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sabato 20 febbraio 2021

L'ultimo Papa canonizzato

 


IL PARROCO DI SALZANO (14 luglio 1867 - 27 novembre  1875) 


UNA NOMINA NON BENE ACCOLTA 


Don Sarto era giovane: 32 anni! 

Era forte: nei suoi occhi lampeggiava il coraggio di un lottatore, nel suo  passo fermo e nella sua parola aperta si rivelavano l'energia e la tempra di un  indomito lavoratore. 

Possedeva una intelligenza pronta e perspicace, cuore grande, una volontà  inflessibile ed una eloquenza che gli prorompeva dal cuore ardente per la  salvezza delle anime 126. 

Ma la sua nomina a Parroco di Salzano suscitò un certo scalpore, accendendo  critiche e commenti. 

I Salzanesi, abituati ad avere, come Parroci, sacerdoti di valore, i quali  ordinariamente finivano per passare alle prime cariche canonicali della  Cattedrale di Treviso, nell'udire che il Vescovo mandava a loro, come  Parroco, il giovane Cappellano di Tombolo si sentirono punti sul vivo. 

— Ma come! ... — si diceva — con tanti Parroci benemeriti, con tanti zelanti  Pastori di anime ben conosciuti, mandare in una Parrocchia di tanta  importanza, come la nostra, un semplice Cappellano? Ma che cosa è saltato  in mente al Vescovo? Accordiamo pure che Don Sarto abbia dei meriti e dei  bei numeri, ma promuoverlo di colpo da un posto tanto meschino come è Tombolo, a Salzano, non va .... assolutamente non va! ... Salzano è una  Parrocchia che ha sempre avuto una tradizione gloriosa di Arcipreti dotti e  maturi, di sacerdoti rinomati! 

Così, più o meno, si sussurrava a Salzano. 

Il Vescovo Mons. Federico Zinelli — “uomo dotto e ponderato” 127 che  sapeva la scelta che aveva fatto — per il momento lasciò dire e non vi badò tanto. Ma non appena ebbe dinanzi a sé i Fabbricieri della Parrocchia,  accompagnati dal consigliere comunale più anziano, certo Paolo Bottacin,  prima di presentare loro il nuovo Parroco, senza reticenze e senza preamboli,  disse loro: 

— Nel darvi come Parroco il Cappellano di Tombolo, ho fatto molto per  Salzano. Vi ho dato un Parroco d'oro anche se non ha speciali aureole o  colori di araldica. Andate, e, alla prova, resterete contenti. 

I Fabbricieri non aprirono bocca. Ma quando a fianco del Vescovo videro un  pretino magro, pallido e quasi raggomitolato dalla stanchezza del viaggio  fatto da Tombolo a Treviso, si guardarono, mogi, mogi, in faccia, facendo del  loro meglio per nascondere la loro delusione, mentre il consigliere comunale  Paolo Bottacin, colto il momento, in cui il nuovo Parroco parlava con il  primo dei Fabbricieri, nel suo dialetto campagnolo sussurrò ali orecchio di  quello che gli stava a fianco: “El Vescovo el ga dito ch'el ga fato molto per  Salzan. Si po'. ... el ga fato calcossa de belo”! 128. 

Ma quei signori dovevano presto mutare opinione, perché se a Tombolo il  Servo di Dio era stato il Cappellano dei Cappellani, a Salzano, confermando  con i fatti il sentimento del suo Vescovo, doveva essere il Parroco dei  Parroci.

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.

mercoledì 9 dicembre 2020

L'ultimo Papa canonizzato

 


UN NUOVO “CREDO” IN MUSICA 

Un episodio — meglio delle parole — ci farà comprendere la “perfetta 

letizia” della povertà del Cappellano di Tombolo. 

Una volta Don Giuseppe dovette cedere davanti alle rimostranze che la  sorella, Don Costantini e gli amici Cappellani dei dintorni gli facevano  continuamente per il misero stato della sua veste, tutta rammendi e toppe, la  quale domandava di venire messa in disparte. 

Ma come fare a provvedere la stoffa, se non c'erano danari? 

Don Giuseppe si mise nelle mani di Dio, e, recatosi a Riese da un merciaio di  antica conoscenza, gli espose il desiderio di acquistare del panno, ma “da  poveretti” — diceva — per la veste che aveva necessità di cambiare. 

Il merciaio gli fece vedere diverse qualità di stoffa. Don Giuseppe scelse  quella che gli parve più adatta: tirò sul prezzo quanto poté, e, quando ebbe in  mano il suo involto, guardando in faccia il mercante: 

— Signor Pasquale — disse — senta che bella voce mi è venuta e come ho  imparato bene la musica da quando sono Cappellano di Tombolo. 

Così dicendo, intonò il “Credo”. 

Il merciaio capì alle prime note il significato di quella musica e di quel canto,  e, ridendo, rispose: 

— Mi pareva impossibile che fosse venuto qui, questa volta, con le tasche in  regola! E sorridendo, prese il libro del dare e dell'avere, e, senza esitare, vi  segnò a credito le note musicali del famoso Credo di Don Sarto, perché non  ignorava che in quelle note vi era la voce della gratitudine di tutti i poveri di Tombolo soccorsi dalla insuperabile carità dell'eroico Cappellano, la quale  ogni giorno più s'illuminava di sacrificio, di povertà e di amore 118. 


UN PANEGIRICO E LA NOMINA A PARROCO 

I Tombolani amavano immensamente il loro Cappellano, ma temevano che,  un giorno o l'altro, dovesse venire loro tolto 119. Come supporre che un  sacerdote di tanto merito e di tanta virtù potesse venire lasciato  perpetuamente in un piccolo villaggio ed in un posto così umile? 

Don Costantini guardava al suo Don Giuseppe con amore e con ammirazione  e gli dispiaceva di vederlo quasi dimenticato dai Superiori. 

Lo avrebbe veduto volentieri salire nelle vie della gerarchia per fecondare  con i sudori della sua fronte un campo più vasto e andava pensando al modo  di aprirgli la via, quando nella primavera del 1866 capitava a Tombolo un  Canonico di Treviso: Mons. Luigi Marangoni. 

Don Costantini pensò subito tra sé: 

— E' qui Mons. Marangoni, un Professore di Teologia molto autorevole e  molto stimato dal Vescovo.... egli può fare .... Questo è il momento di tentare  il colpo! 

Si sentì sicuro, e, fatto cadere il discorso sopra il suo Cappellano, dopo  averne encomiate le invidiabili doti di mente e di cuore, terminò con questa  raccomandazione: 

— Caro Canonico, bisogna parlarne in Curia. Un Cappellano così degno  tenerlo confinato qui tra i pioppi, tra i mercanti e i sensali di bestiame, mi  sembra una cosa non giusta. 

