Ma poiché non è identico il modo di manifestare ogni tipo di verità, ché secondo l'ottima osservazione di Aristotele riferita da Boezio, «è proprio dell'uomo saggio contentarsi in ciascuna cosa di capire quanto la natura di essa comporta» (Ethic., I, c. 2; cfr. De Trinit., c. 2), prima di tutto è necessario vedere quale sia il modo possibile di manifestare la verità proposta.
Ora, tra le cose che affermiamo di Dio ci sono due tipi di verità. Ce ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana: come, p. es., l'unità e trinità di Dio. Altre invece possono essere raggiunte dalla ragione naturale: che Dio esiste, p. es., che è uno, ed altre cose consimili. E queste furono dimostrate anche dai filosofi, guidati dalla luce della ragione naturale.
Che tra le nozioni riguardanti Dio ce ne siano di quelle le quali superano del tutto l'ingegno dell'uomo è evidentissimo. Principio infatti di qualsiasi conoscenza di ordine razionale è l'intellezione della natura di una cosa; poiché, come Aristotele spiega, principio della dimostrazione è la quiddità. Cosicché le proprietà che noi conosciamo di una cosa dipendono dal modo di comprenderne la natura. Se quindi l'intelletto umano comprende la natura di determinate cose, p. es., della pietra o del triangolo, nessuna nozione relativa ad esse supera la capacità della ragione umana.
Ma questo non avviene nella nostra conoscenza di Dio. Poiché l'intelletto umano non può arrivare a conoscerne l'essenza mediante le sue capacità naturali, essendo costretto nella vita presente a iniziare la conoscenza dai sensi; e quindi le cose che non cadono sotto il dominio dei sensi non possono essere capite dall'intelletto umano, se non in quanto la loro conoscenza deriva dalle cose sensibili. Ora, le cose sensibili non possono condurre il nostro intelletto a scorgere in esse la quiddità della natura divina: poiché si tratta di effetti che non adeguano la virtù della causa. Tuttavia dalle cose sensibili il nostro intelletto viene condotto a conoscere di Dio che esiste, ed altre perfezioni che si devono attribuire al primo principio. Ci sono quindi delle cose divine che la ragione umana può raggiungere, e altre che ne trascendono del tutto la capacità.
La stessa conclusione si può facilmente dedurre, considerando i vari gradi dell'intelligenza. Confrontando infatti due individui, uno dei quali percepisce intellettualmente una cosa con più acutezza dell'altro, vediamo che colui il quale possiede l'intelletto più elevato conosce molte cose che l'altro è affatto incapace di capire. Ciò è evidente nel caso dell'uomo dei campi del tutto impreparato alle sottili considerazioni della filosofia. Ora, l'intelletto di un angelo supera l'intelletto umano più di quanto l'intelletto del migliore filosofo. non superi l'intelletto del più rozzo ignorante: poiché quest'ultima distanza rientra nei limiti della specie umana, mentre questi sono trascesi dall'intelletto angelico. Un angelo infatti conosce Dio da effetti tanto più nobili quanto la natura angelica, che serve all'angelo per conoscere Dio, è superiore alle cose sensibili e all'anima stessa, con la quale l'intelletto umano sale alla conoscenza di Dio. L'intelletto divino poi supera quello angelico, più di quanto quello angelico non superi l'intelletto umano. Infatti l'intelletto divino adegua con la sua capacità la propria sostanza, e quindi ne conosce perfettamente l'essenza e quanto c'è in lui d'intelligibile: invece l'angelo con la propria conoscenza naturale non può conoscere l'essenza di Dio; perché la sostanza stessa dell'angelo, di cui questi si serve per arrivare a conoscere Dio, è un effetto che non adegua la virtù della causa. Perciò l'angelo con la sua conoscenza naturale non può comprendere tutto ciò che Dio conosce in se stesso: né, d'altra parte, la ragione naturale è sufficiente per capire tutto ciò che l'angelo conosce con la sua capacità naturale. Perciò come sarebbe sommamente pazzo l'ignorante il quale affermasse che son false le asserzioni dei filosofi, perché egli non è in grado di capirle, così e più ancora sarebbe sommamente stolto l'uomo, se ritenesse false le rivelazioni delle cose divine trasmesse per il ministero degli angeli, per il fatto che non è possibile investigarle con la ragione.
La cosa appare anche più evidente dalle deficienze che riscontriamo ogni giorno nella nostra conoscenza. Ignoriamo infatti molte proprietà delle cose sensibili, e anche in quelle apprese dai sensi non siamo in grado di scoprire perfettamente il perché di molteplici aspetti. Perciò la ragione umana a molto maggior ragione deve ritenersi incapace con i propri concetti d'investigare quanto riguarda l'essere più sublime.
Si accorda con questo l'asserzione di Aristotele, il quale dice nel secondo libro della Metaph. [1a, c. 1, n. 2], che «il nostro intelletto rispetto ai primi enti, i quali, in natura sono evidentissimi, si comporta come l'occhio del pipistrello rispetto al sole».
Anche la Scrittura rende testimonianza a codesta verità; poiché in Giobbe (11, 7) si legge: «Puoi tu scrutare le vestigia di Dio, e giungere alla perfezione dell'Onnipotente?». E ancora [36, 26]: «Ecco, Dio è così grande da vincere la nostra scienza». E S. Paolo afferma (1Cor., 13, 9): «Parziale è la nostra conoscenza».
Perciò quanto si dice di Dio, anche se non è possibile investigarlo con la ragione, non si deve subito respingere come falso, alla maniera dei Manichei, e di molti altri increduli.
SAN TOMMASO D’AQUINO
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