Il miserando oblio dell'eternità che hanno gli uomini in questa vita.
La dimenticanza della eternità .
Prima di spiegare le condizioni dell'eternità, cosa tanto necessaria per vivere santamente e virtuosamente, poniamo dinanzi agli ocelli l'oblio e l'inganno miserando in cui i figli di Adamo tengono una cosa tanto importante. Vivono essi infatti del tutto dimentichi dell'eternità, la quale ad ogni momento li minaccia e da cui non distano che due dita, come disse un filosofo.
Che cosa vi ha tra i naviganti e la morte, se non lo spessore di una tavola? Che cosa vi ha tra il collerico e l'eternità, se non il filo di una spada; tra il soldato e la sua fine, se non essere colpito da una palla; tra un ladro e la forca, se non la distanza tra essa e il carcere? Finalmente che distanza v'è tra l'uomo più sano e robusto e l'eternità, se non quella che esiste tra la vita e la morte? Questa è una distanza immediata, e perciò si deve aspettarla da un momento all'altro. La vita dell'uomo non è che un cammino pericoloso che conduce alla sponda dell'eternità, con la certezza di cadervi dentro. Come possiamo vivere trascurati? Come terrebbe aperti gli occhi e con quale precauzione porrebbe i suoi piedi chi camminasse sull'orlo di un grande precipizio non più largo del piede stesso ed anche quello pieno d'inciampi? E allora, come mai coloro che vanno lungo il precipizio dell'eternità, non attendono al loro pericolo?
San Giovanni Damasceno spiegò molto bene questo rischio ed inganno degli uomini con una ingegnosa parabola, nella quale ci propone al vivo lo stato di questa vita. Dice che un uomo andava fuggendo da un furioso unicorno, che col solo suo bramito faceva tremare i monti e risonare le valli; e fuggendo in tal guisa, senza badare dove andasse, cadde in una fossa profonda; cadendo però distese le mani per attaccarsi dove meglio poteva; e trovò dei rami di un albero e s'attaccò ad essi fortissimamente, ben contento di poter ivi fermarsi pensando di aver con questo scampato il suo pericolo. Mirando però alla radice dell'albero, vide due grandi sorci, uno nero e l'altro bianco, che continuamente e con molta fretta l'andavano rodendo, sicché già stava per cadere. Guardando poi al fondo dell'abisso, vi scorse un dragone deforme, dai cui occhi si sprigionava fuoco e lo stava fissando con aspetto terribile e con la bocca spalancata, aspettando che cadesse per inghiottirlo. Guardando poi alla parete dell'abisso dal lato dell'albero, vide che quattro velenosi serpenti sporgevano la loro testa per morderlo mortalmente. Osservando però anche le foglie dell'albero, avvertì che alcune di esse stillavano alcune gocce di miele. Per questo, egli, molto contento, dimentico degli altri pericoli che da tante parti lo minacciavano, si divertiva a cogliere goccia per goccia il miele, senza più badare, né far caso della furiosa voracità dell'unicorno che stava in alto, né al dragone terribile che stava di sotto, né ai serpenti velenosi che gli stavano al lato, né alla fragilità dell'albero che stava per cadere, né al pericolo di perdere il sostegno dei piedi e di precipitare, perché una goccia di miele, alla cui raccolta era tutto intento, gli faceva dimenticare tutto questo.
P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J.
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