venerdì 10 gennaio 2020

Trattato di Demonologia



 I DUE FRATELLI TEOBALDO E JOSEF BURNER

Illfurt, Alsazia, 1864-1869

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Avversione al sacro

Uno dei segni di possessione diabolica può essere anche, e talvolta lo è, l’avversione al sacro: la  quale tuttavia può derivare anche da cause naturali e quindi non può essere sempre presa come  criterio sicuro della presenza diabolica. Nei due piccoli pazienti di Illfurt questa avversione al sacro  si manifestò moltissime volte in diversa maniera e intensità.

Nei frequenti scatti di collera in cui cadevano, nel delirio di furore che improvvisamente  manifestavano, guai avvicinare loro qualche oggetto benedetto, un crocifisso, una medaglia,  un’immagine sacra, una corona del Rosario, o pronunziare i nomi di Gesù, di Maria, della  Santissima Trinità, dello Spirito Santo o di altri santi, specialmente di san Michele arcangelo. Si  vedevano trasalire, impallidire, tremare come foglie. Fantasmi visibili solo a loro apparivano e li  riempivano di paura e di terrore. Quando erano invitati, o obbligati, a entrare nella chiesa o in altro  luogo sacro, per la preghiera, o per assistere alle funzioni religiose, opponevano una feroce  resistenza che non sempre era possibile superare. In quei momenti uscivano dalla loro bocca  imprecazioni, bestemmie, parole volgari e oscene non imparate da nessuno e che prima non si erano mai sentite pronunziare da loro. Una volta vennero loro regalati fichi, benedetti a loro insaputa. Non li accettarono: «Buttate via queste teste di topi, gridarono, il pretaccio (in tedesco Pfaf li ha avvelenati con le sue smorfie!» Se mentre dormivano qualcuno posava un rosario benedetto sul loro letto essi sparivano a un tratto sotto le coperte e non c’era verso di cavarveli se prima il rosario non  era stato allontanato.

Un giorno Monsignor Strumpf— che più tardi fu nominato vescovo di Strasburgo — passò vicino a  Teobaldo portando su di sè la teca del Santissimo Sacramento nascosta sul petto. Il piccolo si scosse come a una scarica elettrica e cercò di nascondersi in tutti gli angoli. Solo quando il sacerdote si  avviò verso la cappella per riportarvi il Santissimo egli si alzò e lo seguì da lontano per sputare sulla traccia dei suoi piedi. Un solido crocifisso fu messo al collo di Josef ma appena sentito il contatto il  ragazzo si contorse a forma di X, conservandola finché il crocifisso rimase sul suo petto. Uno  scapolare posato sulla sua spalla volò in alto e descrivendo un ampio cerchio andò a cadere sul  casco del poliziotto Werner entrato per caso nella camera in quel momento. Josef non si era  minimamente mosso.

Un venerdì, giorno di astinenza, Teobaldo volle ad ogni costo e insistentemente che gli fosse portata la carne:

«Portatemi della carne altrimenti mi getto dalla finestra!», disse in tono minaccioso. Si dovette  accontentarlo per evitare il peggio. Mai prima di allora aveva fatto una simile richiesta. 

L’avversione al sacro si faceva più evidente specialmente in riferimento a persone sacre, sacerdoti,  religiosi, suore, che sempre affrontava e nominava con titoli offensivi, volgari, osceni. Egli sapeva  trovare per deriderli e umiliarli le parole più inverosimili e spesso usava quelle dei più accesi anticlericali di allora e di oggi: corvo, porcello, cornacchia, sacco di carbone e peggio. Oggetto di  odio speciale era il padre Strumpf già ricordato: «Sto andando dal piccolo Strumpf il letamaio»,  diceva per tormentarlo. E poco dopo gridava trionfante: «Glicl’ho fatta, possa crepare!».

Ogni oggetto religioso era definito «sporcizia», la chiesa e la cappella erano «il porcile», le suore  «teste ammalate coperte di sporcizia», i cattolici in genere «gli untori».

Un giorno disse al signor Tresch, sindaco di Illfurt:

«Quando vi recate al porcile (la chiesa), e alzate le mani e ragliate (pregate) vi dirigete verso l’alto  (il cielo), ma quelli che non lo fanno, quelli vengono da noi». Una signora di Bettendorf gli posò sul petto un rosario. Mentre gli si tenevano ferme le mani cominciò a gridare: «Se mai riesco a prendere le tue cacherelle di capra (i grani del rosario), romperò in cento pezzi la coda del gatto (la corona),  ma non ho il diritto di toccare l’immagine della “Grande Signora” che vi è appesa».

Una cosa interessante, degna di essere sottolineata, era il rispetto, o piuttosto la paura che il  demonio sempre dimostrò verso Maria Santissima. La liberazione dei due piccoli ossessi avverrà  alla fine, come vedremo, per un visibile intervento di Maria. Mentre il demonio derideva nella  forma più volgare e senza ritegno le cose più sante, non escluso Dio stesso e la persona di Gesù  Cristo, non osò mai insultare la Madonna. Mai uscì dalla sua bocca il nome di Maria. Egli la  chiamava con diversi titoli, «la Grande Signora», e altri, ma mai per nome. Essendogliene stata  domandata la ragione rispose: «Non ne ho il diritto. La “Marionetta sulla croce” (Gesù Cristo) me  l’ha proibito». Un’avversione non meno accentuata il demonio dimostrò sempre nei riguardi  dell’acqua benedetta, dell’olio benedetto e dell’incenso, avversione che spesse volte divenne vera  paura. Il suo furore raggiungeva il parossismo se qualcuno gli buttava addosso acqua benedetta.  Una volta il Tresch, sindaco, gettò sulle dita di Teobaldo qualche goccia di acqua benedetta. Egli si  agitò bruscamente, si lasciò cadere a terra in preda a convulsioni e si nascose sotto la tavola quando  vide che non si poteva salvare in altro modo.

Nel 1868, come diremo, Teobaldo era stato ricoverato in un istituto di suore per essere meglio  assistito e curato. Se la suora gli fosse passata vicina con un oggetto sacro dava subito in smanie  terribili. Se poi essa lasciava cadere di proposito una goccia di acqua benedetta nei cibi a lui  destinati, egli che non lo poteva sapere per non essere mai entrato nella cucina, se ne accorgeva  subito, allontanava il vassoio e rifiutava il cibo: «Non ho fame, c’è della sporcizia dentro, è veleno».
E per farlo mangiare bisognava portargli altri cibi. Così per le bevande.

L’acqua benedetta, così avversata dai due piccoli pazienti, era d’altra parte un rimedio efficacissimo per i molti inconvenienti che ogni giorno si rinnovavano e per fare tornare alla calma e alla  normalità i due fanciulli. Quando nella stanza si sprigionava quel calore insopportabile a cui  abbiamo accennato, la mamma aspergeva d’acqua benedetta il letto, i mobili, i muri e i ragazzi  stessi. La temperatura si abbassava sensibilmente e tornava normale. Le suore infermiere fecero più  volte la stessa esperienza. Il padre dei ragazzi afferma che certi fenomeni scomparivano solo con  l’aspersione dell’acqua benedetta.
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Paolo Calliari

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