato ad Oriente, simbolo del Cristo, “lux vera, quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum”!.. Ma allora, come mai nelle “Instructiones” della Costituzione Liturgica, nell’art. 55 della “Euch. Mysterium”, si dice che “è più consono alla natura della sacra celebrazione che Cristo non sia eucaristicamente presente nel tabernacolo, sull’altare in cui viene celebrata la Messa... fin dall’inizio della medesima...” facendo appello alle ragioni del segno?.. 
Ma l’altare “versus populum” non vanifica proprio la ragione del segno del “sol oriens”, che è Cristo, obbligando il celebrante a voltare la schiena a quel “segno di luce” per mostrare al popolo la “facies hominis”? E questo altare “versus populum” non è, forse, un affermare quello che insegnò il Conciliabolo di Pistoia, cioè che nelle chiese non ci deve essere un solo unico altare, cadendo, così, sotto la condanna della “Auctorem fidei” di Pio VI?..

Ma così furono resi inutilizzabili non solo i gloriosi marmorei altari maggiori, ma anche tutti gli altri altari laterali, insinuando, con questo, che ai Santi non si deve più tributare alcun culto, nemmeno quello di “dulìa”, sfidando, però, anche qui, la condanna di eresia del Concilio di Trento!

Perciò: quale sorte ebbe il tabernacolo?..
Nella Sua Allocuzione del 22 settembre 1956, Pio XII ha scritto:

«Ci preoccupa... una tendenza, sulla quale Noi vorremmo richiamare la vostra attenzione: quella di una minore stima per la presenza e l’azione di Cristo nel tabernacolo».
«... e si diminuisce l’importanza di Colui che lo compie. Ora, la persona del Signore deve occupare il centro del culto, poiché è essa che unifica le relazioni tra l’altare e il tabernacolo, e conferisce loro il proprio significato».
«È originariamente in virtù del sacrificio dell’altare che il Signore si rende presente nell’Eucarestia, ed Egli non abita nel tabernacolo se non come “memoria sacrificii et passionis suae”».
«Separare il tabernacolo dall’altare, equivale a separare due cose che, in forza della loro origine e natura, devono stare unite...».

Come si vede, la Dottrina della Chiesa di sempre era ben chiara e grave nella sua motivazione e preoccupazione pastorale a causa della separazione del tabernacolo dall’altare!
Paolo VI, invece, nella Costituzione Liturgica, non ha neppure fatto ricordare questa dottrina, come tacque pure sulla condanna di Pio XII, nella “Mediator Dei”, a chi voleva restituire all’altare l’antica forma di “mensa”, qual è, oggi, l’altare “versus populum”, ignorando o sottacendo quello che aveva detto sia nella “Mediator Dei” che nella Allocuzione del 22 settembre 1956; e cioè:

«... si rivedano i canoni e le disposizioni ecclesiastiche che riguardano il complesso delle cose esterne attinenti al culto sacro... la forma e la erezione degli altari... la nobiltà, la disposizione e la sicurezza del tabernacolo».

E allora, perché Paolo VI e il Vaticano II hanno taciuto anche su questo? Con l’art. 128 della Costituzione Liturgica, oltre che lasciare ampia libertà discrezionale agli organi esecutivi post-conciliari, col comma 1° fu aggiunto che 

«quelle norme che risultassero meno corrispondenti alla riforma liturgica, siano corrette... o abolite» (tout-court!); il che significa aver dato carta bianca agli organi esecutivi per fare strazio totale dell’antica liturgia!

E così, in esecuzione di quella formula, il card. Lercaro si fece premura di decidere la sorte del tabernacolo. Lo fece, in sordina, con gli articoli 90 e 91 della prima Instructio della Costituzione Liturgica, insegnando che

 «Nel costruire nuove Chiese, o nel restaurare o adattare quelle già esistenti, ci si occupi diligentemente della loro idoneità a consentire la celebrazione delle azioni sacre, secondo la loro vera natura».

Un dire, questo, che squalifica tutti i venti secoli della Chiesa, perché le Basiliche, i Santuari, le Chiese parrocchiali, le Cappelle, ecc. non sarebbero state costruite in maniera idonea a consentire la celebrazione delle Azioni Sacre secondo la loro vera natura!.. 
L’art. 91, poi, va più avanti:

«È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete... per potervi girare intorno... e celebrare... rivolti al popolo»!

Finalmente!.. ecco rotto il “nodo Gordiano” ed ecco il “delitto perfetto”, che può far ricordare l’astuzia diabolica di cui parla Giosuè Carducci nella sua ode: “La Chiesa di polenta” (strofa 15.ma), ove si legge: “... di dietro al Battistero, un fulvo picciol, cornuto diavolo guardava e subsannava...”!
Ma il card. Lercaro non si turbò per questo. La soluzione del problema “tabernacolo” verrà tre anni dopo con l’art. 52 della “Eucaristicum Mysterium”, dove si dice:

«La Santissima Eucarestia... non può essere custodita, continuamente e abitualmente, se non in un solo altare, o in un luogo della Chiesa medesima».

Come si vede, appare evidente l’opposizione tra l’espressione “un solo altare” e la seconda espressione: “in un solo luogo della Chiesa medesima”, perché il “solo luogo” non significa necessariamente un altare (laterale, o in una cappella!), giacché la parola “luogo” significa un “luogo” qualsiasi, (anche un “confessionale”, un pulpito, e via dicendo!).
Comunque, anche qui, è grave che, prima della firma del Card. Lercaro e del Card. Larraona, si leggesse questa Dichiarazione:

«Praesentem Instructionem... Summus Pont. Paulus VI, in audentia... 13 aprilis 1967... approbavit... et auctoritate sua... confirmavit... et pubblici fieri... jussit...».

Dopo di che sparirono dagli altari maggiori i tabernacoli, e, al posto del “Padrone” sfrattato, apparve la “Lettera del Padrone”: il Messale, o la Bibbia (alla moda protestante!), mentre il Santissimo, che doveva occupare il posto centrale del culto, andò a finire in un nascondiglio, in un angolo più o meno oscuro. E questo sarebbe dovuto 

«per assicurare maggiormente al popolo cristiano l’abbondante tesoro di grazie che la Sacra Liturgia racchiude»!!!

sac. dott. Luigi Villa

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