LA DIVOZIONE AL S. CUORE DI N. S. GESÙ CRISTO
Siccome la devozione al S. Cuore di Gesù è sommamente utile, facile, ragionevole e solida, sono poche le persone di soda virtù che non la gustino, poche che non la pratichino; ma non tutte sentiranno l’amore ardente verso Gesù né le vere dolcezze che Gesù fa provare a quelli che l’amano, per quanto questi favori speciali siano frutto della devozione al S. Cuore di Gesù Cristo. Tutto ciò che impedisce il progresso delle anime nella perfezione fa da ostacolo alle grazie grandi che questa devozione ci procura; e questo ostacolo che pochi riescono a superare dissecca, per così dire, la vena delle grandi grazie e fa sì che Dio si comunichi confidenzialmente solo a pochi.
Già da parecchio tempo ci lamentiamo che nelle pratiche di devozione non si sentano più quelle dolcezze celesti che gustavano i Santi, é che sebbene non siano proprie della santità, servono però a formare i Santi.
Non proviamo che aridità, tiepidezza e nausea nelle pratiche di pietà; nessuna consolazione, nessuna soavità nella preghiera, nessun ‘sentimento devoto alla Comunione e alla Messa; freddezza e noia in tutto ciò che dovrebbe formare il nostro piacere più grande e ogni nostra premura maggiore.
E allora?
Cerchiamo di acquietarci con dire che la santità non consiste nella devozione sensibile. È vero, sì, che si può essere grandi Santi senza la devozione sensibile, ma fino a tanto che siamo sempre vili e imperfetti, è da credere che Dio, per punirci della nostra viltà, ci privi delle dolcezze interne e delle consolazioni spirituali, che pure servirebbero a renderci più coraggiosi e a portarci a maggior perfezione.
La via della perfezione non è oggi diversa da quella per cui passarono i Santi. Tutti infatti confessano che non si può immaginare un diletto più grande di quello che si sente nel servizio divino, dove si è ricolmati di tanta soavità da rendere deliziose le fatiche più grandi; che ignorano che cosa sia la nausea e la malinconia; che ciò che sembra più spaventoso è causa di una gioia così pura e perfetta, che i casi più sinistri della vita non riescono a turbarla. Essi accertano che persino le prove più terribili in cui Dio li mette hanno la loro dolcezza e consolazione, e che soltanto il peccato potrebbe turbare la pace di cui fruiscono; inoltre che Dio ispira, loro una fiducia così illimitata nella sua misericordia che nemmeno le loro stesse mancanze li inquietano.
Questi sentimenti non sono di alcuni soltanto, ma li hanno provati tutti i veri Servi di Dio in ogni tempo, età, qualità e d’ogni nazione e condizione; ciò pure hanno confermato in punto di morte, quando si è più sinceri.
Chi potrebbe sospettare che persone sì sagge, persone di probità e di virtù universalmente conosciuta abbiano voluto ingannarci e si siano esse stesse ingannate? Dinanzi a un numero così prodigioso di testimoni irreprensibili, che parlano tutti per esperienza e con tanta uniformità per tanti secoli continui, può un uomo, ancorché fornito di poco ingegno, dubitare della verità d’un fatto così assodato? Da che viene allora che fra tante persone che oggi fan professione di pietà e seguono, a quanto pare, le orme di tutti questi Santi, così poche siano quelle che ricevono le stesse grazie? Senza dubbio perché pochissime hanno una virtù veramente temprata.
La santità non sta nella devozione sensibile, è vero; ma non è men vero che il gaudio interno e la pace imperturbata ad ogni contingenza della vita, la sottomissione perfetta alla volontà di Dio e la dolce fiducia nella misericordia di Lui, il che forma appunto la devozione sensibile, sono state sempre l’eredità di tutti i Santi e lo sono ancora di tutti i veri servi di Dio. S’è già visto che la devozione al S. Cuore di Gesù ha vera dolcezza, ossia che il frutto di questa devozione è l’amore ardentissimo e tenerissimo verso Gesù, accompagnato dalla gioia interna, dalle consolazioni celesti, dalle dolcezze, dalla pace inalterabile, superiori ad ogni immaginazione, e che sono altrettanti doni inseparabili dall’amore perfetto di Gesù.
Ora dobbiamo spiegare gli ostacoli che ne impediscono il frutto. Essi possono ridursi a quattro: 1) Grande tiepidezza nel servizio divino; 2) gran fondo d’amor proprio; 3) superbia segreta; 4) alcune passioni che non si ebbe cura di mortificare al principio della propria conversione.
Da questi quattro capi, come da quattro funeste sorgenti, scaturiscono tutti i difetti e le imperfezioni che ritardano tante anime nel progresso della pietà, che fanno fallire i disegni più belli e le risoluzioni più generose, che infine rendono infruttuose le pratiche più sante della devozione.
§ l. La tiepidezza.