— Avete ragione, Don Antonio — soggiunse Mons. Marangoni — ma cosa  volete! ... Ha studiato a Padova e i Superiori non lo conoscono! 

— Una ragione di più, perché se ne parli in Curia! — replicò con calore Don  Costantini. 

— Ma credete voi — domandò il Canonico — che il vostro Cappellano sia  capace di tenere il panegirico di S. Antonio di Padova nella Cattedrale di  Treviso?. . . Si tratta di un panegirico di grande importanza, come voi ben  sapete, non solo per l'intervento in Duomo di tutto il clero della città e del  Capitolo Canonicale, ma più, perché solito ad essere affidato ad oratori di  vaglia. 

— Capacissimo! — ribatté il Parroco. 

— Bene! — concluse il vecchio Monsignore — il vostro Cappellano è impegnato per il Duomo di Treviso. 

*** 

Il panegirico nella Cattedrale di Treviso fu un autentico successo oratorio per  il giovane Cappellano di campagna che, ignaro dell'affettuoso, quanto  delicato tranello del suo Parroco, sognava l'apostolato in mezzo agli umili in  una vita modesta, silenziosa ed oscura, intessuta di lavoro, di privazioni e di  sacrifici. 

Il Vescovo, che da tempo seguiva la meravigliosa attività del “Cappellano  dei Cappellani”, dieci mesi dopo, lo chiamava a concorso per una Parrocchia  della Diocesi. Don Sarto, nemico di ogni umana vanità, avrebbe voluto  rimanere nascosto tra i sensali e i mercanti di Tombolo 120. Ma la volontà  del suo Vescovo era troppo chiara e precisa, troppo insistenti le preghiere e  pressanti i consigli del suo Parroco, il quale, per vincere la resistenza della  sua umiltà, non cessava di ripetergli, celiando: “Se non concorri, concorro io  per te” 121. Obbedì il Beato ed il 21 Maggio 1867, vinto trionfalmente il  concorso, era promosso Parroco di Salzano: una delle migliori e più  importanti Parrocchie della Diocesi nella ubertosa pianura che si stende verso  le quiete lagune di Venezia 122.  

I Tombolani accolsero la notizia della promozione del loro Cappellano con il  pianto sugli occhi, perché sapevano di perdere un Santo 123. 

Giocando sopra una consonante del suo cognome, non dicevano essi, forse,  che il loro Cappellano “non era Don Giuseppe Sarto, ma Don Giuseppe  Santo”? 124 

*** 

Per il Cappellano dei Cappellani incominciava l'ascesa e l'avvenire si  preparava a rispondere, obbediente, al presagio che Don Costantini aveva  fatto poco prima quando al suo amico carissimo Don Tositti, Parroco di  Quinto, scriveva: 

 “Don Giuseppe Sarto è un buono e bravo Cappellano. Attendete alle mie  parole: presto lo vedremo Parroco di una delle più importanti Parrocchie  della Diocesi.... poi con le calze rosse.... e poi.... chissà!” 125 

Quello che allora non osò aggiungere Don Costantini, doveva aggiungerlo a  caratteri d'oro la Provvidenza Divina, la quale, piegando gli eventi ad una  eccelsa meta, nel Cappellano di Tombolo veniva preparando il Papa  “restauratore di ogni cosa in Cristo”.

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c. 

venerdì 23 ottobre 2020

L'ultimo Papa canonizzato

 


“GRANOTURCO NE HA”? 

La Cappellania di Tombolo era misera e le rendite del Cappellano erano  molto scarse, consistendo in una questua di granoturco e di frumento — i due  prodotti del luogo — che aumentava o diminuiva a seconda del raccolto  (105). Ma nelle mani di Don Sarto queste rendite diventavano ancora più  scarse, perché quel poco che aveva non era suo, ma dei bisognosi, ai quali era  solito dire: “Finché ne ho, mangeremo insieme” 106. 

Un giorno della primavera del 1861 — anno di carestia — un povero uomo si  presentò al Cappellano, chiedendogli 10 lire per andare in cerca di lavoro. 

— Volentieri te le darei se le avessi.... ma danari.... che vuoi? ... non ne ho!  — rispose Don Giuseppe. 

— E granoturco ne ha? — replicò il poveretto. 

— Granoturco sì! — soggiunse il Servo di Dio, ricordandosi che nel granaio  esisteva ancora un piccolo resto dell'ultima questua. 

— E allora .... 

— E allora .... vieni con un sacco. 

Quel poveretto non se lo fece dire due volte: andò a casa e ritornò con un  sacco. 

Don Giuseppe lo condusse nel granaio, e, indicandogli il granoturco — poco  più di uno staio — ammucchiato in un angolo, disse: 

 — Facciamone due parti, una per te ed una a me. Va bene così? 

— Benissimo! — rispose il povero uomo, mentre due grosse lagrime gli  facevano velo agli occhi e la commozione gli faceva nodo alla gola 107. 


UN SACCO DI PANNOCCHIE 

Un altro poveretto, ridotto alla miseria per mancanza di lavoro, con la moglie  inchiodata sopra un misero giaciglio e con due figlioletti che piangevano per  gli stimoli della fame, batteva, un giorno, alla porta del Cappellano,  invocando pietosamente un tozzo di pane. 

Don Giuseppe, perché sapeva che cosa voleva dire avere la casa buia e il  desco deserto, si commosse, e, pensando che cosa in sul momento potesse  fare, si risovvenne che aveva tre sacchi di pannocchie di granoturco appena  raccolto dalla questua. 

— Avete un sacco? — domandò al povero. 

— Mi basta un po' di farina per fare la polenta! — fu la risposta. 

Ma Don Giuseppe non si accontentò di dargli un po' di farina: gli diede un  sacco di pannocchie. Poi, chiamata la sorella Rosa, le disse: “Domani mattina  verrà un altro povero: gli darai il secondo sacco” 108. 

LETIZIA SANTA 

La carità di Don Sarto sorpassava troppo le sue misere rendite, perché egli  potesse avere mai un centesimo in tasca. 

Vestiva poveramente, mangiava come. l'ultimo povero del paese, viveva di  fatica e di stenti, ma dalle sue labbra mai un
lamento 109. 

Non aveva aspirazioni di gloria o di onori umani, non ambiva posti lucrosi, 

non desiderava promozioni 110. Se poteva vantarsi di una cosa era quella di  essere nato povero e di vivere da povero 111. 

Contento della sua povertà era sempre tranquillo, sereno, gioviale 112. Non  lo conturbava il presente, ne lo preoccupava il domani, perché “tutto egli  sperava da Dio” 113. E quando venivano i giorni oscuri, in cui per soccorrere  i poveri o per strappare la vita era costretto ad inviare segretamente al Monte  di Pietà di Cittadella o di Castelfranco il suo modestissimo orologio d'argento  114, non perdeva mai la calma e non si oscurava mai la dolcezza della sua  pace: 

 “Confidate in Dio”! — era il suo motto eroico 115. 

