lunedì 17 agosto 2020

Moneta del popolo TASSE ZERO!



Estratto dal libro: “La banca la moneta e l’usura” di Sua Ecc.za dott. Bruno Tarquini


LA BANCA D’ITALIA

Nel capitolo I e nei successivi fino all’VIII, viene presentata una breve storia della Banca d’Italia, la sua natura giuridica, la proprietà della moneta all’atto dell’emissione e il potere politico e monetario di questa istituzione e certi aspetti incostituzionali del Trattato di Maastricht. Subito dopo il conseguimento del tormentato processo di unificazione degli Stati italiani, sotto la dinastia dei Savoia, si dovette affrontare lo spinoso problema della creazione di una Banca Centrale che estendesse la propria competenza sull’intero territorio del nuovo Stato. Ma soltanto con la Legge n° 443 del 10 agosto 1893, avvenne la nascita della Banca d’Italia, frutto della fusione della Banca Nazionale del Regno con la Banca Nazionale Toscana e con la Banca Toscana di Credito, e dalla liquidazione della Banca Romana, conseguente al grande scandalo sorto dal suo fallimento. Fu personalmente Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio dell’epoca, a dirigere tutte le operazioni necessarie per la nascita della nuova Banca Centrale, ed a lui, per primo, si devono tutte quelle norme dirette a garantire la sua autonomia da ogni eventuale pressione del potere politico: a tal fine, Giolitti volle mantenere il più possibile il modello societario, evitando che fosse il Governo a nominare i vertici della Banca d’Italia. La Banca d’Italia, dunque, fin dall’origine assunse la forma societaria anonima. Con il Regio Decreto 28 Aprile 1910, n° 204 fu approvato il testo unico delle leggi sugli istituti di emissione e sulla circolazione dei biglietti di banca. La facoltà di emissione fu concessa per un periodo di vent’anni alla Banca d’Italia, al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia. Tra i decreti-legge, emanati nel periodo 1926-27, assunse importanza quello n° 812 del 6 Maggio 1926 che, unificando in capo alla Banca d’Italia il servizio di emissione dei biglietti di banca, stabilì la cessazione della analoga facoltà per il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Il monopolio dell’emissione e il ruolo di Banca Centrale della Banca d’Italia assunse un definitivo assetto con il Regio Decreto del 12 Marzo 1936, convertito nella Legge 7 Marzo 1938, n° 441, e col successivo “Statuto”. Queste disposizioni legislative confermarono l’autonomia della Banca d’Italia, alla quale, per la prima volta, fu esplicitamente riconosciuta la qualifica di “Istituto di Diritto Pubblico”, nonostante che fosse sostanzialmente mantenuta la sua organizzazione interna originaria di una società anonima (oggi detta “società per azioni”). Il potere attribuito al Governatore era enorme in quanto capace di incidere in maniera decisiva sulla vita della Nazione, tanto più che la sua nomina non incontra limiti temporali, a meno di dimissioni o di revoca. Per dimostrare come il potere politico abbia continuato, nel tempo, a defilarsi dalla responsabilità di mantenere una competenza di tanta importanza, quale è quella concernente il tasso di sconto, la Legge 7 Febbraio 1992, n° 82 (tra l’altro promossa dall’allora Ministro del Tesoro, Guido Carli, che, guarda caso, era stato Governatore della Banca d’Italia), ha attribuito all’Istituto di emissione la facoltà di disporre le variazioni del tasso ufficiale di sconto senza doverla più concordare con il Ministro del Tesoro, vale a dire senza doverla concordare con lo Stato. Ora, nonostante l’esplicita formula adoperata dalla legge, secondo cui la Banca d’Italia è “Istituto di Diritto Pubblico”, nonostante la sua organizzazione ricalca sostanzialmente quella di una “società per azioni”, si deve dire che l’approvazione politica della nomina delle cariche della Banca d’Italia (come pure la loro revoca) appare come un mero visto di legittimità e, inoltre, la considerazione che i fini istituzionali dell’ente in esame sono stabiliti con legge non può giustificare la tesi che la Banca d’Italia sia di “Diritto Pubblico”. In conclusione, si deve riconoscere che la Banca centrale è un ente privato, atteggiato strutturalmente come una “società per azioni”, alla quale è stata affidata, in esercizio esclusivo, la funzione statale di emissione di cartamoneta e concesso il pubblico servizio di tesoreria per lo Stato. La Banca d’Italia, dunque, dalla pubblica funzione di emettere moneta, della quale è stata investita dallo Stato, ricava degli utili che vanno a suo beneficio, proprio come una società privata commerciale. Ma la Banca d’Italia può ritenere di essere la proprietaria della moneta cartacea al momento in cui la presta al sistema economico nazionale, per porla in circolazione? La domanda appare del tutto doverosa, poiché su questo punto la legislazione tace completamente e, di conseguenza, non si può dare una risposta che sia sostenuta da un preciso riscontro normativo. La risposta appare, dunque, molto difficile, e di tale difficoltà si è avuta la prova, in sede parlamentare, in due occasioni recenti: 