Essendo la devozione al S. Cuore di Gesù una continua pratica d’amore ardente, è chiaro che la tiepidezza n’è uno degli ostacoli maggiori e ne impedisce ogni frutto. Benché il Figlio di Dio senta orrore infinito per il peccato, però non l’ha del peccatore; lo chiama, lo cerca, prova compassione di lui: ma il Cuore divino non può tollerare l’anima tiepida.
Dio volesse che voi foste freddi o caldi, ci dice l’amabile Salvatore, ma siccome siete tiepidi, vi rigetterò dalla mia bocca. Il Cuore di Gesù cerca delle anime pure e suscettibili dell’amor suo; il S. Cuore è sempre generoso e vuole anime capaci di ricevere i suoi favori e di giungere al grado di perfezione a cui le destina: ora questo non si verifica in quell’anima che vive nella tiepidezza. L’anima tiepida si trova nello stato di cecità causata dalle passioni che la tiranneggiano, dalla dissipazione continua in cui si trova, la quale le impedisce, di rientrare in se stessa, dalla moltitudine dei peccati veniali ch’essa commette, e dalla privazione delle grazie celesti, che le attira la sua resistenza.
Questo accecamento conduce alla coscienza falsa, sotto il cui riparo l’anima, che pure frequenta i Sacramenti, si trattiene per molti anni in peccati considerevoli, ma che la passione le nasconde o travisa, perché essa non ha la forza di correggersene.
Si troveranno qualche volta dei religiosi o dei secolari, che si professano devoti, nutrire avversioni segrete, gelosie avvelenate, affezioni pericolose, uno spirito aspro e mormoratore dei loro Superiori, una base d’amor proprio e di superbia che si riversa su quasi tutte le loro azioni, e altri simili difetti nei quali se ne stanno tranquilli, persuadendosi falsamente o sforzandosi di persuadersi che non ci sia troppa colpa in ciò, e cercando ragioni per scusare dei mancamenti che Dio non cessa di condannare come peccati gravi, e che essi stessi condanneranno in punto di morte, quando la passione non impedirà di vedere le cose come sono in realtà.
Ciò che rende questo stato anche più pericoloso e costringe Gesù Cristo a rigettare dal Suo Cuore un’anima tiepida, è ch’essa si trova in qualche modo disperata, perché la tiepidezza non guarisce quasi mai. Siccome i peccati commessi da un’anima tiepida non sono quei peccati grossolani e scandalosi che fanno orrore a chi è alquanto timorato, ma sono assai spesso puramente interni e non avvengono se non nel cuore, così sfuggono facilmente alla riflessione d’una coscienza poco sensibile e all’anima poco attenta a se stessa. Perciò, non conoscendo la gravezza del suo male, essa non si dà premura di rimediarvi, mentre un gran peccatore, che facilmente comprende i suoi disordini, è più in grado d’esserne tocco e di sentirne orrore. In questo senso N. S. dice ch’è più preferibile esser freddo che tiepido.
Le pratiche di devozione più solide sono inutili per un’anima che si trova in questo stato infelice, sia che il poco profitto che ricava dai più santi esercizi di pietà le tolga il desiderio di servirsene, sia che avendo fatto il callo a questi, ne sia meno impressionata; e intanto le grandi e terribili verità della fede, che stupiscono con la loro novità e scuotono con la loro efficacia i peccatori più grandi, non impressionano quasi più il suo spirito, perché essa n’è stata tanto spesso e inutilmente colpita.
Non appena si cade nella tiepidezza non si pensa ad altro che a se stesso, si è in continua ricerca di ciò che reca piacere, nasce una delicatezza che si raffina talvolta sulle persone più sensuali, un amor proprio che, non essendo indebolito dagli oggetti estranei, è tanto più forte, in quanto si rinchiude in se stesso e si applica interamente nell’immaginazione d’una vita comoda e tranquilla.
Facilmente si scorge che un’anima in questo stato, insensibile alle verità più terribili della salute eterna, lo è ancor più alle dimostrazioni manifeste dell’amore che Gesù ha per noi, è troppo lontana dalle disposizioni necessarie alla devozione del S. Cuore di Gesù per ricavarne profitto.
I segni per poter conoscere se siamo in questo pericoloso stato di tiepidezza, sono gli effetti ordinari che esso produce in un’anima tiepida: 1) Grande negligenza, in tutti gli esercizi spirituali, disattenzione nelle preghiere, confessioni senza emenda, Comunioni senza preparazione, fervore e frutto. 2) Dissipazione continua dello spirito quasi mai attento a sé e a Dio, ma diffuso indifferentemente su ogni sorta d’oggetti e occupato in mille inezie; 3) Brutta abitudine di compiere le azioni senza nessuno spirito interno, ma per capriccio o per abitudine, quasi nessuna facendone in cui non vi abbiano parte la passione, l’amor proprio e il rispetto umano; 4) Pigrizia nell’acquisto delle virtù del proprio stato; 5) Disgusto delle cose spirituali, e sopratutto indifferenza per le grandi virtù.
