martedì 28 gennaio 2020

L’UOMO NEL DISEGNO DI DIO



4a MEDITAZIONE

Per capire il significato della nostra vocazione come creature di Dio, accanto a quei racconti, quei  messaggi di creazione che abbiamo letto nei capitoli 1 e 2 della Genesi, ci debbono essere anche altre  dimensioni che la rivelazione biblica ci presenta.
Una di queste, fondamentale e forse non semplicissima per certi aspetti, è quella che va sotto il nome  di elezione.
Elezione vuol dire scelta, scelta di uno in mezzo agli altri, scelta di uno come unico, con un aspetto  inevitabile di preferenza. Proprio per questo, dicevo, un tema non semplicissimo perché le preferenze  ci sembrano avere il sapore della ingiustizia; però il tema della elezione nella Bibbia cʼè e ha un suo  significato notevole. Allora, volevo provare a leggere qualche cosa e ad entrare dentro a questo universo  che il tema della elezione ci presenta.

Questa è la posterità di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran: Aran generò Lot. Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei Caldei. Abram e Nacor si presero delle mogli; la moglie di Abram si chiamava Sarai e la moglie di Nacor Milca, ch`era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. Sarai era sterile e non aveva figli.
Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè del suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono.
Lʻetà della vita di Terach fu di duecentocinque anni; Terach morì in Carran.

Il Signore disse ad Abram:

«Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria
 e dalla casa di tuo padre,
 verso il paese che io ti indicherò.
 Farò di te un grande popolo
 e ti benedirò,
 renderò grande il tuo nome
 e diventerai una benedizione.
 Benedirò coloro che ti benediranno
 e coloro che ti malediranno maledirò
 e in te si diranno benedette
 tutte le famiglie della terra».

Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
 (Gen 11,27-32; 12,1-4)

