venerdì 24 gennaio 2020

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE



L'INQUISITORE

Nel tempo che fr. Michele era superiore del convento di Alba, la Riforma protestante, sotto pretesto di commercio, andava insinuandosi attraverso le terre lombarde. Il S. Ufficio, avendo saputo del danno che essa faceva in mezzo alle anime, risolse di opporle un'energica resistenza. E poiché molti ecclesiastici, consapevoli o no, s'erano lasciati sedurre dalle nuove dottrine, i cardinali preferirono di porre la loro fiducia in un uomo coraggioso e sicuro, e scelsero il priore domenicano di Alba, il quale fissò la sua dimora a Como col titolo e l'ufficio d'inquisitore. 
   Fr. Michele si mostrò presto ben capace di eseguire gli ordini ricevuti. Era necessario essere nel tempo stesso vigile custode, intrepido difensore e giudice. Egli comprese che una tale missione lo esponeva a delle ostilità pericolose. Un altro, più debole, avrebbe indietreggiato; lui vi andò coraggiosamente, poiché nessuna fatica, nessuna avversità avrebbe potuto abbatterlo. Qualora gli venisse segnalato qualche centro di propaganda di libri proibiti, penetrava arditamente nei covi degli eretici, a fronte alta, con parola recisa, ordini inflessibili. 
   Questa vigilanza gli procurò molti affronti; e la contraddizione veniva alle volte di dove meno era attesa. Un libraio di Corno nel 1549 aveva sparsi segretamente in quella regione dei libri proibiti. Fr. Michele, informato del fatto, gli proibì di venderne anche uno solo. Il libraio sconcertato, ricorse al vicario capitolare, che amministrava la diocesi vacante. 
   La gelosia aveva forse suscitato in quell'ecclesiastico qualche risentimento contro l'inviato di Roma, che esercitava ufficialmente giurisdizione nella diocesi? O il vicario volle cogliere l'occasione di suscitare una lite, per far richiamare il frate? Il fatto sta che radunò i canonici, li guadagnò alle sue idee, fece loro presenti i privilegi aboliti, e in nome della propria dignità suggerì loro di fare qualche rappresaglia. I canonici risposero al sequestro dei libri con una mano levata. Il libraio menò trionfo e col libraio l'eresia. 
   Ma il castigo non tardò a venire. Forte del suo diritto, fr. Michele, per difendere l'onore e gli interessi della. religione, scomunicò il vicario e il capitolo. Questo atto destò del rumore, che andò crescendo, allorché il S. Ufficio, approvando le misure del frate, citò i colpevoli a comparire. In certe ore di effervescenza anche i migliori perdono la calma; i turbolenti soffiano nel fuoco per accrescere il disordine, e i furbi se ne valgono per i loro interessi. 
   Minacce e ingiurie piovvero da ogni parte; tutti si misero d'accordo per recar pregiudizio al frate. Si sollevò la ragazzaglia, che assali fr. Michele con scherni e sassi; il conte della Trinità gli fece sapere che l'avrebbe fatto gettare in un pozzo; e i canonici si appellarono all'autorità civile del governatore di Milano;  Ferdinando di Gonzaga, ben lieto di intervenire nella vertenza e mettere un freno all'esercizio di un'autorità che secondo lui s'erigeva contro la sua, annullò le decisioni di fr. Michele, e lo citò a comparire davanti a sé. 
   Il Ghislieri si diresse verso Milano senza alcun timore; ma preavvisato che sulla strada si era predisposta un'imboscata, raggiunse la città attraverso sentieri segreti, lasciando che gli assassini attendessero inutilmente. 
   Il governatore, credendo che il prestigio dell'autorità ducale potesse intimorire il frate, quando l'ebbe davanti gettò su di lui uno sguardo pieno di fierezza, e quindi si ritirò nei suoi appartamenti, senza rivolgergli neppure una parola. Ma né la fierezza dello sguardo né l'atto comico del duca fecero alcuna impressione su fr. Michele, il quale avvertito che, dopo quelle millanterie, sarebbe stato incarcerato, parti in fretta per Roma, ove giunse la vigilia di Natale del 1550, scosso nella salute e assai stanco. 