 “Iddio provvede”! — la sua parola d'ordine 116. “La Provvidenza non manca  mai”! — la forza della sua fede e della sua inconfondibile speranza 117. 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c. 

domenica 13 settembre 2020

L'ultimo Papa canonizzato



CARITÀ SENZA MISURA 

Tramandata di padre in figlio, la memoria del nostro Beato è ancora viva per  il senso divino della sua carità che si apriva a tutte le miserie ed alle più  urgenti necessità della vita: la nota caratteristica di Don Sarto, Cappellano e  Parroco, Canonico e Vescovo, Patriarca e Papa. 
Tutti ricorrevano a lui: ora un poverello, a cui mancava il pane; ora un  mediatore che da tempo non guadagnava un soldo; ora un contadino che non  sapeva come tirare innanzi la famiglia, perché la gragnuola o la siccità gli  avevano distrutto tutto il raccolto; ora una povera vedova che non aveva di  che vestire le sue creature ed ora un ammalato che si dibatteva nella miseria,  senza medicine e senza sostentamento. 
Don Giuseppe non sapeva dire mai di no, perché sul labbro gli fioriva sempre  una parola: “Il Signore provvederà!” (95) 
Dava tutto quello che aveva e più di quello che aveva: non conosceva limiti,  né misura. Si privava di tutto, non si preoccupava di sé, non si curava delle  proprie ristrettezze che non erano poche, si toglieva persino il pane dalla bocca e non di rado si riduceva a domandare a sua volta, in carità, un po' di  farina ed un po' di formaggio per mangiare lui e le sorelle (96). 
Esagerazione? ... Esagerazione sapiente dei Santi, con i quali il Cappellano di  Tombolo si accomunava quando, levandosi con lo spirito dalle labili cose  della terra alle cose eterne di Dio, a chi confidenzialmente gli diceva che  avrebbe fatto bene a pensare un poco a sé, ripeteva: “Che cosa si ha da fare  delle cose di questo mondo che dobbiamo poi lasciare? Facciamone ora  carità ai poveri” (97). 

Tutti i piccoli guadagni che egli ritraeva dalle sue predicazioni erano destinati  alla mamma che viveva nella povera casetta di Riese con le figliole, ma  doveva mandarli subito, perché altrimenti andavano a finire diritti nelle mani  dei poveri (98). 
Un giorno — così assicurava la nipote del Parroco già da noi ricordata — per  un panegirico in un paese vicino, aveva ricevuto un marengo d'oro (20 lire)  — una ricchezza allora — ma quando ritornò a casa “nol gaveva pìù uno  scheo”: non aveva più un centesimo! 
Il fiammante marengo era andato a sollevare la miseria di un povero (99). 
Il Cappellano di Tombolo aveva il cuore fatto così: “tutto carità”! (100) 

Un altro giorno era andato a Cittadella a tenere il discorso funebre di una  piissima ed insigne benefattrice di Tombolo. 
Ma, ritornato a casa, tutto allegro e contento, disse a Don Costantini: 
— M'hanno dato una genova! (80 lire). 
— Ti comprerai qualche cosa, adesso — soggiunse il Parroco. 
— L'ho data via quasi tutta — replicò il giovane Cappellano che viveva  abbandonato alla Provvidenza Divina (101). 
Don Costantini lo guardò fisso: avrebbe voluto rimproverarlo, ma tacque,  ammirando.

“Don Sarto aveva un mantello così logoro” — testimoniava una buona  popolana di Tombolo — che i Cappellani dei dintorni, scherzando, dicevano  che era stato in guerra. 
 “Una volta essendo stato invitato a predicare a Castelfranco, Don Costantini  gli suggerì di cogliere quell'occasione per comprarsene uno nuovo. 
Don Giuseppe, lì per lì, parve ascoltare il consiglio del suo Parroco. Ma quando dopo la predica si imbatté in uno zio che gli chiedeva un aiuto per  pagare l'affitto di casa, il suo animo non resse alla commiserazione, e, senza  dire parola, gli diede tutta la “fiorella” (36 lire venete) che aveva appena  ricevuto, ritornando a Tombolo con il suo misero mantello” (102). 
Nulla era sicuro nelle mani di Don Giuseppe. 
La sorella Rosa che viveva con il suo lavoro di sarta era riuscita a  raggranellare una ventina di lire, con le quali aveva pensato di acquistare  della tela per un paio di lenzuola, di cui in casa c'era bisogno ed aveva  incaricato della compera il nostro Beato. 
Don Giuseppe prese il danaro, e, con passo lesto, si avviò verso Cittadella.  Dopo alcune ore era di ritorno, ma non aveva né tela, né danari! 
Con quella ventina di lire della sorella aveva ratto la carità ad alcuni poveretti  che gli avevano chiesto l’elemosina. 
Per le lenzuola si poteva aspettare, ma non sarebbe stata colpa fare aspettare  un tozzo di pane a chi aveva fame? Con questa considerazione e con il solito:  “Iddio provvederà”! acquietò la sorella che, sebbene di cuore largo anche lei,  avrebbe voluto lamentarsi (103). 

Don Costantini e il suo Cappellano erano due anime in un nocciolo — come  suole dirsi — pienamente d'accordo. Solo in un punto non andavano  d'accordo: sul modo di fare la carità. 
Il buon Parroco, di quando in quando, rimproverava dolcemente il suo Don  Bepi e gli raccomandava di pensare un po' più alla mamma. Ma egli nella sua  mirabile fede aveva sempre pronta questa invariabile risposta: “Questi  poveretti hanno più bisogno di lei. Il Signore penserà anche a lei, perché il  Signore non abbandona nessuno” (104). 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c. 