Il giogo di Gesù Cristo comincia a sembrare pesante, gli esercizi di pietà si fanno gravosi, le massime del Vangelo su l’odio di se stessi, sull’amore della Croce e delle umiliazioni, sulla necessità di farsi violenza, di camminare per la via stretta, sembrano inconcepibili. Si trova insopportabile l’esercizio continuo della modestia, della mortificazione, del raccoglimento interno; infelice la vita delle persone solidamente virtuose, quasi insopportabile la pratica della virtù.
Un sesto effetto della tiepidezza consiste in una coscienza insensibile alle piccole cose; non ci si commuove più per le infedeltà ordinarie né per le ricadute e ci si lascia andare facilmente a commettere ogni sorta di peccati veniali a occhi aperti e deliberatamente.
Ma quanto è da temere che questo difetto di delicatezza di coscienza, questa facilità a ricadere sempre negli stessi peccati e a confessarsene senza mai correggersi, questa negligenza, disprezzo delle cose piccole, indifferenza per le grandi virtù, incostanza negli esercizi di pietà, questo ondeggiare perpetuo tra il fervore e il rilassamento, non siano chiari segni d’una fede morente, d’una carità quasi estinta! Quanto è da temere che questo stato infelice di tiepidezza non ci conduca a poco a poco a quello dell’indurimento e dell’insensibilità!
Questo stato infelice è tanto più pericoloso quanto meno si conosce e non se ne temono affatto le conseguenze funeste; eppure non c’è nulla di più ordinario. Così chi non sentirà la dolcezza della devozione al Sacro Cuore di Gesù, chi praticandola non ne caverà frutto alcuno, ha gran motivo di temere che non sia proprio questo l’ostacolo che causa loro tale disgusto e impedisca loro di far profitto nei più santi esercizi di pietà.
Siccome la causa funesta di questo infelice stato di tiepidezza deriva di solito da un gran fondo d’amor proprio, il mezzo che daremo nel capitolo seguente per soffocarlo o almeno per mortificarlo, servirà di rimedio all’anima tiepida, perché la vera mortificazione è inseparabile dal fervore.
Ciò che abbiamo detto intorno alla tiepidezza è stato cavato in parte dal «Ritiro Spirituale» secondo lo spirito e il metodo dì S. Ignazio, scritto dal P. Nepveu d. C. di G., a cui fa a proposito aggiungere queste riflessioni,
1) E’ strano che ci siano persone religiose le quali dopo esse state così generose da abbandonare cose tanto grandi per Iddio, preferiscono in Religione privarsi delle grazie più grandi di Dio, anziché lasciare certe coserelle che le arrestano e le fanno strisciare per tutta la vita sulla via della pietà, impedendo loro di gustare la gioia e le dolcezze ineffabili che godono quelli i quali servono Dio con fervore.
2) Non è meno strano che persone le quali hanno compiuto grandi sacrifici per assicurarsi la salute eterna e meritarsi una morte dolce e tranquilla, per mancanza di un po’ di generosità muoiano piene di rincrescimento e di turbamento, dopo avere avuto per molto tempo il timore della morte.
3) Che cos’è che ci arresta? Non è possibile che nella Religione non si abbiano spesso buoni desideri, ma stupisce che non si mettano in esecuzione per non so quale pusillanimità di cui le persone secolari non ci crederebbero capaci. Noi avevamo talvolta cominciato sì bene a servire Iddio; pretendevamo allora d’ingannare gli uomini? Se Dio era veramente il motivo della nostra conversione, perché, rimanendo lo stesso motivo, non siamo noi perseveranti?
4) In verità: o i Santi hanno fatto troppo, o noi non facciamo abbastanza per diventar santi. Ma, si dirà, per vivere come vissero i santi bisognerebbe, essere santi. Piuttosto diciamo: bisogna farsi santi, e solamente come son vissuti i Santi si può sperare di esserlo.
5) Per ammassare dei beni che lasceremo agli altri, non ci sembra mai troppo o troppo lungo il tempo che lavoriamo; così per acquistarci fama nel mondo: e per il cielo, per la felicità eterna crediamo d’aver sempre tempo che basti. Un bel carattere, si dice, un bell’ingegno, una persona di buone disposizioni non può risolversi a menare vita perfetta. E da quando in qua le più belle doti naturali, che pure sono sempre state di grande aiuto per giungere alla virtù più sublime, sono diventate un ostacolo alla santità?
6) È un grande errore il supporre che ci sia una età o uno stato che sia poco adatto per la virtù più sublime. Ma che diranno costoro quando si mostri loro una moltitudine di Santi d’ogni età e condizione, che si son fatti grandi Santi in ogni stato, in qualsiasi impiego? Né soltanto l’esempio di questi ci sarà di condanna un giorno, ma ci condanneremo noi stessi; e mentre noi pretenderemo di scusare la nostra tiepidezza e la nostra viltà con la scusa della nostra condizione, età ed impieghi, ci si farà vedere che in quella stessa età, in quegli stessi impieghi, in quella stessa condizione, abbiamo avuto più a soffrire e ci siamo affaticati per il mondo più di quello che Dio richiedeva da noi per il Cielo.