1) nella seduta della Camera dei Deputati, tenutasi il 17 marzo 1995, il deputato Pasetto rivolse una interrogazione al Ministro del Tesoro, per sapere se non intendesse promuovere una riforma legislativa diretta a definire la moneta un bene reale conferito all’atto dell’emissione, a titolo originario di proprietà di tutti i cittadini appartenenti alla collettività nazionale italiana, con conseguente riforma dell’attuale sistema dell’emissione monetaria, che trasforma la Banca Centrale da semplice ente gestore ad ente proprietario dei valori monetari. Nel rispondere a tale interrogazione, il Sottosegretario del Tesoro, Carlo Pace affermò “in sostanza, per tutta la durata della circolazione, la moneta rappresenta un debito, una passività dell’Istituto di Emissione e come tale è iscritta, nel suo Bilancio, tra le poste passive”. 

2) rispettivamente, il 3 novembre 1994, e il successivo 1° dicembre, i senatori Natali (AN) e Orlando (PRC) interrogarono il Ministro del Tesoro per sapere se non ritenesse necessario l’intervento del Ministero, per la doverosa tutela dei rilevantissimi interessi nazionali, nella causa civile, promossa dinanzi al tribunale di Roma dal Professore Giacinto Auriti, nei confronti della Banca d’Italia, e diretta ad ottenere una sentenza di mero accertamento, che dichiarasse la moneta, all’atto della emissione, di proprietà dei cittadini italiani ed illegittimo l’attuale sistema dell’emissione monetaria, che trasforma la Banca Centrale da Ente gestore ad Ente proprietario dei valori monetari’.