Questo è il brano della vocazione di Abramo, della elezione di Abramo. Abramo viene scelto, chia- mato come unico, per una promessa e per un compito.
Primo problema: chi è Abramo? Sono partito dalla discendenza di Terach proprio perché sia chiaro:  Abramo non è un semidio, non è un eroe. Attribuire lʼorigine della propria stirpe a semidei o a eroi era  abbastanza normale nella antichità: Roma, Enea, Venere; andiamo verso qualche cosa di semidivino  e lo stesso per tante altre storie di origine. Per Abramo no: Abramo è semplicemente un uomo della  discendenza di Terach, uno in mezzo agli altri, uno come tutti gli altri inserito nella trama dei rapporti  normali tra le persone. Anzi, se qualche cosa il nostro testo sembra sottolineare, è una condizione di povertà, perché la moglie di Abram, Sarai, era sterile, non aveva figli e Abram comincia ad essere  anziano; quindi si può dire è una persona che dal punto di vista mondano non ha futuro.
Il non avere discendenza vuol dire, nellʼantichità, il non avere speranza, il non avere futuro.
Eppure il Signore chiama proprio lui: “Il Signore disse ad Abram”.
La domanda è inevitabile, perché Abram? Perché ha scelto lui, perché non Lot o perché non  qualcuno di qualche altra famiglia, di qualche altra stirpe? E questa è, evidentemente, una di quelle  domande a cui non cʼè risposta. Non ci sono motivi intrinseci, di merito. Può anche darsi che il signor  Abramo fosse una persona particolarmente intelligente, o particolarmente santa, che avesse qualche  dote speciale, ma il Libro della Genesi non lo dice e quindi non spiega la scelta. Vuol dire che per il  Libro della Genesi la scelta deve apparire così: inspiegata.
Ci saranno nella tradizione ebraica successiva dei tentativi di spiegazione. Ci saranno racconti che  diranno, per esempio, che Abramo, in Mesopotamia, era lʼunico monoteista: mentre intorno a lui cʼera  fiorente il politeismo, Abramo aveva conosciuto il Signore, lui solo. E questi sono tentativi significativi,  ma che vanno al di là della Bibbia. Per la Bibbia non cʼè spiegazione, o, se volete, la spiegazione è  nella libertà di Dio. Dio ama, ama liberamente, non è una forza di natura, non è un destino anonimo  – questo lo abbiamo ricordato allʼinizio – ama liberamente e gli è venuto in mente di amare quel tizio  lì che si chiamava Abram. Questo pone il problema sul quale poi torneremo.
Si rivolge ad Abram e lo chiama con alcune parole che sono significative. La prima: “Vattene”. “Vattene  dalla tua terra, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”.
Può darsi che dietro a questa espressione e alla esperienza originaria di Abramo ci stia qualche cosa di  culturalmente comprensibile: Abramo è una specie di seminomade, quindi i cambiamenti di ambiente  sono abbastanza normali. Può darsi che la spiegazione culturale della migrazione di Abramo ci sia,  cioè che Abramo sia semplicemente un migrante come tanti altri nella storia e che quindi avesse i suoi  motivi per muoversi e fosse giustificatissimo questo movimento di Abramo. Però non cʼè dubbio che  raccontandolo così, il libro della Genesi vuole insistere sul distacco. Vattene. Vattene dalla tua terra. E  non si ferma lì: dalla tua patria. E non si ferma lì: dalla casa di tuo padre. Quindi va sempre più verso  il concreto, lʼimmediato, fino alla famiglia.
Cʼè un distacco che viene chiesto ad Abramo. Vuol dire il passato; cioè quel passato che ha dato la  vita, la forma, la lingua, che ha dato il patrimonio ad Abramo, interessante e importante quanto potesse  essere, che adesso viene abbandonato.
Ricordavamo stamattina lʼimportanza del distacco nella crescita della persona umana: la vita comporta  questi, ed è solo attraverso i distacchi che possono verificarsi davvero delle esperienze di crescita. E  per Abramo la questione sta esattamente così. “Vattene!”.
La cosa interessante è che gli viene detto: “Vattene dalla tua terra, verso una terra che io ti indicherò.”  Quindi, da una terra a unʼaltra terra. Con quale differenza? Perché abbandonare una terra per averne  unʼaltra? È più ricca? È più interessante? È più gradevole per Abramo? Non è detto: la Mesopotamia,  almeno nellʼantichità, era fertile (poi il terreno si è salinizzato ed è diventato sterile, ma nellʼantichità  era fertile), quindi non cʼera un vantaggio economico in questo, e in ogni modo il vantaggio economico  se cʼè stato, non è la motivazione che viene presa dal testo. Il testo dice solo: “Vattene dalla tua terra,  verso la terra che io ti indicherò”.
La terra di Abramo deve essere lasciata e gli viene promessa la terra di Dio. Il cambiamento è tutto lì.  Deve abbandonare la vita che Abramo sperimenta come possesso per ricevere una vita che gli apparirà  come un dono, come il compimento di una promessa.
Sʼintende che a uno viene da dire: “E che cosa ci guadagno? Cosa cʼè di meglio nella terra che mi  viene dal Signore, rispetto alla terra che io possiedo?”. Evidentemente, di meglio cʼè una cosa sola: il  Signore. Nella terra che io possiedo ci sono io e il mio patrimonio, la mia terra, con quello che questo  comporta; nella terra che mi dà il Signore ci sono io, la terra e il Signore. Perché me la da Lui, quindi  quella terra porta lʼimpronta del Signore, porta la fisionomia del dono di Dio.
Il cambiamento è lì: da una vita percepita come possesso, a una vita ricevuta come dono. È il primo  aspetto, con la differenza fondamentale che il dono porta sempre con sé il donatore. Se cʼè un dono cʼè anche un donatore; se cʼè un possesso cʼè solo un proprietario, nientʼaltro.
Non solo: a questa promessa fondamentale di una terra, ne vengono aggiunte altre. “Farò di te un  popolo grande e ti benedirò”: promessa di una discendenza, promessa della fecondità della vita di  Abramo. Era uno dei suoi problemi come ricordavo prima: Sarai è sterile e Abramo sembra senza  futuro. Gli viene promessa una discendenza e una discendenza numerosa, un grande popolo.
E insieme con questo, ancora: “Renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”. “Renderò  grande il tuo nome” vuol dire che Abramo diventerà una persona importante, la sua vita avrà valore,  spessore, densità, forza.