7) Non c’è nessuno sì stolto che osi dire o voglia far credere che, dopo avere speso dieci anni nello studio delle scienze umane, si stimerebbe felice di saper tanto, quanto aveva imparato nei primi sei mesi che s’era messo a studiare: eppure ci sono persone che fanno professione di vita devota, cioè che si propongono come scopo principale di arrivare alla perfezione, le quali dopo dieci o venti anni di studio e di pratica della sublime scienza della salute, non si vergognano di dire, né rincresce loro che si creda, che esse sarebbero davvero felici se avessero quel fervore, quella mortificazione e quella santità che avevano sei mesi dopo la loro perfetta conversione a Dio.
È vero che esse procurano di stordirsi, per dir così, con la dissipazione al di fuori e coi piaceri insipidi di una vita infingarda, ma presto o tardi arriveranno alla morte, e quali saranno i loro sentimenti in quel punto?
8) Siamo noi persuasi davvero delle grandi verità della nostra Religione? Se non crediamo, facciamo anche troppo, ma se crediamo non facciamo certo quanto basta.
Di che si tratta dunque?
Si parla tanto di salvezza, di anima, d’eternità. È poi vero che io sono al mondo per salvarmi? È poi vero che Gesù s’è fatto uomo solo perché questo deve essere di tutti gli uomini l’unico negozio, che solo meriti la nostra attività, che solo la richieda interamente e che solo da essa dipenda? È vero che perduto questo, è perduto tutto; che tutto si rischia se ci mettiamo in pericolo di non riuscire in esso, e, che se si vive nella tiepidezza ci mettiamo quasi nella necessità di non riuscire? Non è forse vero che qui si tratta dell’eternità?Non si sarà ingannato Dio quando ci disse che tutto il resto non conta nulla?, Avrebbe forse Dio male impiegato le sue cure e la sua provvidenza, riferendo tutto a ciò? Vale tanto poco Dio, che pure comprende ed è in tutte le cose, da esserci tanto indifferente il perderlo? Perché tanti pianti, perché tanti e sì crudeli pentimenti nell’inferno, se il bene che i dannati hanno perduto meritava sì poco d’essere cercato? E perché quel fremito al solo pensiero dell’eternità, se è cosa da poco essere eternamente infelice?
Ma la temiamo molto questa infelicità, mentre ci diamo poco pensiero d’evitarla, e vivendo in quella tiepidezza e indifferenza in cui stiamo, si chiama forse pigliarsene molto fastidio?
9) Se avessimo cura di fare spesso tali riflessioni, ci vergogneremmo di vivere tiepidamente, d’essere negligenti nel servizio di Dio, e prenderemmo subito la risoluzione d’amare Gesù. Ma purtroppo! Le facciamo queste riflessioni, ci commuovono, e dopo poco cerchiamo di distrarci, quasi infastiditi della nostra cognizione e commozione, simili, come dice S. Giacomo, a quell’uomo che getta gli occhi sul suo viso naturale, che vede riflesso nello specchio, e dopo averlo guardato se ne va e subito dimentica come egli era. (Jac. 1, 23).
§ 2. L’amor proprio.
Purtroppo è vero che sono poche le persone che non agiscano per amor proprio, e la sola differenza tra le persone spirituali e quelle che non lo sono sta in ciò, che in queste l’amor proprio opera senza maschera, e in quelle è meno visibile e più mascherato. Chi volesse prendersi il fastidio di riflettere sui veri motivi della maggior parte delle azioni che sembrano meno difettose, vi scoprirebbe cento giri e rigiri dell’amor proprio che ne ostacola tutto il frutto, essendone egli il motivo più potente.
Di tutte le pratiche della virtù, non piacciono né si approvano se non quelle che fanno comodo. Il pretesto specioso di conservarsi la salute, che si crede sempre necessarissima per la gloria di Dio, ingombra la mente di mille cure. Ci custodiamo, ci abbiamo riguardo, e quasi ogni mortificazione ci sembra o indiscreta o poco adatta alla nostra età o condizione.
Prendiamo per illusioni i pensieri e i desideri che Dio ci manda di tanto in tanto, di attendere seriamente alla perfezione, e procuriamo di persuaderci che Dio non richieda da noi tanta santità, ancorché ci abbia fatto grandissime grazie o ci abbia posti in una vita che non richiede se non grandi Santi. Ci lusinghiamo di possedere un vero desiderio di lasciar tutto e di intraprendere tutto, non appena ci sarà manifesta la volontà di Dio: e Dio ha un bel picchiare in fondo al nostro cuore con le sue ispirazioni, e invano Dio parla per bocca d’un Direttore, d’un Padre spirituale, per mezzo delle riflessioni che facciamo, dei lumi che riceviamo, degli esempi che vediamo e che lodiamo noi stessi. Non si conosce la voce, di Dio quando è contraria all’amor proprio, perché la verità è che, non la volontà di Dio prendiamo per regola della nostra condotta, ma la nostra inclinazione e l’amor proprio vogliamo che siano la regola della volontà dì Dio.