martedì 11 agosto 2020

L'ultimo Papa canonizzato



INIZIATIVE DI BENE 

Venuto su dal piccolo popolo che vive faticosamente la vita, nessuna  meraviglia che Don Sarto a Tombolo fosse popolarissimo. 
Tutto ardore per il bene delle anime, quanto accorto per indole e per  educazione, di quando in quando, si metteva in mezzo ai piccoli crocchi di  uomini già maturi e di giovanotti, conversando affabilmente con loro, e,  mentre si interessava dei loro ragionamenti ed ascoltava ora l'uno ed ora  l'altro, studiava le loro tendenze, notava le loro aspirazioni e veniva a  conoscere i loro bisogni. 
Una sera alcuni, discorrendo, si lamentavano di non sapere leggere, né  scrivere. 
— Mettiamo su una scuola serale! — propose Don Giuseppe, il quale andava  studiando come togliere il rivoltante vizio della bestemmia che a Tombolo  aveva assunto deplorevoli proporzioni. 
— Magari! — esclamarono tutti ad una voce. 
— Ma come fare se alcuni di noi sanno già qualche cosa ed altri non sanno  nulla? — obbiettò un giovanotto. 
— Niente paura! Quelli che sanno qualche cosa li affideremo al maestro  comunale e quelli che non sanno niente li prenderò io, perché l'alfabeto è più  duro e faticoso — rispose il Cappellano. 
— E che cosa le daremo in compenso? — domandò uno. 
— Niente danaro, ma una cosa più importante: che smettiate di profanare con  la bestemmia il nome santo di Dio! — conchiuse, con un accento di forza,  Don Sarto. 
Tutti promisero, suggellando il patto con una vigorosa stretta di mano. (90)  Ma quegli uomini e quei giovanotti avevano capito una cosa: avevano capito  che il loro Cappellano con quella scuola serale voleva che mutassero  linguaggio, che smettessero l'orrendo vizio della bestemmia. Già lo avevano  veduto più volte infiammarsi di santissimo sdegno contro i profanatori del  nome santo di Dio e qualcuno ricordava anche di avere esperimentato le  severe sanzioni delle sue mani che egli, senza mai cedere nel cuore al più  piccolo movimento di passione, sapeva qualche volta usare per correggere i  bestemmiatori: una misura punitiva allora normalmente ammessa e talora  commendata, perché quanto efficace altrettanto educativa (91). 
*** 
Don Sarto era proprio fatto per i Tombolani. Se essi erano gente sveglia ed accorta, non meno sveglio ed accorto era il loro Cappellano. 
A Tombolo vi era una riprovevole abitudine: la gente, appena data la  Benedizione Eucaristica, sfollava a precipizio dalla chiesa senza aspettare che  il sacerdote avesse riposto il SS.mo Sacramento nel Tabernacolo. 
Il Parroco non era mai riuscito a togliere questa irriverenza. Le sue  raccomandazioni, i suoi consigli ed anche i suoi rimproveri si perdevano  sempre come voci nel deserto. 
Un giorno, mentre si lamentava di questo abuso, Don Giuseppe lo  tranquillizzò, dicendogli: 
— Oh! niente, niente, Pievano! ... Lasci fare a me e vedrà che tutto sarà  messo a posto. 
Il nostro Beato, fino dai primi giorni del suo arrivo a Tombolo, aveva  osservato che il popolo aveva una grande devozione ad una statua della  Madonna che si venerava in chiesa: una devozione che confinava quasi con la  superstizione, perché non si poteva alzare il velo che la copriva se non si  fossero prima accese quattro candele, e, quando era scoperta, tutti stavano in  ginocchio. Nessuno si sarebbe azzardato di stare in piedi: sarebbe stata una  profanazione! 
* * * 
Una Domenica, Don Giuseppe fece accendere le candele dell'altare della  Madonna. 
Il Parroco aveva appena data la Benedizione con il SS.mo Sacramento e già  la gente, come il solito — per forza di abitudine — era già in piedi pronta per  uscire di chiesa. 
Ma ad un tratto Don Sarto tirò su il velo che copriva la Madonna. Tutti si  fermarono di botto, ritornarono a mettersi in ginocchio e non si mossero se  non quando Don Costantini ebbe riposto nel Tabernacolo il SS.mo  Sacramento. 
Ripetuta la cosa un'altra volta e spiegata ed avvalorata dalla calda parola di  Don Giuseppe, l'inveterato abuso tu tolto per sempre. (92) 

IL “CAPPELLANO DEI CAPPELLANI” 
I Cappellani delle Parrocchie vicine, conoscendo l'attività di Don Sarto che a  loro sembrava addirittura prodigiosa, lo chiamavano il “Cappellano dei  Cappellani”, divertendosi, di quando in quando, a ridere ed a scherzare sopra  questo nomignolo che gli avevano affibbiato (93). 
Anche Don Sarto, di carattere franco e gioviale, rideva e scherzava volentieri  con loro. 
Ma un giorno, in cui questi Cappellani si erano abbandonati più del solito allo  scherzo ed alla facezia, Don Sarto, mettendo il pugno della mano destra nel  cavo della sinistra, disse: 
— Cappellani, qui una volta o l'altra dovete venire! 
— Che superbia!... Ma noi diventeremo presto Pievani! — interruppe il  Cappellano di Galliera che era il più allegro di tutti. 
— Ma qui devono venire anche i Pievani! — riprese Don Giuseppe,  ripetendo il suo gesto. 
— Ma sì.... anche i Vescovi vedremo sotto di te! — soggiunsero in coro,  quasi canzonando, i Cappellani. 
— Anche i Vescovi sotto il “Cappellanus de Cappellanis!” — conchiuse  Don Sarto, tra il serio ed il faceto. 
E giù tutti a ridere ancor più giocondamente (94). 
Presagio? Vaticinio? ... 
Non lo sappiamo. Sappiamo solo che circa 40 anni dopo l'umile Cappellano  di Tombolo saliva la Cattedra di Pietro per reggere il primo scettro del  mondo! 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.

lunedì 8 giugno 2020

L'ultimo Papa canonizzato



SUA DELICATEZZA CON IL PARROCO AMMALATO 

Don Costantini era più che contento della instancabile attività del suo  Cappellano e gli voleva bene. Ma altrettanto bene gli voleva Don Sarto. 
Il povero Parroco, abitualmente malaticcio, doveva spesso rimanere a letto e  Don Giuseppe allora era tutto cuore nell'assisterlo. Ne sollevava con le sue  graziose lepidezze lo spirito, lo circondava delle più affettuose attenzioni, e,  quando qualche mattina poteva alzarsi, lo accompagnava in chiesa, gli  preparava l'occorrente per la Messa, lo serviva amorevolmente all'altare e lo  riaccompagnava in Canonica, non lasciandolo se non dopo averne ricevuti gli  ordini o presi i consigli sui diversi affari da trattare nel corso della giornata.  (84) 
La nipote di Don Costantini che noi già conosciamo raccontava: 
 “Alla mattina Don Giuseppe veniva per tempo in Canonica, e, con quel suo  fare gioviale, sempre allegro e sereno, chiedeva allo zio: 
 — “Oh! ancuò cossa gastu che ti dìol, Piovan? (85). 
E se lo zio rispondeva che non si sentiva bene, che non poteva alzarsi, allora  Don Giuseppe, pronto gli diceva: 
 — “Ben, ben: va là, va là. . . . sta quieto, no state tor pensieri: farò mi,  Piovan” (86). 
 — “Ma se ti ga za da far una predica? (87) — soggiungeva lo zio. 
 — “Eh!. . . ben, ben!. . . non badarghe ti, Piovan, ghe ne farò do” —  rispondeva Don Giuseppe (88). 
E ritornava, instancabile, al suo lavoro, con umiltà, senza ostentazione, in  silenzio, perché in primo piano spiccasse sempre la figura e l'autorità del  Parroco (89): arte squisita, ma difficile che solo i Santi conoscono. 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.