La cosa interessante è che qui viene ripresa, esattamente, lʼespressione che nel capitolo 11, ver- setto 4, era stata ricordata nella costruzione della torre di Babele. Quando gli uomini vanno nella  pianura di Sennaar e lì incominciano ad edificare una torre, la famosa torre di Babele, dicono (Gen  11,4): “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome,  per non essere dispersi su tutta la terra”. Facciamoci un nome: cioè il desiderio, che per lʼuomo è  naturalmente istintivo, di una vita che diventi solida, che si manifesti significativa. Il nome vuol dire  questo. La differenza è che nella torre di Babele gli uomini vogliono procurarsi un nome, ad Abramo  il nome viene promesso da Dio.
Per quello che riguarda il nome non cʼè una grande differenza, ma per lʼesperienza personale cʼè,  eccome, perché vale il discorso di prima: un conto è la vita intesa come conquista, io conquisto le mie  realizzazioni, i miei obiettivi, e un conto è la vita ricevuta come un dono del Signore, ricevo da Lui  un nome grande.

Tutto questo si lega con lʼaltro termine di cui abbiamo già parlato. Nei tre versetti che ho letto viene  ripetuta per cinque volte la radice della parola “benedire”, benedizione. “Diventerai una benedizione;  benedirò coloro che ti benediranno; in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”. Abbiamo  ricordato più volte che questa radice ebraica – “barac”, è quella da cui viene Baruc; Baruc è il bene- detto – indica fondamentalmente la potenza di vita che Dio possiede e che Dio dona. Quando si dice  “ti benedirò”, vuol dire che la vita di Abramo viene dilatata, diventa più grande, diventa più degna,  diventa più significativa.
E non solo la vita di Abramo perché gli viene detto: “In te si diranno benedette tutte le famiglie della  terra”. In qualche modo la benedizione di Abramo è lʼinizio di un processo, di un movimento, di un  dinamismo che di per sé tende a essere universale. Tutte le famiglie della terra in Abramo, attraverso  Abramo.

“Abram partì, come gli aveva detto il Signore”. Abramo diventa nomade (adesso non mi interessa  la questione sociologica se lo fosse anche prima: mi interessa il significato del racconto), nomade verso  una promessa, verso un compimento.
Verso una promessa e un compimento è prezioso perché un filosofo contemporaneo dice che lʼuomo di  oggi è naturalmente un nomade, ma ci sono due tipi di nomadismo. Uno è il nomadismo del pellegrino,  lʼaltro è il nomadismo del girovago, del “girandolone”. Vagano tutti e due, ma il pellegrino ha una  meta, si muove verso quel traguardo, verso lʼincontro con il Signore. Il girovago gira, ma senza meta,  va un poʼ da una parte, un poʼ dallʼaltra, può ritornare al punto di partenza, lʼessenziale è muoversi,  come diceva Kerouac, in “On the road”: dove vai? via di qui! Lʼimportante è andare via, abbando- nare, lasciare. Dove non si sa, non importa, lʼimportante è camminare. Per lʼuomo di oggi cʼè questa  esperienza qui. Ma è diversa: un conto è il pellegrino, e un conto è il girandolone, il girovago.
Abramo diventa un pellegrino. A dire la verità, è un pellegrino un poʼ strano, perché non si sa in  realtà dove debba andare. “Verso una terra che io ti mostrerò”: quindi Abramo non la conosce ancora,  è misteriosa. Il quando, il come, il dove si realizza la promessa di Dio, Abramo non lo sa. Però certa- mente non è uno senza meta: la promessa di Dio gli indica un itinerario, un cammino.
Il risultato di tutto questo è il cambiamento di una esperienza di esistenza da esistenza solitaria (io) a sistenza di comunione: io davanti a Dio, io con il Signore.
Nel Libro della Genesi, al capitolo 17, versetto 1, cʼè unʼaffermazione che abbiamo riletto tante  volte perché ci sono molto affezionato, mi sembra che sia stupenda:

Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse:

 «Io sono Dio onnipotente:
 cammina davanti a me
 e sii integro». (Gen 17,1)

Io sono el Shaddai il Dio Onnipotente, o il Dio delle montagne, cammina davanti a me, alla mia pre- senza, e sii integro. Inevitabilmente, camminare davanti al Signore non è possibile se uno non fa un  cammino di integrità, di giustizia, di verità. Cammina davanti a me, come amico di Dio, sostenuto  dalla fiducia in Dio.
E Abramo inizia il suo pellegrinaggio che non avrà mai termine, perché quelle promesse che gli  sono state fatte, sono promesse di cui Abramo vedrà solo un piccolo anticipo. Gli è stata promessa  una terra e ci camminerà sopra, ma diventerà proprietario solo della tomba per sua moglie, di quel  pezzettino di terra che riesce a comperare da Efron lʼHittita: per il resto è uno straniero, è un ospite,  in casa dʼaltri, non è sua la terra, quindi non avrà la terra che Dio gli aveva promesso. La discendenza  gli arriva ma, come vedremo, gli arriva molto tardi e gli arriva nella figura di un figlio e non ancora in  quella del grande popolo. Non appare ancora molto di quella discendenza numerosa come le stelle del  cielo e come la sabbia che è sulla riva del mare, Abramo ne vede solo un piccolo scampolo. E tutta la  sua vita deve giocarsi sulla fiducia, sulla speranza: deve essere una vita di fede.
Al capitolo 15 si legge così:

Dopo tali fatti, questa parola del Signore fu rivolta ad Abram in visione: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose  Abram: «Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e lʼerede della mia casa è Eliezer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco a me non hai dato di- scendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo  accreditò come giustizia. (Gen 15,1-6)

È la prima volta nella Bibbia che viene fuori il verbo credere: il primo a credere nella storia della fede  è il signor Abramo. Ed è in questa occasione, quando il Signore gli rinnova la promessa e Abramo  oppone alla promessa la sua esperienza: e la sua esperienza è che è senza figli, è vecchio; fa fatica a  sperare a questo punto. Ormai è rassegnato a lasciare i suoi beni al suo fattore. Eliezer di Damasco è il  factotum, lʼamministratore dei beni di Abramo, e Abramo lo ha adottato giuridicamente, in modo che  possa ricevere il suo patrimonio, perché ci sia il futuro in qualche modo. Ma questo per Abramo è un  disastro, è il disastro della sua vita, è la sua delusione. “Che mi darai, Signore Dio, che mi darai?”:  puoi darmi quel che vuoi ma è un figlio che io cercavo, è un figlio di cui ho bisogno, è un futuro. Che  mi darai? “Io me ne vado senza figli e lʼerede della mia casa è Eliezer di Damasco”.
Il Signore gli rinnova la promessa, anzi gliela allarga tanto da diventare incredibile. “Abramo credette  al Signore”.
Il verbo credere in ebraico è la forma causativa di una radice che indica la fermezza, la solidità: è la  radice da cui viene la parola amen: è così, è solido, è fermo. E una forma causativa dovrebbe indicare,  secondo gli esperti, qualche cosa del genere: il collocare su qualcosa, su qualcuno, la propria sicurez- za, la propria fermezza. Io in me stesso non sono solido, sono sottomesso agli alti e bassi della vita, ai momenti di esaltazione e a quelli di depressione, alla ricchezza e alla povertà, non posso trovare in  me stesso quella fermezza e saldezza di cui ho bisogno, la devo cercare in qualcun altro. In Dio. Dio  è una roccia eterna, Dio è una fortezza inespugnabile, Dio è uno scoglio al quale posso aggrapparmi  sicuro di non essere trascinato via dalla forza delle onde. Dio è questo, e credere significa aggrapparsi  a Dio, collocare in Dio la propria fiducia, la propria sicurezza. “E Abramo credette al Signore”. Proprio perché crede al Signore la promessa si compirà: la promessa di un figlio. Ma prima che la pro- messa di un figlio si compia cʼè quellʼepisodio che abbiamo letto qualche domenica fa dellʼapparizione  alle Querce di Mamre, quando Abramo, seduto allʼingresso della tenda nellʼora più calda del giorno,  vede tre uomini che stanno in piedi presso di lui. Questi tre uomini sono camminatori di passaggio,  e bisogna vedere se Abramo è capace di giocare bene il gioco dellʼospitalità. Il brano insiste molto  proprio su questo gioco, che Abramo vive in un modo splendido, proprio da orientale pulito, bello:

«Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un poʼ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto lʼalbero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Faʼ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne  focacce». Allʼarmento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentrʼegli stava in piedi presso di loro sotto lʼalbero, quelli mangiarono. (Gen 18,3-8)

Evidentemente avevano tutto il tempo per i riti nellʼantichità, non hanno fretta e si fanno tutti i riti  dellʼospitalità. Perché? Perché Abramo sta per ricevere un dono e deve in qualche modo dimostrare  di esserne degno, ma degno non nel senso che il dono poi me lo merito, ma nel senso che mi mostro  capace di apprezzarlo ed è capace di apprezzare il dono solo chi è capace di farne un dono, solo chi è  capace di essere generoso con gli altri sa gustare la generosità di Dio nei suoi confronti. Allora Abra- mo deve fare vedere che lui, quanto a dono, se ne intende, lo gusta, tanto che lo comunica a questi tre  misteriosi personaggi di passaggio che sono poi alla fine il Signore stesso. Quindi, accogliendo lʼospite  Abramo ha accolto il Signore e il Signore alla fine gli fa quella promessa:

«Tornerò da te fra un anno a questa data [è la prima volta che viene dato un termine preciso] e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». (Gen 18,10)

Nasce il figlio ma la storia non è finita. Non è finita perché, cresciuto questo figlio, che è il figlio della  promessa (Abramo ha qualche altro figlio, ha il figlio di Agar la schiava, ma non è il figlio della pro- messa: il figlio della promessa è il figlio di Sara, Isacco, lui solo), andiamo al capitolo 22 del Libro  della Genesi che dice:

Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!».  Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, vaʼ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».  Abramo si alzò di buon mattino, sellò lʼasino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per lʼolocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva  indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora  Abramo disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con lʼasino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna dellʼolocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tuttʼe due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose:  «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dovʼè lʼagnello per  lʼolocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso provvederà lʼagnello per lʼolocausto, figlio mio!». Proseguirono tuttʼe due insieme; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì lʼaltare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sullʼaltare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per  immolare suo figlio. Ma lʼangelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Lʼangelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere lʼariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo: «Il Signore provvede», perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore provvede». Poi lʼangelo del Signore chiamò dal cielo  Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti  benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si  impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Poi Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea. (Gen 22,1-19)

È uno dei brani più misteriosi della Bibbia e che colpiscono in fondo, nel cuore del lettore. Che  significato ha un racconto di questo genere? Ne ha tanti di significati, dal punto di vista antropologico,  dal punto di vista etnografico, etc., che adesso non mi interessano. Mi interessa dentro al messaggio  della vita di Abramo.
Dio ha fatto una promessa e la promessa riguarda Isacco. Adesso chiede il sacrificio di Isacco, figlio  della promessa, quindi Dio appare in contraddizione con sé stesso. Cʼè nel racconto lʼinsistenza sul  sacrificio grande che viene chiesto ad Abramo, sul rapporto affettivo, perché il testo dice: “«Prendi tuo  figlio, il tuo unico figlio, quello che ami, Isacco»”. Ci sono quattro espressioni per dire il bambino e  queste quattro espressioni vogliono insistere sul fatto che cʼè qualcosa di immenso in questa richiesta  che il Signore fa ad Abramo; e il Signore lo sa e lo ricorda ad Abramo.

Ma in questo cʼè qualcosa di più, perché come dicevo Isacco è il figlio della promessa, quindi  sacrificare Isacco vuol dire annullare la promessa. Quello che viene chiesto ad Abramo è continuare  ad avere fede quando Dio è in contraddizione con se stesso. Quando il Signore gli dice: “«Prendi tuo  figlio, vaʼ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto»”, quel vaʼ è simile al vaʼ della vocazione. Ma  mentre il primo vaʼ, quello del capitolo 12, era un andare verso il compimento della promessa, questo  è un andare verso la distruzione della promessa, la promessa viene distrutta. E ad Abramo viene chiesto  di avere fede in Dio contro Dio, contro quella che è lʼapparenza delle richieste del Signore nei suoi  confronti. “«Vaʼ e offrilo in olocausto»”.
Perché questo? Che cosa ci sta dietro a un racconto di questo genere, che vantaggio cʼè in questa  incredibile prova a cui Abramo viene sottoposto?
Leggo nella Lettera agli Ebrei, al capitolo 11, quello che viene detto proprio a proposito del sacrificio di Isacco: 

Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto 
le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una  discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo. (Eb 11,17-19)

