Estratto dal libro: “La banca la moneta e l’usura” di Sua Ecc.za dott. Bruno Tarquini
LA BANCA D’ITALIA
Nel capitolo I e nei successivi fino all’VIII, viene presentata una breve storia della Banca d’Italia, la sua natura giuridica, la proprietà della moneta all’atto dell’emissione e il
potere politico e monetario di questa istituzione e certi
aspetti incostituzionali del Trattato di Maastricht.
Subito dopo il conseguimento del tormentato processo
di unificazione degli Stati italiani, sotto la dinastia dei
Savoia, si dovette affrontare lo spinoso problema della
creazione di una Banca Centrale che estendesse la propria competenza sull’intero territorio del nuovo Stato. Ma
soltanto con la Legge n° 443 del 10 agosto 1893, avvenne
la nascita della Banca d’Italia, frutto della fusione della
Banca Nazionale del Regno con la Banca Nazionale Toscana e con la Banca Toscana di Credito, e dalla liquidazione della Banca Romana, conseguente al grande scandalo sorto dal suo fallimento.
Fu personalmente Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio dell’epoca, a dirigere tutte le operazioni necessarie
per la nascita della nuova Banca Centrale, ed a lui, per
primo, si devono tutte quelle norme dirette a garantire
la sua autonomia da ogni eventuale pressione del potere politico: a tal fine, Giolitti volle mantenere il più possibile il modello societario, evitando che fosse il Governo
a nominare i vertici della Banca d’Italia.
La Banca d’Italia, dunque, fin dall’origine assunse la forma societaria anonima.
Con il Regio Decreto 28 Aprile 1910, n° 204 fu approvato
il testo unico delle leggi sugli istituti di emissione e sulla
circolazione dei biglietti di banca. La facoltà di emissione
fu concessa per un periodo di vent’anni alla Banca d’Italia, al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia.
Tra i decreti-legge, emanati nel periodo 1926-27, assunse
importanza quello n° 812 del 6 Maggio 1926 che, unificando in capo alla Banca d’Italia il servizio di emissione dei biglietti di banca, stabilì la cessazione della analoga
facoltà per il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Il
monopolio dell’emissione e il ruolo di Banca Centrale della Banca d’Italia assunse un definitivo assetto con il Regio
Decreto del 12 Marzo 1936, convertito nella Legge 7
Marzo 1938, n° 441, e col successivo “Statuto”.
Queste disposizioni legislative confermarono l’autonomia
della Banca d’Italia, alla quale, per la prima volta, fu
esplicitamente riconosciuta la qualifica di “Istituto di
Diritto Pubblico”, nonostante che fosse sostanzialmente
mantenuta la sua organizzazione interna originaria di una
società anonima (oggi detta “società per azioni”).
Il potere attribuito al Governatore era enorme in quanto capace
di incidere in maniera decisiva
sulla vita della Nazione, tanto più
che la sua nomina non incontra limiti temporali, a meno di dimissioni o di revoca.
Per dimostrare come il potere politico abbia continuato, nel tempo,
a defilarsi dalla responsabilità di
mantenere una competenza di
tanta importanza, quale è quella
concernente il tasso di sconto, la
Legge 7 Febbraio 1992, n° 82 (tra
l’altro promossa dall’allora Ministro del Tesoro, Guido Carli, che,
guarda caso, era stato Governatore della Banca d’Italia), ha attribuito all’Istituto di emissione la facoltà di disporre le variazioni del
tasso ufficiale di sconto senza doverla più concordare con il Ministro del Tesoro, vale a dire senza
doverla concordare con lo Stato.
Ora, nonostante l’esplicita formula
adoperata dalla legge, secondo cui
la Banca d’Italia è “Istituto di Diritto Pubblico”, nonostante la sua
organizzazione ricalca sostanzialmente quella di una “società per
azioni”, si deve dire che l’approvazione politica della nomina delle
cariche della Banca d’Italia (come
pure la loro revoca) appare come
un mero visto di legittimità e, inoltre, la considerazione
che i fini istituzionali dell’ente in esame sono stabiliti
con legge non può giustificare la tesi che la Banca
d’Italia sia di “Diritto Pubblico”.