venerdì 22 maggio 2020

L'ultimo Papa canonizzato



IL PESO DELLA PARROCCHIA 

Ma la sacra predicazione non era la sola occupazione, a cui si applicasse il  nostro Don Giuseppe. Anche senza di questa le sue giornate erano piene ed  intense, le quali divennero ancora più intense di lavoro quando, circa il 1863,  Don Costantini, per una ostinata malattia di petto che lo tormentava da tempo  era costretto a rimanere inoperoso per una buona parte dell'anno. 
Allora il giovane Cappellano sentì gravare sopra le sue spalle tutto il peso  della Parrocchia. 
Amministrava con premura i Sacramenti. Nei giorni festivi e alla Domenica,  specialmente, confessava senza contare le ore, spiegava il Catechismo ai  fanciulli, la Dottrina Cristiana agli adulti. 
Ogni giorno attendeva a consolare miserie, a richiamare al dovere, a  comporre dissidi, ad alimentare la pace nelle famiglie, ad incitare tutti al  bene. E pensava anche alla scuola di canto sacro che egli aveva istituito per un maggiore decoro delle sacre funzioni, a dare lezioni di grammatica a quei  giovanotti che sentivano inclinazione allo stato sacerdotale (76) a farsi  sapientemente fanciullo con i fanciulli per tenerli lontani dal male, e, come se  non avesse altre occupazioni, non ricusava di sostituire perfino il maestro  della scuola elementare del villaggio (77). 
E poi venivano le giornate ardenti di sacrificio e di fede, nelle quali si  consumava nel preparare i fanciulli alla prima Comunione, nel promuovere la 
Comunione frequente, nell'eccitare il popolo ad una più intensa devozione  verso la SS.ma Eucaristia, di cui egli stesso dava continuo esempio non solo  per il modo, con il quale celebrava la Santa Messa, ma anche tutte le volte  che esponeva solennemente alla adorazione dei Parrocchiani il SS.mo  Sacramento. 
 “In quei momenti — testimoniava un vecchio del paese — assumeva un  espressione quasi sovrumana. Con le mani congiunte a preghiera, teneva gli  occhi sempre fissi nel SS.mo Sacramento, e, quando dava la Benedizione, da  tutta la sua persona spirava un sentimento di fede così viva che edificava e  stupiva. Vi era in lui qualche cosa di straordinario” (78). 

Vi erano ancora gli ammalati, gli infermi, i moribondi. 
Premuroso, perché questi non mancassero di nulla, specialmente se poveri, li  visitava anche più volte al giorno, e, chiamato di notte, accorreva al loro letto  come se avesse le ali ai piedi. Non badava a stenti, non curava strapazzi, non  guardava ad inclemenza di stagioni, a strade impervie, ne a distanze di luoghi  (79): si sacrificava sino all’esaurimento delle sue forze. I Tombolani  ricordano di averlo veduto qualche volta cadere in deliquio (80). 
— “Guarda qui — diceva un giorno ad una giovane popolana, indicando con  l'indice della mano le proprie scarpe — Ho le suole tutte consumate a forza  di andare a visitare il tuo vecchio nonno infermo” (81). 
E con quanta passione, con quanta commovente tenerezza assisteva e  confortava i moribondi! Li incoraggiava al passo estremo con parole che  avevano la dolcezza della rassegnazione cristiana, ne calmava le ansie, li  consolava con la visione delle speranze immortali e non si distaccava dal loro  fianco se non quando li avesse veduti morire sotto i propri occhi e non li  avesse accompagnati con la sua preghiera fino sulle soglie dell'eternità (82). 

Tutta la responsabilità della Parrocchia gravava sopra di lui, ma nessun'ombra di abbattimento o di tristezza sopra il suo volto. Nei suoi occhi  brillava sempre una vivida luce di gioia, di letizia e di felicità, perché sapeva  di lavorare non per una gloria terrena, ma per una gloria ben più alta: la  conquista delle anime (83). 
I Tombolani erano meravigliati della sorprendente attività del loro  Cappellano e si domandavano come potesse resistere sotto il peso di una  fatica così continua, così spossante e senza respiro. 
Non sapevano che il loro giovane Cappellano aveva nel cuore la potenza di  quelle divine energie che moltiplicano le forze per il lavoro. 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.

mercoledì 6 maggio 2020

L'ultimo Papa canonizzato



LE PRIME PREDICHE 

Don Sarto avrebbe potuto dire come il massimo Poeta:  
.... Io mi son un che, quando Amor mi spira, noto, ed a quel modo che detta  dentro, vo significando. (69) 
Aveva una eloquenza naturale che persuadeva, chiari e ordinati i pensieri,  espressivo il gesto, la voce calda e sonora. 
Predicava con un ardore che penetrava le anime, svegliava le coscienze,  commuoveva i cuori. 
I Parrocchiani lo ascoltavano con piacere, perché sentivano che il loro  Cappellano aveva l'abitudine di meditare e di vivere, giorno per giorno, sotto  lo sguardo di Dio, il Vangelo che predicava (70). 
Ma prima di salire il pulpito, diffidando di se stesso, leggeva i suoi discorsi e  le sue prediche a Don Costantini, il quale ascoltava attentamente e poi,  premendogli molto che il suo Cappellano riuscisse un predicatore a modo,  commentava: 
— “Varda, Don Bepi, che questo no me par ben. Mi farìa cussi. .... mi là  cambiarìa” (71). 
E Don Giuseppe, senza ribattere parola, con umile docilità cambiava,  toglieva od aggiungeva, secondo le osservazioni ed i suggerimenti del suo  Parroco, il quale di eloquenza sacra se ne intendeva. 
Una delle prime volte, Don Costantini gli osservò che quella non era una  predica, ma un pasticcio, e, con schietta franchezza, gli disse: 
— “Caro Bepi, de sti pastizzi non più”! (72). 
Don Sarto sorrise umilmente e continuò a studiare, a lavorare ed a predicare. 
Ma un giorno Don Costantini, dopo di avere udito una predica del suo  Cappellano, riconoscendosi superato, celiando graziosamente, gli disse: 
— “Ah, cussì, Don Bepi, te me piasi! Ma varda che no xe prudenza ch'el  Cappellan fazza megio del Piovan”! (73). 
Così, a poco a poco, con gli incoraggiamenti del suo Parroco, il Cappellano  di Tombolo incominciò a predicare anche nei dintorni ed in breve tempo  seppe acquistarsi una così bella fama di sacro predicatore che i Parroci della  Diocesi andavano a gara per averlo sul pulpito delle loro chiese, e, tanto più  se lo contendevano, perché sapevano che la sua predicazione aveva sempre il  suo ultimo epilogo nel confessionale, ai piedi del Ministro di Dio (74). 
*** 
Don Costantini andava così orgoglioso dei successi oratori del suo  Cappellano che un giorno, con intima compiacenza, così scriveva ad un suo  carissimo amico, Don Marcello Tositti, Parroco di Quinto: 
“Don Bepi terminò laudabiliter la sua Quaresima a Gòdego: fama volat!....  ed io ne godo più che di me stesso, perché posso compiacermene senza  peccare di superbia, pensando che i primi passi in questa via d'onore e di  benedizione, li faceva non già meis meritis, ma, me vidente e non di rado me  impellente et confortante. Caro il mio Don Bepi! Non vedo l'ora di dargli un  bacio e dirgli che se fosse possibile volergli ancor più bene, gliene vorrei  ancora più” (75). 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c. 