   Andò al convento di S. Sabina. Il priore, ben lontano dal sospettare che sotto quella tonaca polverosa si nascondesse una persona di tanto merito, gli domandò se veniva cosi male in arnese per ricevere la tiara. Ma il priore, quando ebbe saputo chi era fr. Michele, si penti assai della celia. 
   Era allora prefetto del S. Ufficio il cardo Caraffa, fondatore con S. Gaetano dell'Ordine dei Teatini. Questo “calabrese dal sangue caldo” , vecchio di alto e nobile aspetto, dal viso macilento, dagli occhi vivi e profondi, presiedeva la Congregazione da poco istituita, con tanta energia e vedute personali cosi imperiose, che a qualcuno sembrava volesse usurparsi le prerogative del Papa. Nessuno poteva sottrarsi all'incanto della sua conversazione e all'influsso del suo sapere. La sua scienza vasta e precisa destava meraviglia. Parlava cinque lingue, e spiritoso com'era, sapeva rendere interessante la conversazione con uscite piene d'arguzia. I visitatori uscivano talvolta, senza avere potuto interrompere il suo discorso, e dovevano constatare che, presi da meraviglia, avevano invertite le parti, e che invece d'essere stati ricevuti in udienza, l'avevano data. 
   Per quanto attivo e facondo, questo cardinale menava una vita da monaco, e lo dimostrarono chiaramente le sue eroiche sofferenze tra i Teatini, e durante gli orribili massacri del 1527. Il carattere risoluto del Ghislieri doveva piacere a quest'uomo alquanto impetuoso, con un fare da dittatore. Nel primo incontro, il Caraffa indovinò subito quanta virtù e quale energica volontà possedesse il domenicano e risolse di servirsi di lui per la riforma della Chiesa, accordandogli tutta la sua fiducia. 
   Dietro proposta del Caraffa, i cardinali ratificarono le misure prese dal Ghislieri, e come segno di approvazione l'incaricarono di dirimere una questione, sorta tra due nobili ecclesiastici di Coira, città principale dei Grigioni. 
   Qualche consigliere troppo prudente, sapendo che il paese aderiva al luteranesimo, gli insinuò cautamente, che conveniva 'nascondere l'abito domenicano. “Non sia mai, rispose il frate; accettando questa missione, ho pure accettata la morte, e non potrei morire per una causa più gloriosa”. 
   A Bergamo mostrò ugual coraggio. Un avvocato, buon parlatore assai popolare, certo Giorgio Medulaccio, esaltava impudentemente il protestantesimo. Combatterlo, sarebbe stato un esporsi a gravi danni. Pr. Michele credette bene di non tergiversare, e ne ordinò l'arresto. Tutta la città si commosse, accesa d'ira contro di lui. Ma egli, affrontando lo sdegno della folla, l'arringò con quel calore e quella chiarezza precisa, che attirava un giorno nella sua scuola tanti uditori, e dopo aver giustificata l'incarcerazione del colpevole, e annunziati i castighi spirituali che sarebbero stati inflitti ai suoi complici, li fece allontanare dal carcerato, e poté istruire in pace il processo. 
   Un solo partigiano, e non dei più deboli, continuava a sostenere l'avvocato, il vescovo della città, Mons. Sorazo, il quale, sedotto dalle nuove dottrine, propendeva verso l'eresia. Segretamente spergiuro, s'apprestava a, corrompere i suoi diocesani. Ghislieri lo fece chiamare. Il vescovo rispose colla violenza, e assoldate delle persone a lui fedeli, le lanciò notte tempo contro il convento che ospitava il frate. Ma questi riuscì a sottrarsi all'attentato, e guadagnando nascostamente Roma, ottenne senza difficoltà la deposizione del vescovo indegno. 