In conclusione, si deve riconoscere che la Banca centrale è un ente privato, atteggiato strutturalmente come una
“società per azioni”, alla quale è stata affidata, in esercizio esclusivo, la funzione statale di emissione di cartamoneta e concesso il pubblico servizio di tesoreria per
lo Stato.
La Banca d’Italia, dunque, dalla pubblica funzione di
emettere moneta, della quale è stata investita dallo Stato,
ricava degli utili che vanno a suo beneficio, proprio come una società privata commerciale. Ma la Banca d’Italia
può ritenere di essere la proprietaria della moneta cartacea al momento in cui la presta al sistema economico
nazionale, per porla in circolazione? La domanda appare
del tutto doverosa, poiché su questo punto la legislazione
tace completamente e, di conseguenza, non si può dare
una risposta che sia sostenuta da un preciso riscontro normativo. La risposta appare, dunque, molto difficile, e di tale difficoltà si è avuta la prova, in sede parlamentare, in
due occasioni recenti:
1) nella seduta della Camera dei Deputati, tenutasi il 17
marzo 1995, il deputato Pasetto
rivolse una interrogazione al Ministro del Tesoro, per sapere se non
intendesse promuovere una riforma legislativa diretta a definire la
moneta un bene reale conferito
all’atto dell’emissione, a titolo
originario di proprietà di tutti i
cittadini appartenenti alla collettività nazionale italiana, con conseguente riforma dell’attuale sistema dell’emissione monetaria, che
trasforma la Banca Centrale da
semplice ente gestore ad ente
proprietario dei valori monetari.
Nel rispondere a tale interrogazione, il Sottosegretario del Tesoro,
Carlo Pace affermò “in sostanza,
per tutta la durata della circolazione, la moneta rappresenta un
debito, una passività dell’Istituto
di Emissione e come tale è iscritta, nel suo Bilancio, tra le poste
passive”.
2) rispettivamente, il 3 novembre
1994, e il successivo 1° dicembre,
i senatori Natali (AN) e Orlando
(PRC) interrogarono il Ministro
del Tesoro per sapere se non ritenesse necessario l’intervento del
Ministero, per la doverosa tutela
dei rilevantissimi interessi nazionali, nella causa civile, promossa
dinanzi al tribunale di Roma dal Professore Giacinto Auriti, nei confronti della Banca d’Italia, e diretta ad ottenere una sentenza di mero accertamento, che dichiarasse la
moneta, all’atto della emissione, di proprietà dei cittadini italiani ed illegittimo l’attuale sistema dell’emissione monetaria, che trasforma la Banca Centrale da Ente
gestore ad Ente proprietario dei valori monetari’.
Alle due interrogazioni, fornì risposta scritta il Sottosegretario di Stato per il Tesoro, Vegas, il quale (sentita, questa
volta nel merito, anche la Banca d’Italia) si adeguò alla
precedente risposta del collega di Governo. Come ulteriore
argomentazione, il Sottosegretario Vegas ricordò come, nella attuale dottrina economica e nelle opinioni degli Stati
europei, fosse avvertita e radicata l’esigenza “di non concentrare nelle mani di uno stesso soggetto politico, quale potrebbe essere l’autorità di governo, il potere di
creare moneta e quello di spenderla, onde impedire che
la moneta diventi strumento di lotta politica”, e ricordò
che tale esigenza aveva trovato esplicito riconoscimento
giuridico nel Trattato di Maastricht.
Entrambe le risposte sono degne di nota solo per il tasso di
ambiguità da cui sono permeate.
Infatti, in primo luogo, stupisce che tutte e due le risposte
sul punto relativo alla proprietà della moneta, al momento della sua emissione, si rifugino in una dichiarazione negativa, affermando che questa non spetta alla
Banca d’Italia: affermazione questa, forse volutamente
elusiva, ma che, tuttavia, non
può sfuggire all’accusa di
menzogna per ciò che essa non
può non sottintendere.