Da che deriva che ci sono tante persone che non sono mai più inquiete, malinconiche, sensibili, mai di umore più cattivo che quando sono più raccolte, e sembrano più occupate a rendersi perfette? Ciò che le tiene inquiete sono i lumi che ricevono nell’orazione e le ispirazioni che Dio manda loro, perché non s’accordano coll’amor proprio di cui sono piene.
A quanto pare esse vorrebbero, per potersi applicare con serietà a santificarsi, che la via della perfezione non avesse nessuna difficoltà, oppure che Dio le ricolmasse di dolcezze e di consolazioni interne prima ancora di aver fatto il primo passo nella via della perfezione. Intanto siccome la vita di tali persone si mostra ben regolata e la loro condotta irreprensibile, esse hanno la disgrazia di andar sempre strisciando e di languire in questo stato, senza mai correggersi di un solo difetto.
Per noi forse sarebbe più utile esser privi affatto di certe virtù, con le quali ci aduliamo; ché almeno riconosceremmo la nostra povertà e miseria; ma quel po’ che ne possediamo non giova ad altro che a renderci ogni giorno più imperfetti.
Ci contentiamo d’un’esteriorità composta, d’una modestia naturale o finta, d’una virtù apparente, ch’è piuttosto frutto d’educazione anziché di grazia; e poiché ci vediamo al sicuro da quei rimproveri che si tirano addosso i meno regolati nella vita, ci pare d’aver molta virtù, perché nascondiamo parecchi difetti.
Ci facciamo dunque una devozione secondo l’umore, il carattere e il capriccio nostro. E si trovano troppi Direttori deboli e compiacenti che approvano questo sistema, sul quale gira tutta la vita; ed ecco perché ci si rende insensibili agli esempi, alle riflessioni e alle verità che commuovono i peccatori più grandi. Non è da meravigliarsi se, pieni d’amor proprio, si cercano dappertutto i propri comoducci, né si vuol mancare di nulla col pretesto d’essere pronti a lasciar tutto; e se pure qualche cosa si lascia, lo facciamo il più delle volte per ingannare noi stessi con questa pretesa mortificazione, e per godere tranquillamente cento altre cose che ci stanno più a cuore e di cui non vogliamo privarci.
Non si agisce il più delle volte che per sentimento e inclinazione, solo affezionati a quelli verso cui si prova simpatia, e nulla rifiutando ai sensi, o se si mortificano in qualche cosa, è solo in quelle che recano meno fastidio, oppure quando la mortificazione ci porta qualche onore. Vogliamo compiere opere buone, ma con la soddisfazione della scelta di quelle che faremo. Quindi viene che dei minimi obblighi, impostici dal nostro stato, sentiamo disgusto, mentre ci attirano tanto quelle occupazioni più penose, che sono di nostra scelta o ci pongono nella necessità di esimerci dagli obblighi più ordinari del nostro stato. Consideriamo l’infermità negli altri come una Prova, come un dono di Dio; ma non appena Dio ci fa questo dono, eccoci inquieti, malinconici, impazienti e ansiosi: non è che la malattia ci renda tali, ma è che in essa noi ci mostriamo veramente quel che siamo, perché ci mancano i motivi e i mezzi che ci dava la salute, per dissimulare il nostro amor proprio.
Dalla stessa sorgente, cioè dall’amor proprio, hanno origine i desideri sterili e i disegni chimerici di cui si pasce uno spirito naturalmente orgoglioso, e di cui si nutre l’amor proprio. Infatti ci proponiamo dei metodi di vita che si vorrebbero mettere in pratica in certe occasioni, e poi come se avessimo assicurato la nostra conversione e la nostra santità, non ci diamo più pensiero di emendarci delle imperfezioni. Persuasi inoltre che per farsi Santi è assolutamente necessaria la mortificazione, rigettiamo le croci che ci si offrono con la scusa che son troppo piccole, ma in verità perché son troppo vicine, e aneliamo alle croci più grandi solo perché le vediamo più lontane.
Ci nutriamo intanto di vane fantasie, riposiamo su questa esteriorità composta, sulle buone opere che ci piacciono e nelle pratiche di devozione in cui siamo esattissimi; e come ebbri di lodi vane e insipide fatteci dagli adulatori, pieni il capo di una virtù di cui non abbiamo che il nome, alla fine di una lunga vita ci troviamo senza merito, e spesso con non altro sentimento che d’un vano e sterile desiderio d’essere anche allora quegli uomini dabbene, ch’eravamo quando incominciò la nostra conversione.