   La forza e la destrezza di fr. Michele Ghislieri, l'audacia con cui egli si burlava degli ostacoli e dei pericoli, quasi avesse una specie di previsione che la sua via divinamente tracciata non sarebbe andata a perdersi nell'abisso, riempiva di meraviglia il Caraffa. Essendo morto nel 1551 il Commissario generale del S. Ufficio, il prefetto volle scegliere per quella carica il Ghislieri, e ne fece approvare la scelta da Papa Giulio III, quantunque il Maestro generale dell'Ordine avesse presentati al cardinale diversi ottimi religiosi. 
   Quest'importante carica, coi molti privilegi annessi, elevava d'un tratto a un'alta dignità il religioso che ne era investito. Le gelosie non tardarono però a destarsi. Ma il Caraffa rispose che giudicava l'Alessandrino “uomo atto a sostenere le più elevate dignità ecclesiastiche”. Sorpreso dapprima di questo onore, ma consapevole del suo dovere, il nuovo Commissario si mise subito al lavoro, e colla sua vigilanza e i suoi servigi giustificò ben presto la fiducia posta in lui dal Papa e dai cardinali. 
   Non bisogna però figurarselo come un uomo fiero, sempre pronto a combattere, a punire a sangue freddo, più inteso insomma a infliggere castighi che a convertire i colpevoli. Il suo zelo era guidato da una fede purissima e da una grande carità. Visitava ogni giorno i detenuti e discuteva volentieri con essi, per dissipare i loro dubbi. Li sovveniva con elemosine, e questo frate rigido, ch'essi conoscevano esatto e inflessibile quando sedeva in tribunale, li costringeva, per mezzo di delicate premure, a riconoscere la rettitudine delle sue intenzioni e la sua grande generosità. 
   Il suo zelo era ricompensato da conversioni, non dovute certo ad alcun interesse, come avvenne di Sisto da Siena. Questo francescano, inebriato dagli applausi che coronavano le sue temerarie predicazioni, aveva a poco a poco finito con l'insegnare dottrine eretiche. Due volte catturato, due volte recidivo, veniva già condotto al supplizio, quando il Commissario, commosso per la sua ancor giovane età e per il suo bell'ingegno, tentò di compiere presso di lui un passo decisivo. Pregò e fece delle speciali mortificazioni. Sisto si lasciò convincere, e, ottenuto la grazia, si fece domenicano, e visse religiosamente dando a tutti edificazione di buona vita. 
   In questo frattempo mori Giulio III. Il Sacro Collegio elesse Papa il cardo Caraffa; ma egli, benché ottuagenario, disse che la sua ora non era ancor venuta, e interpose tutta la sua autorità, perché venisse eletto il cardo Cervini che prese il nome di Marcello II. 
   Ventidue giorni dopo la S. Sede era di nuovo vacante, e il Caraffa, accettando la tiara (3 maggio 1555), volle chiamarsi Paolo IV. Fin dal principio del suo pontificato si fece premura di dimostrare a fr. Michele tutta la sua benevolenza. Lo confermò nella carica di Commissario, e poi nonostante le sue riluttanze lo promosse al vescovado di Sutri e Nepi, diocesi vicine a Roma. Appena consacrato, il Ghislieri pensò di prender possesso della diocesi, ma fu trattenuto da un ordine formale del Papa. Dopo vive istanze poté partire, e cominciare la riforma del popolo a lui affidato. 
   Ma l'indifferenza incontrata, accrebbe le prime inquietudini della sua coscienza, cosicché egli non tardò a pregare il Papa di liberarlo da ogni responsabilità. Paolo IV, che l'aveva creato vescovo, per promuoverlo in seguito a una dignità più alta, invece di accettare la rinunzia, gli procurò maggior confusione, dicendogli apertamente: “Vi metterò ai piedi una catena si forte, che non vi passerà più pel capo l'idea di ritornare al vostro convento”. Poco dopo il vescovo Ghislieri, con grande suo dolore, veniva elevato alla porpora cardinalizia. 

Card. GIORGIO GRENTE

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