Tradotto, questo vuol dire: Abramo ha sacrificato Isacco. È vero che materialmente lʼuccisione non è  avvenuta, ma Abramo, nel suo cuore, lʼobbedienza a Dio lʼha portata fino allʼestremo. Abramo con- sidera Isacco come dono di Dio e Abramo consegna il dono a Dio.
Quindi il sacrificio in Abramo è avvenuto. Ma come è possibile che Abramo abbia compiuto questo  sacrificio custodendo la fede? la fede è la fede nelle promesse e Dio certamente non smentisce le sue  promesse. Dice la lettera agli Ebrei “Perché Abramo credeva nella risurrezione”, cioè credeva che  Dio è capace di far risuscitare anche dai morti, perché Dio certamente non cancella le sue promesse,  non è infedele. Se ha promesso un nome ad Abramo in Isacco, Isacco vive, Isacco vivrà; in qualche  modo che Abramo non può conoscere, non può controllare, Isacco vivrà.
E vuol dire che dentro a ogni atto di fede cʼè alla fine, implicita, la fede nella risurrezione. Cioè  la fede nella potenza di Dio più grande della realtà del mondo. Perché si può dire che credere vuol  dire avere più fiducia in Dio di quanto si abbia paura del mondo, delle cose, degli avvenimenti, della  storia, degli altri, di se stessi.
Abramo si manifesta in questo modo. In modo tale che lʼIsacco che scende dal monte non è più lʼIsacco  che è salito: è un Isacco ricevuto come dono una seconda volta da Abramo. Consegnandolo a Dio,  Abramo si è manifestato degno di essere il padre della promessa. Ma degno non nel senso che se lo  poteva meritare, ma nel senso che lo riconosce in fondo, fino in fondo, come dono del Signore.
La logica della elezione è questa. È una logica stupenda, perché vuol dire che Abramo è unico davanti  a Dio e Dio lo ama con un amore indiviso. Ma vuol dire anche che Abramo deve consegnare tutto, ma  proprio tutto, a Dio e che in questa consegna di tutto e solo nella consegna di tutto, Abramo diventa  davvero il destinatario delle promesse di Dio, quello nel quale le promesse di Dio si compiono.

Ora proviamo a raccogliere tutte queste cose per capire il significato della elezione.
Lʼelezione ci pone qualche problema perché dice preferenza di qualcuno rispetto agli altri; natural- mente dietro a questo ci sta, e lʼabbiamo ricordato, lʼamore di Dio. La formula dellʼamore, una delle  formule dellʼamore, è quella che dice “tu sei per me lʼunico al mondo”, almeno così spiegava la volpe  al piccolo principe. Quando uno si innamora lʼaltro diventa unico e non cʼè dubbio che la elezione  esprime questo.
È un fatto gratuito, nel senso che non è meritato e non è meritabile. Però, se uno entra dentro al  dinamismo della elezione, entra nel dinamismo del dono e non è più proprietario di sé, della sua vita  e di quello che ha ricevuto dal Signore. Tutta la sua vita diventa dono a sua volta, testimonianza a sua  volta, comunicazione a sua volta. Insomma, la elezione di Dio è lʼinizio di un movimento che vuole  coinvolgere poco alla volta tutte le persone che liberamente accolgono il dinamismo della elezione  stessa.
Faccio degli esempi per intenderci. Leggevamo oggi il vangelo di Giovanni, al capitolo 13, ver- setto 34: “«Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato»”. Allora lʼamore di Gesù dà inizio ad un  movimento dʼamore che vuole coinvolgere i discepoli e vuole dilatarsi allʼinfinito, dallʼuno allʼaltro.  Non ci deve essere nella logica di Dio, nella logica di Gesù, un limite.
Al capitolo 13, versetto 14 cʼè quellʼaltra espressione: “«Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate  Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri  piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri»”. Che Gesù si chini a lavare i piedi dei suoi  discepoli è un gesto di servizio e di amore, di onore incredibile fatto ai discepoli. Però se lo accettano  devono lavarsi i piedi gli uni gli altri, debbono chinarsi a lavare i piedi degli altri. La logica è quella  lì, non puoi lasciarti lavare i piedi e rifiutarti di servire il tuo fratello. Questo vorrebbe dire bloccare il  dinamismo del servizio. Il dinamismo del dono vuole essere senza limiti.
Ancora. Lettera ai Romani, capitolo 15, versetto 7: “Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cri- sto accolse voi, per la gloria di Dio”. Cristo vi ha accolto peccatori come eravate. Eravate peccatori: bene, se Cristo vi ha accolto come peccatori, voi dovrete accogliere gli altri anche se sono peccatori.  Il dinamismo dellʼaccoglienza è ancora un dinamismo dello stesso genere.
E, finalmente, ricordate quel discorso che abbiamo commentato varie volte, alla fine del capitolo 18 del Vangelo di Matteo:

«Quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette  volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.
A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse  venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti  rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto lʼaccaduto. Allora il padrone fece chiamare quellʼuomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse  restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello». (Mt 18,21-35)

Detto in altri termini: ci arriva un perdono incredibile di diecimila talenti, dono gratuito; ma questo  dono gratuito deve suscitare lʼamore per gli altri e il perdono degli altri.

