mercoledì 3 giugno 2020

Lettere di Sant'Agostino



LETTERA 3 

Scritta all'inizio del 387. 

A. risponde a Nebridio che, ignorando molte cose, non può essere  chiamato felice (n. 1). La vera felicità (n. 2); più che il corpo si  deve amare l'anima (n. 3-4). Una questioncella grammaticale (n.  5).


AGOSTINO A NEBRIDIO 


La felicità esclude l'ignoranza. 

1. Resto incerto se io debba considerarlo effetto di non so quale tuo  "blandiloquio", per così dire, oppure se la cosa stia veramente in  questo modo: è infatti accaduto all'improvviso e non ho ancora  chiarito abbastanza fino a che punto vi si debba credere. Tu attendi  di sapere di che si tratti. Che cosa pensi? Tu mi hai quasi convinto,  non che io sia beato (giacché un tale bene è possesso esclusivo del  sapiente), ma certo quasi beato: come diciamo di uno che è "quasi  uomo", paragonandolo alla immagine perfetta dell'uomo quale lo  concepiva Platone, o diciamo "quasi rotonde" o "quasi quadrate" le  cose che vediamo, sebbene siano molto lontane dal somigliare alle  figure che pochi competenti vedono con gli occhi della mente. In  verità ho letto la tua lettera al lume della lucerna, quando avevo già  cenato; era vicino il momento di andarmi a riposare, ma non a  dormire: e infatti, disteso nel letto, ho riflettuto a lungo tra me e  me ed ho fatto, io Agostino, questi discorsi con Agostino: È dunque  vero quello che pensa Nebridio, cioè che io sono felice? No di certo: giacché neppure lui osa negare che io sia ancora stolto. E se anche  agli stolti potesse toccare una vita beata? È difficile: quasi che la  stoltezza fosse una piccola miseria o vi potesse essere qualche altra  miseria oltre ad essa. Perché dunque a lui è parso così? Forse che,  dopo aver letto quei miei scritti, ha osato credermi anche sapiente?  Non è così temeraria l'allegria, per quanto sia sfrenata, soprattutto  in una persona che ben sappiamo con quanta ponderatezza proceda  nelle sue considerazioni. È così, dunque: ha scritto quello che  pensava mi avrebbe fatto molto piacere, poiché anche a lui ha fatto  molto piacere tutto ciò che io ho messo in quello scritto; ed ha  scritto in preda alla gioia, senza preoccuparsi di quello che  conveniva affidare ad una penna trasportata dall'allegria. Che cosa  sarebbe capitato, se avesse letto i Soliloqui ? La sua gioia sarebbe  molto più grande e tuttavia non troverebbe un appellativo più  elevato da darmi di quello di beato. Ha dunque avuto troppa fretta  di spendere per me il nome più alto, e non si è riservato nulla da  attribuirmi quando fosse più allegro. Vedi gli effetti dell'allegria! 

In che consiste la felicità. 

2. Ma dov'è questa vita beata dove, dove mai? Oh, se consistesse  nel rigettare la dottrina di Epicuro sugli atomi! Oh, se consistesse  nel sapere che in basso non vi è nulla ad eccezione del mondo! Oh,  se consistesse nel sapere che i punti all'esterno di una sfera  nuotano più lentamente del suo centro ed altre cose di questo  genere che noi parimenti conosciamo! Ora invece, come ed in che  grado posso essere beato io che non so perché il mondo sia grande  così, mentre l'essenza delle figure che lo compongono non  impedirebbe affatto che fosse più grande quanto si vuole? Oppure  come non mi si obietterebbe, anzi non saremmo costretti ad  ammettere che i corpi sono divisibili all'infinito, così da potersi  ricavare come da una data base un numero determinato di  corpuscoli in una determinata quantità? Perciò, mentre non si  ammette che esista un corpo che sia il più piccolo possibile, come  possiamo ammettere che ne esista uno grandissimo, tanto che non  ve ne possa essere uno più grande? A meno che non abbia un  grande valore quello che dissi una volta in gran segreto ad Alipio:  poiché il numero intelligibile cresce all'infinito, ma non decresce  all'infinito (infatti non è possibile scomporlo oltre la monade), al  contrario il numero sensibile (che altro è infatti il numero sensibile  se non qualcosa di materiale, vale a dire la quantità dei corpi?) può  diminuire all'infinito ma non può crescere all'infinito. E per questo forse a ragione i filosofi pongono la ricchezza nelle cose intelligibili,  la povertà in quelle sensibili. Che cosa v'è infatti di più miserabile  che poter diminuire all'infinito? E quale ricchezza più grande che  crescere quanto vuoi, andare dove vuoi, tornare indietro quando  vuoi e fin dove vuoi ed amare grandemente ciò che non può  diminuire? Infatti chi comprende tali numeri, ama nulla tanto  quanto la monade. E non è strano, dato che è grazie ad essa che si  arriva ad amare tutti gli altri. Ma ciononostante perché mai il  mondo è grande così? Avrebbe infatti potuto essere o più grande o  più piccolo. Non lo so: in realtà è così. E perché è qui piuttosto che  là? Neppure di ciò si deve far questione, altrimenti si dovrebbe fare  sulla posizione di qualsiasi cosa. Soltanto questo mi turbava molto,  cioè che i corpi fossero divisibili all'infinito. Al che si è forse dato  una risposta con la teoria della proprietà contraria del numero  intelligibile. 