domenica 19 aprile 2020

L'ultimo Papa canonizzato



IL CAPPELLANO DI TOMBOLO (29 novembre 1858 - 13  luglio 1867) 


IL “MOTO PERPETUO” 

Mamma, sono stato destinato Cappellano a Tombolo. Il paese non mi piace,  perché un po' cattivo, nondimeno devo obbedire e vi andrò” (55b). 
Così una sera del tardo autunno del 1858 disse Don Giuseppe Sarto alla  buona Margherita Sanson appena seppe che il suo Vescovo lo aveva  destinato Cappellano a Tombolo: un paese prevalentemente di mercanti di  bestiame e di mediatori. Gente molto accorta ed attaccata al danaro, ruvida di  modi, abituata alle piazze, amica delle osterie, e — quello che è peggio —  pronta, per sistema, alla bestemmia, ma più per ignoranza che per cattivo  animo. 
Un campo da dissodare quale poteva desiderare un apostolo di Dio, votato  alla fatica, come il nostro giovane Cappellano, il quale sapeva che “la vita del  prete è vita di sacrificio” e che l'Ordinazione Sacerdotale non era stata per lui  che l'introduzione alla “via del Calvario” — come egli stesso ricorderà più  tardi, ad un novello sacerdote da lui molto amato (56). 
Fragrante del sacro crisma sacerdotale, Don Sarto entrava a Tombolo il 29  Novembre 1858 (57): vigilia della festa di S. Andrea Apostolo, Patrono del  paese. 
Quelli che lo videro arrivare ricordano la povertà della sua veste, le scarpe  con il fondo di legno ed un mantello così misero che faceva compassione al  solo vederlo (58). 
Era povero, ma aveva un programma netto e preciso: la salvezza delle anime  ad ogni costo. 
Il Parroco, Don Antonio Costantini — un sacerdote di non comune criterio e  molto pratico della vita di campagna (59) — lo accolse a braccia aperte,  perché sapeva che il nuovo Cappellano — un pretino dal volto asciutto e  dagli occhi vivi e profondi — veniva proprio dal popolo ed era già stato  informato che aveva un'anima temprata alla vita rude della povertà e del sacrificio. 
Passato qualche giorno, Cappellano e Parroco si intesero, si compresero e si  amarono con reciproco rispetto, con vicendevole stima e pari amore. 
Avevano i medesimi sentimenti, le medesime aspirazioni, le stesse vedute, i  medesimi propositi: un cuore solo ed un anima sola (60). 
*** 
Presi gli ordini e le opportune istruzioni, sereno e gioviale, Don Sarto si pose  immediatamente al lavoro senza domandare se fosse ingrato, faticoso o  difficile. 
La mattina si alzava prestissimo, e, molte volte, per non disturbare il  sacrestano, apriva egli stesso la Chiesa (61). 
Pregava, faceva la sua Meditazione, si portava all'altare, e, con un gaudio  sempre crescente, come chi ha dimenticato la terra, celebrava la Santa Messa  con un raccoglimento così profondo che un Tombolano nella sua semplice  fede diceva: “Mi pareva di vedere sull’altare Gesù Cristo stesso” (62). 
Poi, pronto ad ogni momento, correva, sollecito dove il dovere lo chiamava.  Non conosceva soste, non conosceva riposo.  
Non si rifiutava mai, anche quando avrebbe potuto con piena giustificazione  dire di no. 
Non perdeva un attimo di tempo: era sempre in moto, non era mai stanco  (63). 
— “El gera un secarello — affermava la nipote del Parroco — tanto magro e  fruà che no dìgo: ma el gera el moto perpetuo” (64). 
*** 
Lavoratore instancabile nel dominio dello spirito, nei momenti più tranquilli  del giorno, ma specialmente alla sera, i Tombolani lo vedevano in chiesa  raccolto in preghiera (65). 
Di notte studiava, scriveva prediche, preparava spiegazioni di Vangelo, di  Catechismo o di Dottrina Cristiana (66). 
 “Spesso d'inverno — raccontava la ricordata nipote del Parroco Don  Costantini — quando io mi alzavo alla mattina con un buio ancora fitto,  vedevo la finestra della sua stanzetta già illuminata. 
— “Stanotte ve sèu desmentegà de stuàr el lume — gli domandavo quando  veniva in Canonica a prendere il caffè. 
— “Oh! no, no — mi rispondeva — gavevo da studiar! 
— “Ma quando dormìo allora? 
-- “Oh! a mi me basta un soneto — diceva sorridendo” (67). 
*** 
Un giorno il Cappellano di Galliera, Don Carminati, suo intimo amico, gli  chiese: 
— Dimmi la verità: quante ore ti bastano di riposo, perché tu possa dire di  aver dormito abbastanza? 
— Quattro ore! — rispose. 
— Beato te! — replicò l'amico — che sai vivere quando noi siamo stanchi  morti (68). 
Il giovane Cappellano dormiva poco, perché lo urgeva il bene delle anime,  perché si sentiva operaio di Dio nel senso più esatto della parola. 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.

