di Patrizia Fermani
Qualcuno ha obiettato che le parole testuali pronunciate da Bergoglio non siano le stesse riportate nell’articolo e che il discorso nel suo complesso suoni diversamente. Tuttavia, proprio se andiamo a rileggere quel discorso, vediamo come il senso che se ne possa trarre non cambi, anzi emerga con più prepotenza la inadeguatezza di quelle parole sia per il ruolo ricoperto da chi le pronuncia, sia per le circostanze in cui sono state pronunciate.
B. riceve in udienza il personale e i pazienti dell’ospedale pediatrico. Il tema della sofferenza dell’innocente ha da sempre impegnato l’umanità. Emerge con prepotenza nella Bibbia come nella tragedia antica. La sofferenza dei bambini, innocenti per eccellenza, rimane sconvolgente. Ma qui non ci deve essere spazio né per le riflessioni personali né per considerazioni inappropriate: qui si chiede conforto.
Eppure Bergoglio sembra compiacersi di mettere il dito in una piaga aperta. Insiste sul tema, anzi va oltre la domanda comune, varca la soglia che normalmente ognuno per ritegno cerca di non superare, e con una tecnica tutta sua diventa il ventriloquo di un possibile sentimento popolare. Dice che alla domanda perché soffrono i bambini non si trova risposta neppure nelle Scritture che pure dice di avere studiato, e anzi introduce, non richiesto, il tema della ingiustizia di Dio che manda il suo Figlio, dove il Figlio è evidentemente assimilato al bambino che soffre senza giustificazione. Infatti “ha mandato il proprio figlio” (a soffrire) sta a significare che Dio stesso ha addirittura creato l’archetipo del dolore innocente, senza giustificazione. Quindi al Figlio mandato (a soffrire) dal Padre, si associa l’idea incontrovertibile della ingiustizia divina. Il Figlio figura come semplice strumento inerte nelle mani del Padre, il quale agisce senza una finalità intelligibile e plausibile.
Per questo alla fine, dice Bergoglio, bisogna accontentarsi di guardare il Cristo sofferente. Ma non per trarne un qualche significato escatologico. Tutt’altro. Per trovarvi uno specchio delle sofferenze umane, che sono senza senso e senza speranza. Sta di fatto che, ignorando la ragione della sofferenza quale viene sviscerata dalla teologia cristiana, non rimane che la responsabilità cieca di Dio che infligge senza ragione quella sofferenza.
Inutile sottolineare come da tutto questo balbettio confuso emerga soprattutto la mancanza assoluta della visione cristiana.
Manca la consustanzialità tra il Padre e il Figlio, mancano le ragioni del sacrificio, manca ogni significato della sofferenza sublimata nella sofferenza di Cristo.
Il Figlio non è il Verbo che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi, ma un figlio qualunque mandato a soffrire senza ragione come tanti bambini ammalati. Manca il fine, dunque, della sofferenza del Figlio, che in realtà non è il bambino sofferente ma il salvatore. Manca l’idea salvifica della passione e morte di croce, manca la idea fondamentale cristiana dello affidamento alla volontà provvidente del Padre che mette il cristiano al riparo dalla disperazione e ha fatto sentire a Giovanna, nel momento atroce del supplizio, la vicinanza consolatrice della Madre Celeste.
Il Christus patiens non è uno che ci consola come semplice pietra di paragone di un meschino “mal comune mezzo gaudio”. È quello che ha offerto alla umana sofferenza quell’orizzonte spirituale più alto di speranza ricercato invano dalla civiltà antica, ha aperto cioè la porta alla speranza che dà corpo al cristianesimo. Mente la visione di Bergoglio ha il respiro di una strada chiusa e irrimediabilmente senza uscita.
Vi manca tutto quello che è espresso in sintesi insuperata nello affresco della Trinità a Santa Maria Novella, dove Masaccio ha osato raffigurare Dio padre Onnipotente che abbraccia e domina in sublime, potente compostezza simbolica la scena della crocifissione. L’uomo della fine del mondo non conosce di certo l’iconografia trinitaria di Masaccio, né sarebbe in grado di comprenderla, ma non conosce neppure Giobbe e Geremia, il Vangelo di Giovanni, e neppure le confessioni di Sant’Agostino, e quindi non ha trovato risposte nelle Scritture, anzi non ha mai trovato nel cristianesimo se non la base per il proprio marxismo da centro sociale, mentre ignora volutamente i fondamenti dello spirito cristiano.
