giovedì 21 novembre 2019

FUGGITA DA SATANA


MICHELA 

La mia lotta per scappare dall'Inferno


La richiesta del Sacerdote

La sera del 24 dicembre, prima di uscire di casa, mi resi conto che davvero ero giunta a una svolta. La Dottoressa mi consegnò la consueta tunica nera da mettere sopra agli abiti normali, ma, al posto del cappuccio nero che avevo indossato tutte le altre volte, ricevetti il cappuccio rosso, che indicava il passaggio di grado del quale evidentemente ero stata ritenuta degna. Percepii un sussulto di esultanza: avevo cominciato la mia vera scalata al potere, sentivo che tutti i miei desideri avrebbero finalmente potuto realizzarsi.
Il luogo del rito satanico era a un'oretta di distanza di automobile. Noi due siamo arrivate per ultime, verso mezzanotte, e quando siamo entrate nella grotta c'erano già il Sacerdote (vestito interamente di rosso, come anche la Dottoressa), altre due persone con il cappuccio rosso e la tunica nera come me, mentre le restanti quattro avevano sia il cappuccio che la tunica neri. Era come se ci attendessero: al nostro ingresso hanno cominciato un canto con la ripetizione di litanie nelle quali si distinguevano nomi demoniaci, quali Lucifero, Asmodeo, Belzebù. Si trattava di un ritmo continuo, instancabile, sempre più frenetico, che raggiungeva l'acme e poi rallentava, per riprendere ancora più forte fino a giungere - in questo ripetersi di alti e bassi - all'urlo finale che instaurava una specie di isteria collettiva.
Di quella sera ricordo che faceva molto freddo. L'ambiente era un antro naturale, umido e coperto di vegetazione. All'interno c'era una tavola di marmo grigio poggiata in orizzontale, più o meno all'altezza delle ginocchia. Sembrava il coperchio di un sarcofago e una lunga striscia di stoffa rossa lo percorreva da un lato all'altro, coprendolo nella parte centrale.
Su questo altare era posato il calice, a forma di flute e con il gambo corto: aveva incastonata una grossa pietra di onice ed era tutto lavorato, con un intarsio a forma di serpentelli. Accanto c'era un piatto rotondo, di metallo leggerissimo, coperto da una tela nera: sopra si trovavano una quindicina di ostie e, appoggiato di traverso, un pugnale di una ventina di centimetri, dal manico nero e anch'esso finemente lavorato con il disegno a forma di serpentelli. Sia il calice che il vassoio erano d'argento, per opporsi a quelli d'oro utilizzati nelle liturgie cattoliche.
Di lato c'era una grande croce, priva del corpo di Gesù e piantata nel terreno al rovescio, dalla parte più corta. Sembrava di bronzo dorato, del tipo di quelle utilizzate nelle processioni, con le estremità orizzontali che terminavano in tre semicerchi. In una gabbia poggiata per terra si trovava un corvo nero, vivo.
Tutt'intorno sul suolo erano accese numerose candele di cera rossa, a differenza delle altre volte, quando le candele erano di cera nera.
Solitamente la Dottoressa si metteva accanto all'altro Sacerdote, dietro all'altare, mentre noi ci sistemavamo a semicerchio di fronte a loro. Quella sera lei si pose invece al mio fianco: probabilmente aveva avvertito che stavo provando un certo disagio. Mi avvicinò le labbra all'orecchio e iniziò a ripetere la promessa del potere. Frasi come: «Tu sei il centro della tua vita», «II potere è al centro della tua vita», «Anche tu puoi avere il potere». A poco a poco si trasformò in una cantilena, tanto che alla fine non ascoltavo più quello che dicevano gli altri, che intanto proseguivano con il Sacerdote la celebrazione della messa nera.
D'improvviso, dopo aver raggiunto l'apice, le grida si azzerarono e tutti guardarono con attenzione verso il Sacerdote, che cominciò a parlare con voce ferma. Io intanto mi ero calmata e mi sentivo estremamente lucida e consapevole. Gli altri avevano compreso che le sue parole erano rivolte a me:
«Tu puoi essere qualcuno, tu puoi avere il rispetto del mondo intero, tu puoi ottenere il potere». Era come un balsamo che mi infondeva sicurezza e irrobustiva il mio desiderio.
Mi spiegò che c'era uno dei nostri gruppi, in un'altra città, che attendeva di avere la sua Sacerdotessa: «Potresti essere tu a prendere quel posto. Fra non molto potresti vestirti di rosso come me, potresti essere Sacerdote come me». Poi proseguì: «C'è una ragazza che comincia a essere un problema per noi, perché accoglie i ragazzi dalla strada e alcuni giovani hanno deciso di uscire dal mondo del satanismo. Vive a Roma, dove ha fondato una comunità, ed è molto stimata dalla Chiesa».
Del Sacerdote tutti noi adepti avevamo soggezione, anzi direi proprio timore, perché sapevamo che poteva decidere per ciascuno la punizione o il premio, in ogni momento. Dinanzi a lui c'era un codice di comportamento che non veniva insegnato, ma che era perfettamente chiaro: quando il Sacerdote ti rivolgeva la parola non potevi rispondere direttamente, in quanto non eri degna di metterti al suo livello. Perciò io parlavo con la Dottoressa e lei gli riferiva sottovoce, girandosi verso di lui e dandomi le spalle. In quel caso compresi che avrei dovuto pronunciare soltanto poche parole: «Che cosa vuoi che io faccia?».
