NEL SEMINARIO DI PADOVA
In una brumosa mattina del Novembre 1850 il futuro Pio X entrava nel grande Seminario di Padova: quieto asilo di studi severi e gloria del B. Gregorio Barbarigo (26).
Il vigore della sua intelligenza e la sua straordinaria applicazione allo studio, congiunta ad una schietta e soda bontà, gli acquistarono presto la stima dei Superiori e l'affetto dei Professori, mentre compagni e condiscepoli, come presi dalla serena giovialità del suo carattere, non tardarono ad amarlo, non senza un sentimento di legittima invidia e di ammirazione. (27)
“Mi trovo bene con tutti e compagni e Superiori” — scriveva un mese dopo il novello Seminarista al Cappellano di Riese, Don Pietro Jacuzzi succeduto da poco a Don Luigi Orazio (28).
Si trovava bene, perché la sua vocazione sacerdotale aveva trovato il suo clima e poteva oramai svolgersi in tutto il suo rigoglio.
Prova non dubbia lo splendido risultato dei suoi studi nel chiudersi del suo primo anno scolastico (1850-1851) con questo invidiabile attestato:
“Disciplinae nemini secundus — Ingenti maximi — Memoriae summae — Spei maximae” (29).
Attestato magnifico che si sarebbe ripetuto di anno in anno fino al giorno, in cui il figliolo del povero cursore di Riese avrebbe rivarcato la soglia del grande Seminario, non più come semplice Seminarista, ma come sacerdote di Cristo.
Il 20 Settembre 1851 dal suo Vescovo nella vetusta cattedrale di Asolo riceveva la Tonsura (30).
UN GRAVE LUTTO
Ma il secondo anno di Seminario, incominciato e continuato sotto i più lieti auspici, doveva essere offuscato da una sventura al sommo dolorosa per il giovane chierico: la morte del padre.
Il cursore di Riese sulla fine dell'Aprile 1852, avendo preso freddo, si era dovuto mettere a letto, e, dopo qualche giorno, moriva.
Sembra che il nostro Seminarista ne avesse avuto il presentimento.
In uno di quei giorni si presentò, tutto in lagrime, al Rettore del Seminario, chiedendogli il permesso di andare a casa.
— Perché?
— Perché mio padre è gravemente ammalato.
Era vero e nulla lo aveva fatto prevedere! (31)
La morte di Giovanni Battista Sarto gettava nel lutto la povera Margherita con otto teneri figlioletti. Ma, donna di mirabile fede, seppe sopportare la durissima prova con coraggio e rassegnazione cristiana.
Anche per il nostro Giuseppe quella morte fu uno schianto, perché al pensiero degli studi vedeva ora aggiungersi la grave preoccupazione per la mamma rimasta sola, priva di ogni risorsa, con un avvenire di sofferenze, di angustie e di stenti.
Ma non si smarrì. Accettò dalle mani di Dio l'amara sciagura e ad uno zio paterno che gli domandava se, come il maggiore della famiglia, volesse succedere al padre nel modesto impiego di cursore comunale per aiutare la mamma, rispose risoluto:
— No: vado prete! (32)
E continuò a studiare, santificando lo studio con l'esercizio delle più belle virtù e chiudendo l'anno scolastico con la solita nota “eminentemente distinto” (33).
Ma i brillanti successi nei suoi studi non lo inorgoglivano.
Lo lasciavano sempre umile e modesto, docile alla disciplina, pronto ad ogni cenno dei Superiori, tenace assertore tra i suoi compagni del loro prestigio e della loro autorità (34). Era specchio e modello a tutti i Seminaristi (35).
VACANZE TRISTI
Terminato il secondo corso di Filosofia, in cui tra i 39 alunni era riuscito il primo, egli doveva lamentare la perdita del conforto che gli veniva da due integerrimi sacerdoti al suo cuore carissimi: Don Tito Fusarini e Don Pietro Jacuzzi.
Don Fusarini — il suo secondo padre — per la sua malferma salute aveva dovuto rinunziare alla Parrocchia di Riese e ritirarsi a Venezia: Don Jacuzzi — il sostegno della sua povertà — con grande dispiacere della popolazione, era stato trasferito come Vicario Parrocchiale a Vascon: una piccola borgata nelle vicinanze di Treviso.
Quando Giuseppe Sarto ritornò a casa per le vacanze autunnali, sentì ancora più la perdita che lo aveva colpito. Riese, senza Don Tito e Don Pietro, non era più Riese. Il nuovo Parroco, per il suo carattere scontroso e per i suoi sistemi alquanto strani, non era gradito alla gente del villaggio.
Quanto il nostro Seminarista soffrisse per questo stato di cose, ce lo dice egli stesso in una lettera del 9 Settembre 1854 indirizzata a Don Jacuzzi.
“E' cosa amara il ricordarsi del tempo felice nella miseria — così scriveva — eppure, leggendo l'altro giorno la gentile e sempre grata sua lettera, provai meco stesso un non so che di compiacenza il ricordarmi i bei giorni che in sua compagnia ho passati.
“Adesso tutto è svanito. La Canonica è luogo di solitudine e quelli che l'abitano, anziché conservare qualche ora all'amicizia, godono piuttosto di fare ogni giorno le loro gitarelle e quindi, quasi sempre vivo in casa da tutti segregato, desiderando il momento di ritornare in Seminario per passare giorni più di questi tranquilli” (36).
Ma prima di rientrare in Seminario, volle accondiscendere alla richiesta del nuovo Parroco, inaugurando la sua carriera oratoria con la predica dei Morti, la quale lasciò nell'animo dei suoi conterranei una profonda impressione (37).
Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.
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