Ecco le conseguenze dell’amor proprio dalle quali sì pochi vanno esenti. Quanto siamo da compiangere che alleviamo un nemico tanto più pericoloso, quanto è più sottile, e di cui meno diffidiamo!
Ora è chiaro che Gesù Cristo non riconoscerà mai per veri amici del suo Cuore quelli che amano solo i propri comodi, e che, non amando che se stessi, sono tentennanti a occuparsi per lui. Ciò Egli ha detto espressamente delineando il carattere dei suoi veri servi: — Invano, Egli dice, uno si crederà d’essere mio discepolo perché ha lasciato per amor mio i beni, i parenti e gli amici, se non rinunzia anche a se stesso, adhuc autem et animam suam. Bisogna farsi violenza, combattere le passioni, soffocare o almeno mortificare in tutto l’amor proprio, se si vuole, essere davvero suoi discepoli.
Non c’è vero amore di Gesù dove non c’è vera mortificazione.
3. La superbia segreta.
La superbia segreta non è ostacolo minore all’amore di Gesù, anzi sembra che non vi sia ostacolo più grande per la nostra perfezione, e quindi all’amore ardente verso Gesù Cristo, quanto lo spirito di vanità, da cui pochi si guardano. Con la pratica della virtù si superano e indeboliscono tutti gli altri nemici, ma questo s’irrobustisce con quella. Le nostre stesse vittorie diventano armi di cui si serve il demonio per superarci, prendendo occasione da esse per ispirarci l’orgoglio. Si può dire che fra tanti vizi non ce n’è nessuno che più di questo abbia ritardato tante anime nella via della perfezione più alta, e le abbia fatte precipitare nella tiepidezza e fino nel disordine.
Da questo spirito di vanità nasce il desiderio smoderato di far bella comparsa e la smania eccessiva di riuscire in tutto ciò che si fa. Invano ci tormentiamo l’anima per trovare ragioni che, nel far ciò, noi non vogliamo se non la gloria di Dio; basta ascoltare la coscienza per capire che noi cerchiamo soltanto la gloria nostra.
L’inquietudine smisurata che ci fa temere di non riuscire, la tristezza e lo scoraggiamento che ci prendono dopo un insuccesso, la gioia e la dilatazione di cuore che sentiamo per l’onore e per le lodi che ci fanno, son tutte prove evidenti dello spirito di vanità che ci muove. Esso s’insinua perfino nell’esercizio delle maggiori virtù. Vogliamo essere mortificati in sommo grado, vogliamo essere cortesi, onesti, educati, caritatevoli, ma è molto utile per l’edificazione del prossimo, si dice, che si comparisca tali. Dalla medesima origine scaturiscono anche tutti gli altri difetti. A poco a poco ci riempiamo la testa della persuasione d’un preteso merito che non abbiamo, che se l’avessimo davvero ce lo farebbe perdere la sola idea d’averlo. Ci piace raccontare le nostre avventure, c’è sempre un episodio della nostra vita da portare come esempio nell’argomento che stiamo trattando, e quasi si direbbe che non sia più difetto quel lodarsi continuamente quando si è conseguita la fama di uomo dabbene. Si vuole avere la stima e il cuore di tutti, e per questo si preferisce esimersi dai propri doveri anziché disgustare alcuno e, cosa ancora più strana, si vuole coprire questa ambizione e vanità col manto specioso dell’onestà, della carità, della condiscendenza, persuadendosi vanamente che per rendere agli altri la virtù meno difficile, bisogna fare così.
Eh, via! La vera pietà ha bisogno di fondare la sua amabilità sulle mancanze e sui difetti altrui? Insomma si vuol piacere a Dio e agli uomini, e perciò appunto assai spesso non si piace agli uomini e si dispiace a Dio.
Hanno la stessa origine la delicatezza in fatto d’onore, i piccoli raffreddamenti nell’amicizia, le amarezze tanto vicine all’invidia (se pure non ne hanno affatto la malizia), la pena segreta causata dai buoni successi altrui. Si trova sempre qualche motivo a cui attribuire la causa maggiore dei buoni successi. Si cerca di sminuirli, se ne parla freddamente, si trovano noiosi o adulatori quelli che ne parlano elogiandoli.
Da che deriva tutto ciò?
Dall’esser noi pieni di vanità e di superbia.
Siamo sensibili alla minima parola incivile; al minimo sospetto di disprezzo crediamo di poterci dispensare dall’usare verso gli altri i doveri dell’educazione, mentre non perdoniamo loro se mancano a quelli elle pretendiamo ci debbano avere. E con illusione anche più ridicola, c’immaginiamo che sia onore di Dio, a cui serviamo, e della virtù sublime, che ci lusinghiamo d’avere, se mettiamo in mostra davanti a tutti l’ingegno, i talenti, le nostre belle doti naturali e soprannaturali: e se qualcuno poi non ci stima né venera quanto ci si attendeva, non basta questo talvolta a farci subito credere elle quello è un imperfetto, un libertino, che non sa apprezzare affatto il merito né stimare le virtù?