Ora, questa è posizione plausibilissima per chiunque non accetti la teologia cristiana, ma è inappropriata per chi fa di mestiere quello di guida spirituale del popolo cattolico. In altre parole, il signor Bergoglio è libero di pensarla come crede anche su un tema di rilevanza oggettiva, come quello della sofferenza degli innocenti, ma non è libero di avere un’opinione che contraddice il messaggio cristiano finché si presenta in pubblico vestito da papa. A meno che non pensi di ricoprire un ruolo virtuale, di essere in una sorta di finzione cinematografica ad uso del grande pubblico, o meglio del grosso pubblico. Insomma, poco male se fosse uno qualunque come noi tutti, liberi di pensare e sentire quello che ci pare. La chiesa nuova, del resto, assicura anche ai c.d. fedeli la più ampia libertà di pensiero senza conseguenze morali e canoniche. Sennonché, non si sa come e non si sa bene perché, questo signore senza misura e senza studio è stato issato dai signori in rosso della Sistina sul trono di Pietro, e la cosa comporta l’onere di insegnare qual è l’essenza della dottrina cristiana e di conoscere i contenuti biblici.
Allora le perplessità sulla inadeguatezza dell’individuo a ricoprire anche formalmente un ruolo tanto impegnativo si traducono presto in un forte allarme. Perché è evidente che l’attentato quasi quotidiano alla essenza e alla intellegibilità del cristianesimo è un attacco fraudolento, è una rapina ai danni di chi nel cristianesimo ha riposto e ripone la propria speranza. Cosa può insegnare di veramente cattolico un genitore, un educatore, se deve fare i conti ogni giorno con quanto viene pubblicamente contraddetto con autorità da questo signore e dalla sua corte dei miracoli?
Qui torna utile rispondere ad un’altra obiezione avanzata da qualche lettore. Vale ancora la pena di soppesare tante parole inutili che non hanno peso? Tutti noi avremmo cose più interessanti di cui occuparci. Tutti noi sentiamo che la pochezza di quanto viene blaterato in continuazione con abuso di potere e in modo del tutto incontrollato non meriterebbe neppure di essere letto. Ma sta di fatto che se ai refrain autistici, alle banalità volgari, alle esplosioni di un delirio di onnipotenza malcontrollato non si fa più attenzione, per non fare fatica e perché ci sono sempre cose più piacevoli di cui occuparsi, allora tutto a poco a poco rientra nella normalità. A tutto ci si abitua. Tutto diventa di uso corrente come ogni volgarità televisiva, ogni manipolazione mediatica, ogni prepotenza della politica e della ideologia di regime. Diventa miracolosamente normale che il Ministro della Pubblica istruzione sia una senza istruzione, che sia eliminata la cultura e la sapienza dell’arte dal governo dei Musei Vaticani, e sia abbandonato un enorme patrimonio che è di tutti alla miseria della più ignorante ideologia. Diventa normale che la cattedra di Pietro possa essere occupata da uno afflitto da un’unica idea grande anzi smisurata, quella del proprio ego.
Ma forse abbiamo invece il dovere di non abituarci all’osceno che avanza ovunque come un’onda di piena.
E a questo proposito può tornare significativo l’episodio che mi raccontava a distanza di tanti anni la tata dei miei bambini, nata e cresciuta in una grande casa colonica del Polesine dove vivevano insieme tre generazioni di persone, e le rispettive famiglie, fino alla catastrofica alluvione del 1951. Quando l’acqua arrivò al secondo piano della casa, suo padre, dopo avere affidato la moglie e gli undici figli alle barche di soccorso, rimase armato di pistola nel solaio dove aveva portato in salvo per tempo anche tutti gli animali da cortile e quelli più piccoli. La pistola era per difendere dagli sciacalli le bestiole che avrebbero potuto garantire un po’ di sopravvivenza alla fattoria, una volta passata la terribile piena del Po.
Forse fu un gesto inutile. I figli grandi trovarono lavoro nelle fabbriche lombarde, tutti gli scampati rimasero a vivere più a nord, i campi restarono a lungo devastati, la fattoria senza speranza. Ma quell’uomo solo con la sua pistola, le sue galline e i suoi conigli e il maiale, quell’uomo solitario rimase per tutti come il simbolo di una doverosa resistenza di fronte alla furia degli eventi.
Si parva licet componere magnis, vale ancora la pena di occuparci ogni tanto di quello che in sé non varrebbe neppure la pena di essere preso in considerazione. Non per altro che per mettere riparo dal pericolo della abitudine, che è malattia contagiosa sempre in agguato, e della quale qualcuno un giorno potrebbe a buon diritto chiederci conto.
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