martedì 3 dicembre 2019

“Il sacerdote non si appartiene”



Giuda e la prima incrinatura nel suo sacerdozio

Di dove comincia il declino spirituale? Qual è il primo sintomo di tutta una catena di peccati? I nemici tradizionali della spiritualità sono il mondo, la carne e il demonio, ma non vengono, essi, per secondi? Non si ha forse il distacco da qualcosa prima che sia possibile un attaccamento a qualcosa? Si dice spesso che Giuda, esempio supremo dell’apostolo caduto, fosse stato prima di tutto corrotto dall’avidità. Il Vangelo non convalida questa tesi. È concepibile che l’avidità sia stata il suo movente quando accettò di seguire Cristo, e deve avere richiesto una certa vigilanza per impedire che trapelasse, che venisse scoperta. Quanto deve essersi sentito a disagio nell’ascoltare Nostro Signore Santissimo svolgere in parabole il tema della vanità della ricchezza! Indubbiamente si rendeva conto che facevano al caso suo. Più tardi, l’avidità diventa sfacciata. Giuda protesta apertamente contro lo spreco del costoso profumo con il quale Maria cosparge i piedi del Salvatore. Poiché di tutto conosceva il prezzo, ma di nulla conosceva il valore, Giuda calcola che con il ricavato di quell’unguento un uomo avrebbe potuto vivere comodamente per un anno. Quale doveva essere stato il suo disappunto quando aveva udito Zaccheo di Gerico dire a Nostro Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto»(Lc 19, 8). Giuda deve anche essersi chiesto come mai Matteo avesse abbandonato il redditizio impiego di esattore delle imposte per seguire il Salvatore nella povertà. Lo stesso Matteo può essersi sorpreso di non essere stato nominato tesoriere, data la sua familiarità con le operazioni finanziarie. Che in Giuda albergasse l’amore per il denaro è pacifico. Lo dimostrò chiaramente la sua protesta nel vedere l’unguento versato sui piedi del Signore: «Perché questo spreco? Lo si poteva vendere [l’unguento] a caro prezzo per darlo ai poveri!» (Mt 26, 8-9). Maria obbediva a un impulso spontaneo, disinteressato, e di ciò le veniva fatta colpa. Gli amanti terreni poco si preoccupano dell’utilità dei loro doni. I veri amanti del Cristo non misurano ciò che donano. Spezzano il vaso d’alabastro e danno tutto, ma per Giuda, il gelido spettatore, era uno spreco inutile. Effettivamente, nel Sacerdote l’avarizia può essere uno dei peccati più gravi, forse anche il più insidioso. È un peccato «pulito», che si pavoneggia mascherato da prudenza, da «previdenza per la vecchiaia». Simon Mago, per esempio, non perse tempo a concepire l’idea che l’imposizione delle mani era un ottimo mezzo per far denaro (At 8, 19). Il buon Sacerdote vive per la vocazione; il Sacerdote avaro vive della vocazione. Quando partecipa a una riunione pastorale, egli ignora ogni e qualsiasi riferimento alla santificazione del clero, alla disciplina morale e spirituale, alle visite da farsi agli ammalati, ma quando il Vescovo parla di congrue, d’indennità di stola, di promozioni, allora drizza le orecchie e ascolta. Si dà continuamente da fare per ottenere una parrocchia «migliore», ma per lui «migliore» significa unicamente più redditizia. In netto contrasto con le parole del Signore, l’uomo avido crede di poter servire e Dio e mammona. Nostro Signore intese dire che l’uomo non può dividere il suo cuore tra Dio e il denaro. E qualora lo possa, Dio non sa che farsene di una fetta di cuore. Disse san Paolo: Non sapete voi che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale servite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia (Rm 6, 16)? Accade sovente che chi ama ammassare ricchezze, sotto altri aspetti sia senza peccato. Mantiene il celibato, può anche dimostrarsi meticoloso nell’osservanza delle leggi esterne della Chiesa, fa né più né meno quello che facevano i Farisei, «I Farisei che erano amanti del denaro» (Lc 16, 14). Fu appunto a essi che il Signore narrò la parabola del ricco epulone (Lc 16, 19-31).
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Tratto da “Il sacerdote non si appartiene” del Venerabile Fulton J. Sheen

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