E questi non sono ancora tutti gli effetti di tale segreta ambizione: si vuole il grido, gli applausi, le lodi per ciò che si compie. Ne vedrete alcuni che si affaticano molto per Iddio, ma non fanno che narrarvi quanto lavorino: sono sempre in pena, sempre frettolosi, stanchi, oppressi, si direbbe che invitino tutti ad aver compassione di loro nelle loro fatiche.
Il vero è che la vanità ha gran parte nelle loro pene: si credono importantissimi e necessari nella società, e per tali vogliono ben passare. L’orgoglio si insinua persino nelle cose più umili.
Talvolta amiamo distinguerci nella pratica di certe virtù e anche in quella delle opere buone, ma non ci sarebbe pericolo che ci affanniamo più per vanità che per gloria di Dio?
Infine, la tristezza eccessiva e lo scoraggiamento che si provano dopo qualche recidiva nei nostri primi mancamenti, non possono essere mai conseguenza di coscienza delicata, come credono alcuni, ma solo di superbia segreta che ci fa credere d’essere più santi di quel che siamo realmente.
Insomma passiamo per persone spirituali e tali ci crediamo, ma non ci regoliamo se non con la prudenza umana palliata sotto il nome di buon senso, e tutto riferiamo alla regola di questo preteso buon senso, che ci siamo fatta, per ingannarci senza scrupolo.
Secondo questa falsa regola pure giudichiamo le cose spirituali, le operazioni divine e le meraviglie della grazia, approvando solo ciò che fa comodo al nostro capriccio. Ci serviamo delle grazie di Dio in noi e negli altri secondo le massime della saggezza umana, e per accecamento strano, ch’è il castigo delle anime superbe, crediamo appunto di seguire la ragione e il buon senso, quando più ci allontaniamo dallo spirito di Dio.
E con tutto ciò ci meravigliamo d’esser privi di consolazioni spirituali, di sentimenti devoti, dopo dieci o venti anni trascorsi nell’esercizio della virtù e nella pratica delle opere buone. Ci si lamenta di non progredire affatto, d’essere sempre ancora imperfetti, che l’uso frequente dei sacramenti è senza frutto, che s’ignora che cosa sia la devozione sensibile. La superbia segreta, covata in fondo al cuore, inaridisce, per così dire, la sorgente delle grazie maggiori, e fa che persone in apparenza tanto sagge, regolari e riservate, che sono vissute tanto onoratamente e sono state presentate come l’ideale di quelli chiamati ricchi nel mondo, viri divitiarum, e che secondo tutti gl’indizi dovrebbero essere cariche di ricchezze spirituali, queste persone, dico, si trovano in punto di morte con le mani vuole di opere buone, perché l’amor proprio, l’ambizioncella, la superbia segreta hanno rapito tutto o tutto corrotto.
È questo il verme che fa seccare le querce più alte, il lievito che prima o poi corrompe tutta la massa o almeno la gonfia e riempie di vento.
È evidente dunque che l’amore di Gesù non può stare insieme con un vizio a lui tanto opposto. E come potrebbe il Salvatore divino, che volle che la prima beatitudine, cioè il fondamento della vita spirituale e il primo passo da muovere nella via della virtù, fosse lo spirito d’umiltà, ch’egli scelse a preferenza su tutte le altre per farne il suo proprio distintivo, come potrebbe, ripeto, essere amato molto da quelli che lo somigliano si poco? L’umiltà sincera di spirito e di cuore costituisce il segno distintivo di Gesù Cristo: è dunque impossibile essere animati dal Suo Spirito e abitare nel suo Cuore se non si possiede questo vero spirito di umiltà.
§ 4. Le passioni immortificate.
Il quarto impedimento o la quarta sorgente da cui sgorgano i difetti che impediscono o soffocano l’amore di Gesù Cristo, e quindi la devozione al suo S. Cuore, sono certe passioni immortificate a cui si ebbe riguardo, e che presto o tardi diventano la causa funesta di qualche grande disgrazia. La maggior parte di quelli che vogliono darsi a Dio e perciò proclamano guerra mortale a tutti i vizi, si regolano in questa, guerra presso a poco come Saul in quella ch’egli intraprese per ordine di Dio contro Amalec4. Dio gli aveva comandato di sterminare tutti gli Amaleciti e di annientare tutto ciò che loro apparteneva, senza risparmiare nulla. Saul distrusse quel popolo, ma, mosso a compassione, graziò il re e mise da parte per il sacrificio tutte le cose più preziose trovate sul campo5.
Questa disubbidienza però gli tolse il regno e fu causa della sua riprovazione e della stia rovina: Pro eo ergo abiecit te Dominus ne sis rex6. Parecchi seguono l’esempio di Saul nella guerra che combattono contro i vizi; Dio non voglia che facciano la stessa fine!