martedì 24 marzo 2020

L'ultimo Papa canonizzato



L'ORDINAZIONE SACERDOTALE 

Nel Novembre del 1856 il futuro Pio X aveva ricevuto a Treviso i due primi  Ordini Minori ed il 6 Giugno 1857 gli altri due (50). 
Già si avvicinavano i giorni delle sue ultime mistiche ascensioni.  Ricordiamo due date e due avvenimenti memorandi della sua vita: 
19 Settembre 1857: Suddiacono 
27 Febbraio 1858: Diacono (51). 
Prima tappa di un immenso cammino non rimaneva più che l'Ordinazione  Sacerdotale: il sogno della sua vita. E questa egli l'ebbe dal suo Vescovo  Mons. Antonio Farina nel Duomo di Castelfranco Veneto la mattina del 18  Settembre 1858 (52). 
Traboccante di mirabile fede e di vivissima gioia era presente la buona  Margherita Sanson con tutti i figlioli (53). 
Il giorno seguente nella Parrocchia di Riese, essa vedeva il suo Giuseppe  celebrare solennemente la Messa a quell'altare, a cui aveva tanto sperato e  sognato di vederlo salire un giorno. Quel giorno era arrivato .... ogni sogno  era realizzato ....ogni speranza raggiunta! Quanti motivi per intonare l'inno  del ringraziamento alla grande bontà del Signore! Ma che cosa avrebbe detto  ella mai, che cosa avrebbero detto quanti allora la circondavano — lieti della  sua letizia ed invidiosi anche della sua fortuna — e da quale stupore non  sarebbero stati presi, se, insieme con il canto degli Angeli tutelari del loro  paesello intorno al novello Levita: “Tu es sacerdos in aeternum” (54),  avessero potuto udire anche l'altro degli Angeli vigilanti sull'immoto  Sepolcro dell'Apostolo-Principe: “Tu es Petrum! (55): preannunzio della futura dignità non umana, ma divina, a cui quel figliolo del povero cursore  sarebbe stato elevato e per cui l'umile ed oscura Riese avrebbe avuto un nome  immortale nel mondo? 
In quel giorno indimenticabile Don Giuseppe Sarto incominciava una vita  nuova: la vita dell'uomo divino che si dona alle anime e si attacca alle cose di  Dio, come il pio colono si attacca alla gleba che gli dà il pane di ogni giorno.  Ma egli ignorava i suoi immensi destini.

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c. 

sabato 7 marzo 2020

L'ultimo Papa canonizzato



LO STUDENTE DI TEOLOGIA 

Nel Novembre del 1854 Giuseppe Sarto incominciava lo studio della  Teologia: lo studio classico sacerdotale, sogno e meta di ogni aspirante al  Santuario di Dio. 
Con quanta ansia aveva atteso questo giorno! 
Tutto il tempo dedito agli studi letterari e filosofici che cosa, era stato per lui  se non una preparazione a quella scienza divina che il sacerdote è chiamato a  spiegare e diffondere tra gli uomini? 
Tuttavia, assai più che per questo motivo, il quale avrebbe potuto forse dare  luogo a qualche piccolo sentimento di vanità, il chierico Sarto si diede con  tutta la passione della sua anima allo studio della Sacra Teologia per il  desiderio che lo bruciava di conoscere ed amare sempre più Iddio, di cui nel  profondo dell'anima pura ne sentiva le arcane voci che lo urgevano a  protendersi sempre più verso le cose che gli stavano davanti, alla palma della  sua vocazione in Cristo Gesù (47). 
Di qui in lui un fervore tutto nuovo nello studio e nella pietà notato dai  Superiori, i quali ne seguivano con viva compiacenza ogni passo ed in prova  della stima che gli portavano, come anche per assecondare il suo desiderio di  raccoglimento e di preghiera, sul principio del terzo corso teologico (18561857) gli assegnarono una cameretta a parte, permettendogli di uscire a  passeggio insieme con un compagno a lui carissimo: il chierico Pietro  Zamburlini, futuro Arcivescovo di Udine. 
Ecco come di questa bontà dei Superiori con espressioni di viva  riconoscenza, dava comunicazione al suo Don Pietro Jacuzzi:  
 “Qui in Seminario ho passati sei anni e sempre bene. Però questo spero di  passarlo meglio degli altri. I buoni Superiori, aderendo alle mie istanze, dopo  quattro anni che io facevo il Prefetto, mi hanno messo in quiete, ma pede  libero. Mi hanno assegnato una cameretta, dove non si sente che la campanella e l'orologio. Quid melius? Al passeggio non andrò più con quelle  lunghe file che fanno melanconia a chi le vede e più ancora a chi ne fa parte,  ma con un buon compagno di scuola, mio amico. Insomma non saprei che  desiderarmi di meglio. In tutta quiete attendo alle mie incombenze e così a  poco a poco comincio a prepararmi per quando sarò Cappellano.... Qui i  Superiori mi chiamano il giubilato ed hanno tutte le ragioni e se anche mi  daranno qualche piccola incombenza l'accetterò volentieri per corrispondere  a tanta bontà” (48). 
E la “piccola incombenza” non si fece attendere, perché i Superiori, ben  conoscendo la sua passione per la musica, nell'ultimo anno teologico gli  affidarono la direzione del canto sacro degli alunni del Seminario (49). 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.

sabato 22 febbraio 2020

L'ultimo Papa canonizzato



LE VACANZE DI GIUSEPPE SARTO 

E qui ci piace accennare al modo, con il quale Giuseppe Sarto era solito  passare le sue vacanze. 
Nei tre mesi estivi che gli alunni dei Seminari passavano allora in famiglia,  egli dava sempre a vedere quanto fosse compreso del suo nuovo stato di vita  e la grande stima che faceva della vocazione sacerdotale. 
I suoi giorni scorrevano limpidi e tranquilli tra la sua casetta, la Canonica e la  chiesa (38). 
Le sue occupazioni erano lo studio, la preghiera e la musica sacra, interrotte  da un po' di svago all'aria aperta tra la pace serena dei campi. 
Qualche sera la passava in casa della sorella Teresa e del cognato Giovanni  Battista Parolin che teneva la piccola osteria delle “Due Spade”, e, qualche  rara volta, insieme al Parroco ed al Cappellano, si recava alla villa della Contessa Marina Loredan-Gradenigo: una vecchietta di spirito che era stata  dama di corte di Napoleone I. (39). 
Ma poi veniva la stretta al cuore. Quando le vacanze volgevano al termine,  un pensiero lo tormentava: la sua povertà. 
Don Jacuzzi — è vero — di quando in quando gli mandava qualche “fiorino”  per i suoi minuti bisogni (40). 
Ma questo non bastava. E allora, prima di rientrare in Seminario, non senza  un sentimento di confusione e di rossore, si presentava umilmente alla porta  della buona gente di Riese per domandare quel poco di denaro che gli doveva  servire per le sue piccole spese, le quali si riducevano ai libri che gli  occorrevano per continuare gli studi (41). 
I buoni Riesini erano con lui generosi, ma più ancora perché sapevano che  egli sentiva profondamente la santità della propria vocazione ed aveva  nell'anima il fascino di quella bella virtù che il Maestro Divino nel Sermone  della Montagna elevò al senso divino di una Beatitudine: “Beati i mondi di  cuore” (42). 
Su questo punto, nessun dubbio. Non si ricorda, forse, a sua lode, che mai dal  suo labbro uscì parola meno che misurata, meno che pura, meno che santa e  che, non solamente con gli estranei, ma con gli stessi parenti più stretti  conservò sempre la più scrupolosa riserbatezza? (43). 
Alla fine dell'anno scolastico 1856-1857, mentre Giuseppe Sarto si preparava  di ritornare in famiglia per le solite vacanze autunnali, la buona Margherita  Sanson pregò il genero Giovanni Battista Parolin di andare a rilevarlo a  Padova con la sua “timonella” (44). 
Andò il buon uomo, conducendosi dietro anche la giovane sposa Teresa. Ma  la cosa non piacque al Seminarista, che, preso pretesto di dare una occhiata  alle diverse contrade della città, si incamminò a piedi, obbligando il cognato  a seguirlo a distanza. Solamente quando si trovò fuori di città accondiscese a  salire sulla “timonella”, discendendone, però, all'ingresso dei diversi paesi  scaglionati lungo la non breve strada da Padova a Riese, con quanto disagio  suo, del cognato e della sorella è facile immaginarlo (45). 
Arrivato a casa, raccontò alla mamma come aveva fatto il viaggio, ma la  pregò che se un'altra volta avesse mandato a prenderlo in Seminario, badasse  che non ci fossero donne. 
— Ma Teresa non è forse tua sorella? — osservò la madre. 
— Sì, è mia sorella, ma questo lo sappiamo noi, lo sanno i parenti, non lo  sanno gli altri! (46) 
Una risposta degna di un candidato al sacerdozio! 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.