Nel silenzio più totale, lui mi rispose con estrema tranquillità: «Distruggi Nuovi Orizzonti e uccidi Chiara». In seguito avrei saputo che si trattava di Chiara Amirante, all'epoca trentenne, che qualche anno prima aveva dato vita a una associazione di volontariato che si proponeva di aiutare i giovani che erano caduti nel baratro di una vita priva di senso, sedotti dalla droga, dall'alcol, dal sesso, dalle ideologie più perverse. Da poco aveva aperto un centro di accoglienza alla periferia di Roma e in quel 1996 aveva pubblicato un libro sulla cui copertina c'era la medesima fotografia che in quella drammatica notte mi venne mostrata: una ragazza molto carina e sorridente, con i capelli lunghi e lo sguardo intenso.
La sensazione che il Sacerdote mi trasmise fu che il pericolo rappresentato da Chiara era la sua semplicità, mediante la quale aveva il dono di poter entrare in sintonia con ogni persona e di aiutarla a uscire dalla sua difficoltà. Comprendevo che la preoccupazione del Sacerdote era di agire rapidamente, in modo da stroncare un'esperienza che era soltanto agli inizi e che poteva essere distrutta con la semplice eliminazione di chi ne era a capo. Non ci fu nemmeno bisogno del mio assenso esplicito: a tutti i confratelli risultò ovvia la mia accettazione del compito che mi era stato affidato.
A quel punto lui si girò e aprì lo sportellino della gabbia, prese l'uccello con una mano e con l'altra lo uccise piantandogli il pugnale nella gola. Ne uscì molto sangue, che fece cadere all'interno del calice. Allora il Sacerdote compì un rito contro Chiara. Dapprima intinse la punta del pugnale nel sangue che si trovava all'interno del calice, quindi cominciò a sfregiare la fotografia - che aveva alzato davanti a sé per mostrarla a tutti i presenti - con un movimento circolare della lama. Dopo un po' alzò nuovamente la foto in modo da far vedere che il volto di Chiara era irriconoscibile, coperto com'era dai graffi e dalle striature sanguigne. Ci spiegò che Chiara era rimasta vergine perché aveva consacrato la sua vita al Signore e attaccò a recitare una litania in latino nella quale si comprendeva che stava invocando Asmodeo per chiedergli di provocare una malattia agli organi genitali di Chiara. Mentre pronunciava quella formula continuava a incidere in tondo con la punta del pugnale la fotografia. Alla fine è andato ad appendere la foto sul fondale alle nostre spalle, fissandole sulla fronte uno spillone che aveva la capocchia a forma di pallina nera.
Tornò al suo posto e mi porse il pugnale dalla parte"* della lama. Io lo presi e subito dopo glielo restituii. Non guardai la Dottoressa per avere le sue istruzioni, come mi era accaduto in altri momenti: sapevo di dovermi comportare in quel modo, forse perché mi aveva dato le istruzioni sotto ipnosi, prima di recarci al rito. Il Sacerdote prese nuovamente il pugnale dal manico e lo poggiò sul vassoio: ho ben chiara la scena perché mi ero sporcata la mano di sangue, toccando la lama, e la strofinai sulla tunica per pulirmela.
Tutti avevamo ormai la mente annebbiata. L'esaltazione tornò a crescere con l'aiuto del canto ritmato che diventava sempre più un urlo liberatorio. Quindi ebbe luogo la consueta orgia collettiva e lo sperma del Sacerdote fu versato nel calice. Al termine le ostie consacrate, che erano state rubate da uno degli adepti in alcune chiese cattoliche, furono a una a una intinte e vennero mangiate da ciascuno di noi. Per la prima volta, la ricevetti subito dopo il Sacerdote e la Dottoressa. Era anche quello il segno della mia promozione, visivamente simboleggiata per tutti gli altri dal cappuccio rosso che avevo sulla testa. Infine la foto di Chiara fu gettata in un braciere che ardeva su un lato, e divenne cenere. Quella notte il rito fu particolarmente lungo, tanto che siamo rientrate a casa della Dottoressa verso le sette del mattino, mentre quando c'erano soltanto la messa nera e l'orgia la durata era al massimo di quattro ore. In macchina le avevo già consegnato la tunica e il cappuccio, così che siamo subito andate a dormire. Siamo rimaste a letto per tutto il resto della domenica e alla sera, quando mi sono alzata, avevo un mal di testa allucinante. Abbiamo mangiato qualcosa per cena e poi abbiamo avuto un rapporto sessuale, e il ritmo quotidiano è ripreso come nei giorni precedenti.
Le luci erano soffuse, le tapparelle delle finestre sempre abbassate e lei continuava a sottopormi alle terapie ipnotiche e psicanalitiche e a ripetermi senza sosta la frase: «Ora puoi avere il potere!». Risuonava in quelle stanze migliaia di volte al giorno, mi era entrata veramente nel cervello e nel sangue come una droga. Avevo quasi l'impressione di toccarlo con mano, questo potere, e sapevo che bastava il compimento di un gesto per potermene appropriare.
L'unica novità era la spiegazione del piano per contattare Chiara e per raggiungere la sede della comunità a Trigona, alla periferia sud di Roma. La Dottoressa sapeva tutto: il luogo preciso, le distanze, i mezzi pubblici per andarci, le persone che vivevano con lei. Facevamo prove e controprove riguardo a come dovevo comportarmi. C'era da diventare pazzi, se non lo fossimo già stati.

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