Siamo certo persuasi che Dio richieda da noi il sacrificio completo delle nostre passioni, e ch’Egli non può tollerare che si risparmi alcun vizio: in apparenza obbediamo, mettendo a morte, per dir così, tutti i nostri nemici; ma c’è qualche passioncella predominante che viene risparmiata, qualche cosettina più cara che non si tocca, e per ingannarci senza scrupolo, sempre per motivo buono, si lascia dentro il cuore un rifugio a qualche nemico. Soffochiamo, sì, in noi lo spirito mondano, ma ci piace vederlo vivere nei figli; portiamo indosso abiti assai modesti, ma vogliamo che la figlia faccia sempre bella figura con abiti sontuosi; si lascia il giuoco, ma non le combriccole; freniamo gli scatti d’ira, ma lasciamo vivere l’ambizione segreta e non so quale gelosia nascosta, che non sappiamo risolverci a distruggere interamente; mortifichiamo quella continua divagazione esterna, quel tono mondano che stona tanto in quelli che si professano amanti di Gesù Cristo, ma conserviamo la libertà di trascorrere ore ed ore in visite e conversazioni inutili.
Con questa bella scusa, che bisogna farsi benvolere da ognuno per guadagnarlo a Gesù Cristo, che la virtù deve rendersi dolce, amabile, grata, diventiamo a poco a poco come tutti gli altri, e della virtù non resta che il nome, la vana idea e l’apparenza.
Ci sono altri di cuore più generoso che infrangono i forti legami che li tenevano attaccati al mondo, abbandonano i parenti e i beni, rinunziano anche in qualche modo alla loro libertà, sottomettendosi al giogo dell’ubbidienza religiosa, ma intanto non si danno affatto pensiero di rompere i lacci più piccoli, vale a dire di disfarsi di mille piccoli attaccamenti che non lasciano di inceppare e di ritardare il loro progresso nella via della perfezione. E che fa se i lacci che ci uniscono alle creature son piccoli, quando sono tanti e tanti? Ne basta uno solo, per quanto piccolo, a impedire, se non si vuole romperlo, che si faccia un sol passo innanzi.
Finalmente ci sono alcuni abbastanza generosi, risoluti a vincere tutto e fanno anche degli sforzi, ma non vogliono toccare il loro carattere o qualche difetto che più s’adatta alla loro inclinazione. E questo solo nemico risparmiato, questa sola passione non mortificata, questo solo difetto non corretto, questo solo legame non infranto, li fanno andare strisciando per tutta la vita e impediscono loro di giungere a quell’alta perfezione a cui furono chiamati.
Pro eo ergo abiecit te Dominus ne sis rex.
Basta una piccola falla ad affondare una nave e col tempo a far cadere il più bel palazzo; basta una scintilla a provocare un grande incendio; spesso la morte è conseguenza di una leggera malattia trascurata, e finalmente sarà sempre vero che a screditare un quadro, per altro ben dipinto, basta una cattiva pennellata.
Talvolta ci si meraviglia di trovare persone invecchiate negli esercizi di pietà, persone di spiritualità consumata, mortificate al massimo grado, e tuttavia hanno delle grandissime imperfezioni che esse stesse rimproverano negli altri e di cui però non si correggeranno mai. È perché si rendono familiari, per dir così, coi loro difetti, li risparmiano fin dalla giovinezza, lasciano che operi il loro carattere, si fanno facilmente trasportare. Di continuo si lodano da se stesse sempre per motivo buono e con qualunque pretesto. Trascurano insomma di divenire perfette in gioventù e si trovano imperfettissime nella vecchiaia.
Ecco i grandi impedimenti del puro amore di Gesù Cristo e quindi della devozione al S. Cuore di Lui. Ecco le origini di tante imperfezioni che purtroppo si scoprono nelle persone d’apparenza più spirituali; imperfezioni che però fanno grandissimo torto alla vera pietà, perché producono una falsa idea della devozione. La pietà solida condanna per tutto questi difetti; il vero amore di Gesù non tollera affatto le imperfezioni, la superbia segreta e l’amor proprio, tre sorgenti nefaste, i cui effetti non si trovano in chi possiede questo vero amore. Frattanto senza il puro e vero amore di Gesù non si dà devozione soda né virtù perfetta.
Gridava un gran servo di Dio: «Dio mio, che disordine, che rivoluzione! Ora siamo allegri, ora tristi; ora cortesi con tutti, domani come tanti ricci che non si possono toccare senza pungersi. Questo è segno evidente di poca virtù e che la natura ancora domina in noi, che le nostre passioni non sono affatto mortificate, perché l’uomo veramente virtuoso è sempre uguale. Non c’ è pericolo che se per caso noi facciamo del bene non sia piuttosto per temperamento che per virtù?».
P. GIOVANNI CROISET S.J.
Nessun commento:
Posta un commento