Spero di spiegarmi. Lʼelezione di Dio è gratuita nel senso che non si può meritare, ma non è gratuita  nel senso che la si può godere senza lasciare che la propria vita sia compromessa. Se uno riceve la  elezione deve concepire e vivere la sua vita come un dono da consegnare; deve trasmettere quellʼamore  che ha ricevuto, così come lo ha ricevuto, verso gli altri; deve prolungare il dinamismo perché se non  lo prolunga il dono stesso appassisce e muore.
È quello che abbiamo ricordato lʼanno scorso quando dicevamo che il dono è gratuito nel senso che  non è meritabile, ma è impegnativo, eccome! Perché il dono chiede un dono di ritorno. Se io faccio  un dono in qualche modo ti sollecito a rispondere perché è solo se tu mi rispondi che si stabilisce il  legame, il rapporto. Altrimenti tu ti porti a casa il valore venale del dono, ma non ti porti a casa quello  che è lʼessenziale del dono: il legame di amicizia. Se non mi rispondi con il tuo dono, non mi sei amico  in fondo. E con il Signore la questione è così.
Sei eletto perché il Signore ti ha guardato e ti ha voluto bene, gratis. Sei unico al mondo. Ma se sei  unico al mondo, appartieni totalmente al Signore e la tua risposta deve essere una risposta totale. Se  non gliela dai, hai bloccato lʼelezione, hai bloccato lʼamore.
Se invece rispondi, la tua vita diventa significativa non solo per te, ma anche per gli altri, perché  quel dinamismo di amore si allarga, fai entrare anche gli altri, anzi, lʼumanità intera. La logica è quella  lì: il Signore ha benedetto Abramo perché la benedizione attraverso Abramo arrivi a tutti gli uomini.  Ma diventa benedizione per tutti gli uomini se Abramo riesce a vivere la sua vita come dono, e riesce  a vivere la sua vita come dono se riesce a donarla al Signore e quindi a tutti.
Nella logica di Dio, Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, dice la prima lettera a Timoteo, e  diventare partner di Dio attraverso lʼelezione significa fare nostro il disegno di Dio per la salvezza degli uomini. Significa che la nostra vita in qualche modo non ci appartiene più del tutto: appartiene  al Signore per la vita del mondo, per la vita degli altri.
Naturalmente, ci mettiamo subito la riserva, in un certo senso: la nostra vita appartiene al Signore per  la vita degli altri in modo progressivo, perché questa appartenenza dipende dalla maturazione della  fede e la maturazione della fede è lenta, non avviene di colpo, per cui non siamo di colpo perfetti nel  dono della nostra vita. Però il dinamismo è quello lì: sei scelto e amato dal Signore e quindi chiamato  a vivere la tua vita come dono.
Se la vivi come dono, la tua vita la restituisci al Signore attraverso lʼamore degli altri: se fai questo  tu dilati quel dinamismo che da Dio è arrivato alla tua vita e lo dilati provocando anche gli altri a fare  lo stesso, a credere nellʼamore di Dio, a riceverlo e a diventare portatori di questo amore, perché si  allarghi allʼinfinito fino a raggiungere tutti gli uomini.
E allora avviene una cosa stranissima: che la elezione, che partiva come una esperienza di unicità  “tu sei per me unico al mondo”, finisce nel suo dinamismo con il massimo di universalità, vuole coin- volgere tutti e colloca la persona eletta al servizio di tutti. La logica della Bibbia è quella lì.

Lʼesercizio è molto semplice: è il riuscire a vedere dentro alla vostra vita quellʼamore unico che il  Signore ha avuto per ciascuno di voi, perché per ciascuno di voi il Signore ha espresso il suo amore  con dei segni unici, a partire dalla famiglia in cui siete nati e dalle esperienze che avete fatto. Questi  segni di unicità provate a rivederli nella vostra vita: quei momenti, quegli incontri, quelle esperien- ze, a volte anche quelle sofferenze, dove però il segno della vicinanza del Signore, e della vicinanza  personale, cʼè stato, perché partendo di lì la vostra vita può assumere quel significato di servizio al  disegno di Dio che dicevamo.

S.E. Mons. LUCIANO MONARI

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