domenica 7 giugno 2020

FUGGITA DA SATANA



MICHELA


La mia lotta per scappare dall'Inferno


Quelle lettere senza risposte

Per alcuni mesi mi trasferii in Emilia, in un istituto di suore dove continuai a studiare per prendere la licenza magistrale. Intanto i miei genitori erano venuti a conoscenza della mia uscita dalla congregazione e avevano cercato di riannodare i contatti. Ci vedemmo e venni a sapere che ormai da un mese mio nonno era ricoverato in ospedale. Lui era stato l'unico parente acquisito con il quale ero riuscita a instaurare un bellissimo rapporto. Somigliava tanto al nonno del cartone animato di Heidi: in apparenza sembrava burbero, ma aveva un cuore grande. Lo chiamavano «l'uomo dagli occhi di ghiaccio», perché aveva l'azzurro talmente limpido da fare impressione.
Si professava ateo, ma i valori che ho imparato da lui non me li aveva mai insegnati nessuno. Un giorno andammo a fare una passeggiata e giungemmo a una piccola sorgente che si allargava a formare un laghetto. Mio nonno prese una manciata di terra e la buttò nell'acqua, che ovviamente divenne torbida. Io, che all'epoca avevo una dozzina d'anni, gli chiesi perché facesse così. Mi rispose:
«Vedi, la tua anima è così. C'è una sorgente dove è sempre pulito, però può arrivare qualcosa dall'esterno che la sporca. Tu dovrai sempre preservare intatta quella sorgente, in modo che l'acqua sia perennemente pulita».
Quando seppi del suo ricovero era fine ottobre. Corsi da lui in ospedale e mio nonno disse a tutti i presenti di uscire dalla stanza. Credo che fosse consapevole che la sua vita stava ormai giungendo al termine. Mi fece sedere sul bordo del letto, mi prese le mani e mi sussurrò alcune frasi essenziali, ma dette col cuore:
«So tutto ciò che è successo. Tu non girarti mai indietro. Qualsiasi decisione prenderai, avrai la mia benedizione. Va' fino in fondo alle tue scelte, come ho fatto io. Non ti aspettare mai l'approvazione degli altri». Le sue parole mi diedero un'estrema sicurezza. In tante circostanze drammatiche le ho risentite nelle orecchie e ne ho ricavato la forza per andare avanti, come se lo sentissi realmente al mio fianco.
Andando via dall'ospedale, chiesi ai miei di avvisarmi nel caso fosse morto. Il 27 novembre mia madre e mio padre vennero a trovarmi e io subito chiesi come stesse il nonno. La loro risposta mi ghiacciò: «È morto il 7 novembre». Si sono presi per l'ennesima volta un «vaffanculo». Poi, l'8 dicembre, sono rientrata in famiglia e in quel medesimo giorno ho trascorso diverse ore davanti alla tomba di mio nonno. ho avuto la certezza che lui sarebbe stato sempre presente nella mia vita. Ancora oggi, quando sento di essere in crisi, mi metto a guardare il cielo stellato e mi dico che mio nonno si trova sulla stella più luminosa.
In comunità avevo lavorato anche in cucina e mi ero resa conto che avevo una certa abilità a cucinare, anche se ovviamente ero soltanto una dilettante. Tornata in famiglia, venni a sapere che il titolare di una delle più rinomate osterie della zona stava cercando un aiuto. Mi accolse a braccia aperte e cominciò a insegnarmi i fondamenti della professione di chef. All'inizio facevo la banconiera, cioè preparavo nei piatti gli antipasti e i dolci. Ma intanto lo osservavo cucinare i primi e i secondi. Lui riconobbe il mio talento per la cucina e mi disse che avrei fatto carriera.
Intanto a casa continuavano i soliti problemi con i miei genitori adottivi che mi avevano imposto di andare da uno psichiatra, il quale aveva già cominciato a prescrivermi alcuni psicofarmaci. Dopo un paio di sedute, al terzo incontro appoggiò sulla scrivania una pila di lettere e mi disse: «Tua madre me le ha consegnate affinchè io potessi comprendere meglio la tua personalità. Ora vorrei parlarne con te».
Guardai meglio il pacco e mi resi conto che si trattava di decine di lettere che avevo scritto ad amiche e amici negli anni della mia adolescenza. In effetti, uno degli interrogativi che mi ero sempre posta era come mai io scrivevo a ragazzi che avevo conosciuto per esempio al mare e non mi arrivava mai una risposta. D'improvviso avevo davanti a me la spiegazione dell'enigma: io consegnavo le buste a mia madre affinchè ci mettesse il francobollo e le spedisse, mentre lei le leggeva e se le conservava! Sotto a quelle lettere spuntava poi il mio diario personale che, dopo il rientro dalla comunità religiosa, non ero più riuscita a trovare.
Per me si trattò di una violenza terribile, il mio mondo era stato invaso senza che io ne sapessi niente. Mi sono alzata come una furia e gli ho distrutto tutto lo studio. Quando sono andata via, ho sbattuto la porta e gli ho detto: «Vediamo se hai il coraggio di denunciarmi, perché non credo proprio che questo sia lecito per la tua etica professionale». Sono tornata a casa e anche ho preso una sedia ho sfasciato tutte le piante e le suppellettili che mia madre collezionava. Poi sono andata al lavoro e ho raccontato tutto al principale.
A tarda sera, rientrando a casa, ho trovato i miei genitori in compagnia di un medico che voleva convincermi a ricoverarmi nell'ospedale psichiatrico. In caso contrario minacciava che avrebbe provveduto al ricovero coatto. Io ovviamente mi opposi e lui chiamò i carabinieri. Il caso volle che la pattuglia che arrivò fosse composta da due carabinieri che un paio d'ore prima avevano mangiato nell'osteria e con i quali avevo scambiato un saluto. Il maresciallo fu come un padre: ascoltò il medico, gli disse che a me ci avrebbero pensato loro, mi suggerì di prendere qualche abito e poi mi accompagnò in un albergo nelle vicinanze.
In macchina, mi consigliò di andare a vivere per conto mio. Il giorno dopo ne parlai con il titolare del ristorante e lui riuscì a trovarmi subito un appartamento in affitto. Il maresciallo mi disse anche che - se ne avessi sentita utilità - lui aveva un'amica psicologa, che era anche una cooperatrice salesiana: «Se vuoi, ti ci porto io». Prese perfino un giorno di ferie per accompagnarmi ed effettivamente i colloqui con quella dottoressa, che andarono avanti per circa un anno, mi servirono come conferma che il mio comportamento non era da matta.

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