venerdì 31 gennaio 2020

L'ultimo Papa canonizzato



NEL SEMINARIO DI PADOVA 

In una brumosa mattina del Novembre 1850 il futuro Pio X entrava nel  grande Seminario di Padova: quieto asilo di studi severi e gloria del B.  Gregorio Barbarigo (26). 
Il vigore della sua intelligenza e la sua straordinaria applicazione allo studio,  congiunta ad una schietta e soda bontà, gli acquistarono presto la stima dei  Superiori e l'affetto dei Professori, mentre compagni e condiscepoli, come  presi dalla serena giovialità del suo carattere, non tardarono ad amarlo, non  senza un sentimento di legittima invidia e di ammirazione. (27) 
“Mi trovo bene con tutti e compagni e Superiori” — scriveva un mese dopo il  novello Seminarista al Cappellano di Riese, Don Pietro Jacuzzi succeduto da  poco a Don Luigi Orazio (28). 
Si trovava bene, perché la sua vocazione sacerdotale aveva trovato il suo  clima e poteva oramai svolgersi in tutto il suo rigoglio. 
Prova non dubbia lo splendido risultato dei suoi studi nel chiudersi del suo  primo anno scolastico (1850-1851) con questo invidiabile attestato: 
“Disciplinae nemini secundus — Ingenti maximi — Memoriae summae —  Spei maximae” (29). 
Attestato magnifico che si sarebbe ripetuto di anno in anno fino al giorno, in  cui il figliolo del povero cursore di Riese avrebbe rivarcato la soglia del  grande Seminario, non più come semplice Seminarista, ma come sacerdote di  Cristo. 
Il 20 Settembre 1851 dal suo Vescovo nella vetusta cattedrale di Asolo  riceveva la Tonsura (30). 

UN GRAVE LUTTO 

Ma il secondo anno di Seminario, incominciato e continuato sotto i più lieti  auspici, doveva essere offuscato da una sventura al sommo dolorosa per il  giovane chierico: la morte del padre. 
Il cursore di Riese sulla fine dell'Aprile 1852, avendo preso freddo, si era  dovuto mettere a letto, e, dopo qualche giorno, moriva. 
Sembra che il nostro Seminarista ne avesse avuto il presentimento. 
In uno di quei giorni si presentò, tutto in lagrime, al Rettore del Seminario,  chiedendogli il permesso di andare a casa. 
— Perché? 
— Perché mio padre è gravemente ammalato. 
Era vero e nulla lo aveva fatto prevedere! (31) 
La morte di Giovanni Battista Sarto gettava nel lutto la povera Margherita  con otto teneri figlioletti. Ma, donna di mirabile fede, seppe sopportare la  durissima prova con coraggio e rassegnazione cristiana. 
Anche per il nostro Giuseppe quella morte fu uno schianto, perché al  pensiero degli studi vedeva ora aggiungersi la grave preoccupazione per la  mamma rimasta sola, priva di ogni risorsa, con un avvenire di sofferenze, di  angustie e di stenti. 
Ma non si smarrì. Accettò dalle mani di Dio l'amara sciagura e ad uno zio  paterno che gli domandava se, come il maggiore della famiglia, volesse  succedere al padre nel modesto impiego di cursore comunale per aiutare la mamma, rispose risoluto: 
— No: vado prete! (32) 
E continuò a studiare, santificando lo studio con l'esercizio delle più belle  virtù e chiudendo l'anno scolastico con la solita nota “eminentemente  distinto” (33). 
Ma i brillanti successi nei suoi studi non lo inorgoglivano. 
Lo lasciavano sempre umile e modesto, docile alla disciplina, pronto ad ogni  cenno dei Superiori, tenace assertore tra i suoi compagni del loro prestigio e  della loro autorità (34). Era specchio e modello a tutti i Seminaristi (35). 

VACANZE TRISTI 

Terminato il secondo corso di Filosofia, in cui tra i 39 alunni era riuscito il  primo, egli doveva lamentare la perdita del conforto che gli veniva da due  integerrimi sacerdoti al suo cuore carissimi: Don Tito Fusarini e Don Pietro  Jacuzzi. 
Don Fusarini — il suo secondo padre — per la sua malferma salute aveva  dovuto rinunziare alla Parrocchia di Riese e ritirarsi a Venezia: Don Jacuzzi  — il sostegno della sua povertà — con grande dispiacere della popolazione,  era stato trasferito come Vicario Parrocchiale a Vascon: una piccola borgata  nelle vicinanze di Treviso. 
Quando Giuseppe Sarto ritornò a casa per le vacanze autunnali, sentì ancora  più la perdita che lo aveva colpito. Riese, senza Don Tito e Don Pietro, non  era più Riese. Il nuovo Parroco, per il suo carattere scontroso e per i suoi sistemi alquanto strani, non era gradito alla gente del villaggio. 
Quanto il nostro Seminarista soffrisse per questo stato di cose, ce lo dice egli  stesso in una lettera del 9 Settembre 1854 indirizzata a Don Jacuzzi. 
“E' cosa amara il ricordarsi del tempo felice nella miseria — così scriveva —  eppure, leggendo l'altro giorno la gentile e sempre grata sua lettera, provai  meco stesso un non so che di compiacenza il ricordarmi i bei giorni che in  sua compagnia ho passati. 
“Adesso tutto è svanito. La Canonica è luogo di solitudine e quelli che  l'abitano, anziché conservare qualche ora all'amicizia, godono piuttosto di  fare ogni giorno le loro gitarelle e quindi, quasi sempre vivo in casa da tutti segregato, desiderando il momento di ritornare in Seminario per passare  giorni più di questi tranquilli” (36). 
Ma prima di rientrare in Seminario, volle accondiscendere alla richiesta del  nuovo Parroco, inaugurando la sua carriera oratoria con la predica dei Morti,  la quale lasciò nell'animo dei suoi conterranei una profonda impressione (37). 

Il Beato Pio X, del Padre Girolamo DAL GAL Ofm c.