Il mondo e le immagini fisiche. 

3. Ma aspetta un istante; vediamo che cos'è questo non so che, che  mi viene in mente: certamente si dice che il mondo sensibile è  immagine di non so quale mondo intelligibile. Ora è singolare quello  che vediamo nelle immagini riflesse dagli specchi. Infatti per quanto  grandi siano gli specchi, non rendono le immagini più grandi di  quello che sono i corpi, per quanto piccolissimi, messi loro davanti.  Negli specchi piccoli invece, come nelle pupille degli occhi, anche se  si mette davanti ad essi un gran volto, si forma un'immagine  piccolissima, proporzionata alla misura dello specchio. Dunque è  possibile diminuire anche le immagini dei corpi, usando specchi più  piccoli, ma non si può aumentarle usando specchi più grandi. Qui  senza dubbio c'è sotto qualcosa, ma adesso bisogna dormire. E  infatti non è cercando che appaio beato a Nebridio, ma forse  scoprendo qualcosa. E che cos'è questo qualcosa? È forse quel  ragionamento che son solito accarezzare come mio particolare e di  cui son solito rallegrarmi molto? 

Si deve amare più l'anima che il corpo. 

4. Di che cosa siamo composti? D'anima e di corpo. E di queste due  parti qual è la migliore? L'anima, evidentemente. Che cosa si loda  nel corpo? Nient'altro, vedo, che la bellezza. Che cos'è la bellezza  fisica? La giusta proporzione delle parti, accompagnata da una certa  vaghezza di colorito. Questa forma leggiadra è migliore dove è vera o dove è falsa? Chi oserebbe porre in dubbio che sia migliore dove  è vera? Orbene, dove è vera? Nell'anima, naturalmente. Quindi  l'anima si deve amare più del corpo. Ma in quale parte dell'anima si  trova questa verità? Nella mente e nell'intelligenza. Che cosa  offusca l'intelligenza? I sensi. Bisogna dunque resistere ai sensi con  tutte le forze dell'anima? È evidente. E se le cose sensibili ci  dilettano troppo? Si faccia in modo che non ci dilettino. Come si fa?  Abituandoci a farne a meno e a desiderare cose migliori. E se  l'anima muore? Allora anche la verità muore, o l'intelligenza e la  verità non s'identificano, oppure l'intelligenza non ha sede  nell'anima, oppure può morire una cosa in cui ha la sua sede  alcunché d'immortale: ma che nessuna di queste eventualità possa  verificarsi già è detto nei miei Soliloqui ed è sufficientemente  dimostrato; ma per non so quale abitudine ai mali siamo atterriti e  titubanti. Infine, anche se l'anima è soggetta alla morte, il che vedo  assolutamente impossibile, tuttavia in questo periodo di riposo ho  sufficientemente accertato che la vita beata non consiste nel  godimento delle cose sensibili. Forse per queste e simili ragioni  appaio al mio Nebridio, se non beato, almeno quasi beato. Potrei  sembrarlo anche a me: che cosa ci perdo o perché dovrei rifiutare  la buona stima? Questo mi dissi; poi, come al solito, mi misi a  pregare e m'addormentai. 

Una questioncella di prosodia. 

5. Ecco quanto mi è piaciuto di scriverti. In verità mi allieta il fatto  che tu mi ringrazi se non ti nascondo nulla di ciò che mi viene in  bocca e sono contento di piacerti così. Con chi dunque dovrei  scherzare più volentieri che con colui al quale non posso dispiacere?  E se poi è in potere della fortuna che un uomo ami un altro uomo,  vedi quanto sia fortunato io che godo tanto dei favori della fortuna  e, lo confesso, desidero che tali beni mi crescano copiosamente. Ma  i sapienti più autentici, che soli è lecito chiamare beati, non hanno  voluto né che si temessero i beni della fortuna né che si  desiderassero (cupi o cupiri? veditela tu). E questo è venuto a  proposito. Desidero infatti che tu mi dia chiarimenti su tale  coniugazione; giacché, quando coniugo verbi di questo tipo, sono  molto incerto. Cupio, infatti, come fugio, sapio, iacio, capio, sono  verbi affini; ma non so se l'infinito sia fugiri o fugi, sapiri o sapi. 
Potrei propendere per iaci e capi, se non temessi che mi prendesse e mi gettasse a suo capriccio, dove gli aggradi, chi riuscisse a  convincermi che una cosa è iactum e captum, un'altra fugitum, cupitum, sapitum. Così pure ignoro parimenti se queste ultime tre  forme si debbano pronunciare con la penultima lunga ed accentata oppure non accentata e breve. Vorrei indurti a scrivere una lettera  più estesa; mi auguro di poterti leggere un po' più a lungo. Giacché  non sono in grado di dire appieno quanto mi faccia piacere leggerti. 

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