Alle due interrogazioni, fornì risposta scritta il Sottosegretario di Stato per il Tesoro, Vegas, il quale (sentita, questa volta nel merito, anche la Banca d’Italia) si adeguò alla precedente risposta del collega di Governo. Come ulteriore argomentazione, il Sottosegretario Vegas ricordò come, nella attuale dottrina economica e nelle opinioni degli Stati europei, fosse avvertita e radicata l’esigenza “di non concentrare nelle mani di uno stesso soggetto politico, quale potrebbe essere l’autorità di governo, il potere di creare moneta e quello di spenderla, onde impedire che la moneta diventi strumento di lotta politica”, e ricordò che tale esigenza aveva trovato esplicito riconoscimento giuridico nel Trattato di Maastricht. Entrambe le risposte sono degne di nota solo per il tasso di ambiguità da cui sono permeate. Infatti, in primo luogo, stupisce che tutte e due le risposte sul punto relativo alla proprietà della moneta, al momento della sua emissione, si rifugino in una dichiarazione negativa, affermando che questa non spetta alla Banca d’Italia: affermazione questa, forse volutamente elusiva, ma che, tuttavia, non può sfuggire all’accusa di menzogna per ciò che essa non può non sottintendere. Posto infatti che la moneta (al momento della sua creazione ed emissione) non può non avere, come tutti i beni mobili, un proprietario, deve trarsi la conclusione che, in quel preciso momento la moneta, se non è della Banca d’Italia, è di proprietà dello Stato. Ma ciò contrasta in modo irrimediabile con quanto riconosciuto dagli stessi rappresentanti del Governo, vale a dire la percezione di un utile monetario da parte di un Ente che non è proprietario della moneta che crea ed immette in circolazione. Tanto più che, per tutta la durata della circolazione, la moneta rappresenterebbe un debito della Banca d’Italia; una passività che la abilita ad inserirla nel proprio bilancio tra le poste passive. Ne deriva che, caso unico, la moneta sarebbe fruttifera nelle mani dell’Istituto di Emissione, benché questo non ne sia proprietario, ma anzi debitore. Mentre, quindi, nei casi normali, il creditore percepisce interessi dalla moneta che presta, ed è il debitore che paga questi interessi, nel caso in esame, le posizioni appaiono stranamente invertite. Con un debitore che, anziché pagare, percepisce gli utili. Il fatto è che, nel concreto, la verità risiede proprio nel secondo corno del dilemma: nel senso che la Banca d’Italia ritiene di essere proprietaria della moneta che crea ed emette. Lo sostiene lo stesso Istituto proprio nel giudizio civile promosso dal professor Auriti; infatti, nella comparsa di costituzione e risposta, datata 20 settembre 1994, si legge: «alla stregua della puntuale disciplina della funzione di emissione, i biglietti della Banca d’Italia costituiscono una semplice merce di proprietà della Banca Centrale, che ne cura direttamente la stampa e ne assume le relative spese» ... «Essi acquistano la loro funzione e il valore di moneta solo nel momento logicamente e cronologicamente successivo, in cui la Banca d’Italia li immette nel mercato trasferendone la relativa proprietà ai percettori». E ancora: «La Banca d’Italia cede la proprietà dei biglietti, i quali, in tale momento, come circolante, vengono appostati al passivo nelle scritture contabili dell’Istituto di Emissione, acquistando in contropartita, o ricevendo in pegno, altri beni o valori mobiliari (titoli, valute, ecc.) che vengono, invece, appostati all’attivo». Ora, poniamo il caso di un falsario che dia in prestito il risultato della propria illecita attività, che a lui non costa nulla se non le spese di fabbricazione; nel fare il bilancio finale dell’operazione, vi iscrive forse come posta passiva la somma falsificata e prestata, e come posta attiva la somma restituitagli oltre agli interessi? Così facendo, altererebbe il bilancio, perché la somma falsificata che dà in prestito non costituisce una perdita, così come peraltro non rappresenta un guadagno; inserendola nel passivo, il falsario non farebbe altro che occultare fraudolentemente una parte dell’attivo. Tanto per continuare nell’esempio, se il falsario dà in prestito la somma falsificata di un miliardo di lire al tasso del quindici per cento e, alla scadenza convenuta ha, in restituzione, la somma di lire (autentiche) un miliardo e centocinquanta milioni, il suo attivo è costituito da quest’ultima somma per intero, ed il suo passivo dalle spese sostenute per la fabbricazione della moneta falsa. Mutatis mutandis, lo stesso concetto vale per la Banca d’Italia: certamente, qui, non si tratta di moneta falsificata, ma, come si è detto, di moneta che, all’atto dell’emissione, non può avere ancora alcun valore né di credito né di debito, perché destinata, solamente durante e a causa della circolazione, a misurare il valore dei beni e ad acquistare il connotato di misura del valore. Perciò, la Banca d’Italia non è legittimata ad iscrivere la moneta, che immette nella sua circolazione, come posta passiva del suo bilancio. A questo punto, ci si potrebbe domandare quale possa essere la reazione dei vertici della Banca d’Italia a queste chiare e ineluttabili considerazioni.  “Chiesa viva” NUMERO UNICO *** Gennaio 2014 

a cura del dott. Franco Adessa

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