Posto infatti che la moneta (al
momento della sua creazione ed
emissione) non può non avere,
come tutti i beni mobili, un
proprietario, deve trarsi la conclusione che, in quel preciso
momento la moneta, se non è
della Banca d’Italia, è di proprietà dello Stato. Ma ciò contrasta in modo irrimediabile con
quanto riconosciuto dagli stessi
rappresentanti del Governo, vale
a dire la percezione di un utile
monetario da parte di un Ente
che non è proprietario della
moneta che crea ed immette in
circolazione. Tanto più che, per
tutta la durata della circolazione,
la moneta rappresenterebbe un
debito della Banca d’Italia; una
passività che la abilita ad inserirla nel proprio bilancio tra le
poste passive.
Ne deriva che, caso unico, la
moneta sarebbe fruttifera nelle mani dell’Istituto di Emissione, benché questo non ne
sia proprietario, ma anzi debitore.
Mentre, quindi, nei casi normali, il creditore percepisce interessi dalla moneta che presta, ed è il debitore che paga
questi interessi, nel caso in esame, le posizioni appaiono
stranamente invertite. Con un debitore che, anziché pagare, percepisce gli utili.
Il fatto è che, nel concreto, la verità risiede proprio nel secondo corno del dilemma: nel senso che la Banca d’Italia
ritiene di essere proprietaria della moneta che crea ed
emette. Lo sostiene lo stesso Istituto proprio nel giudizio
civile promosso dal professor Auriti; infatti, nella comparsa di costituzione e risposta, datata 20 settembre 1994, si legge: «alla stregua della puntuale disciplina della funzione di emissione, i biglietti della Banca d’Italia costituiscono una semplice merce di proprietà della Banca
Centrale, che ne cura direttamente la stampa e ne assume
le relative spese» ... «Essi acquistano la loro funzione e il
valore di moneta solo nel momento logicamente e cronologicamente successivo, in cui la Banca d’Italia li immette nel mercato trasferendone la relativa proprietà ai
percettori». E ancora: «La Banca d’Italia cede la proprietà
dei biglietti, i quali, in tale momento, come circolante,
vengono appostati al passivo nelle scritture contabili
dell’Istituto di Emissione, acquistando in contropartita, o
ricevendo in pegno, altri beni o valori mobiliari (titoli,
valute, ecc.) che vengono, invece, appostati all’attivo».
Ora, poniamo il caso di un falsario che dia in prestito il
risultato della propria illecita
attività, che a lui non costa nulla se non le spese di fabbricazione; nel fare il bilancio finale
dell’operazione, vi iscrive forse
come posta passiva la somma
falsificata e prestata, e come
posta attiva la somma restituitagli oltre agli interessi? Così facendo, altererebbe il bilancio,
perché la somma falsificata
che dà in prestito non costituisce una perdita, così come peraltro non rappresenta un guadagno; inserendola nel passivo, il falsario non farebbe altro che occultare fraudolentemente una parte dell’attivo.
Tanto per continuare nell’esempio, se il falsario dà in prestito
la somma falsificata di un miliardo di lire al tasso del quindici per cento e, alla scadenza
convenuta ha, in restituzione, la
somma di lire (autentiche) un
miliardo e centocinquanta milioni, il suo attivo è costituito
da quest’ultima somma per
intero, ed il suo passivo dalle
spese sostenute per la fabbricazione della moneta falsa.
Mutatis mutandis, lo stesso
concetto vale per la Banca d’Italia: certamente, qui, non
si tratta di moneta falsificata, ma, come si è detto, di moneta che, all’atto dell’emissione, non può avere ancora alcun valore né di credito né di debito, perché destinata, solamente durante e a causa della circolazione, a misurare il
valore dei beni e ad acquistare il connotato di misura del
valore. Perciò, la Banca d’Italia non è legittimata ad
iscrivere la moneta, che immette nella sua circolazione,
come posta passiva del suo bilancio. A questo punto, ci
si potrebbe domandare quale possa essere la reazione dei
vertici della Banca d’Italia a queste chiare e ineluttabili
considerazioni. “Chiesa viva” NUMERO UNICO *** Gennaio 2014
a cura del dott. Franco Adessa
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