venerdì 19 novembre 2021

GESU’ OSTIA

 


All’incredulo perché sia meno scettico, e al sacerdote perché sia meno tiepido.


Beato Francesco Faà di Bruno: uno scienziato al servizio di Dio

«Un giorno, stando in cattedra, ode il tintinnio di un semplice campanello nella via che fiancheggiava il Regio Ateneo. Era il Sacerdote della vicina parrocchia che portava ad un morente il Dio che affanna e che consola, Gesù nascosto sotto gli eucaristici veli, sacro viatico nel gran passaggio del pio credente. Il prof. Bruno stava intento ad un'ardua dimostrazione di calcolo; ma giuntogli all'orecchio quel ripetuto tintinnio, più della scienza potè l'amore ravvivato dalla fede: lascia sospese le cifre, scende dai gradini della cattedra, s'inginocchia, china riverente la fronte innanzi al Dio de' cieli e mormora una preghiera di adorazione a Dio e di aiuto al moribondo. I discepoli si guardano a vicenda compresi di alto stupore; ma tosto, seguendo le orme del credente maestro, anch'essi si inginocchiano e pregano, ricordando il grande mistero ch'essi adorano e forse pensando al gran giorno in cui riceverebbero anch'essi quel supremo conforto della cattolica religione».

Quando pratica questo mirabile gesto descritto da uno dei primi biografi, Francesco Faà di Bruno (1825-1888) non è ancora sacerdote, ma un uomo di scienza, che concepisce la religione non come una semplice proposta filosofica o come supporto delle istituzioni, ma come esperienza viva della felicità, in quanto «è quella scienza che insegna agli uomini a conseguire il loro ultimo fine, che è Dio».

Nutre uno smisurato amore per Dio, a cui appartiene come laico per buona parte della sua vita. È un amore ch'egli costantemente alimenta con l'esercizio della preghiera e della contemplazione.

Come astronomo è un entusiasta ammiratore della natura e del cosmo, e suole dire che anche questi accrescono la sua fede, mettendoli sullo stesso piano della Sacra Scrittura, per ché l'una e gli altri sono opera del Creatore. Scopre il vero ruolo delle scienze e i vantaggi che ne derivano; esse «ci mostrano che sopra le forze passeggere e disordinate che animano la materia informe, una forza calma e sovrana regge il complesso dei fenomeni, imprimendo alla materia quella beltà di forma che non è altro se non che la manifestazione dell'ordine, del rapporto armonico fra le diverse parti dell'organismo».

Cristiano autentico, non si lascia condizionare dalle idee dominanti del suo ambiente, e ne porta le conseguenze. «Valente matematico», come lo definisce uno storico del tempo, laureatosi alla Sorbona in Scienze Matematiche e Astronomia, insegna Analisi Superiore all'Università di Torino fino alla sua morte. La perfetta conoscenza del francese, inglese e tedesco gli consentono di aggiornarsi continuamente con riviste e libri stranieri, nonché di mantenere rapporti epistolari con i più grandi matematici del tempo. Pubblica opere scientifiche di valore. Ma la carriera universitaria non va più in là del grado di professore incaricato e straordinario. Tutte le domande, per ottenere la nomina a professore ordinario, gli vengono regolarmente respinte. E questo si spiega se pensiamo che vive nel periodo risorgimentale, quando la politica di Cavour assume toni anticlericali e antireligiosi: sono gli anni in cui l'arcivescovo di Torino, Mons. Fransoni, vive esiliato a Lione.

Problemi di ordine morale e sociale affliggono questa città, che sta per decadere dal ruolo di capitale di un regno. La periferia torinese soffre a causa dell'emarginazione, della miseria, dello sfruttamento. Qui trovano il loro campo d'azione anime generose come Don Bosco, il Cottolengo, la marchesa Giulia di Barolo. E, accanto a loro, nel borgo S. Donato, uno dei quartieri più poveri della città, Francesco Faà di Bruno.

Dall'amore per Dio scaturisce quell'amore per il prossimo che lo spinge sulla strada dei poveri, degli umili, degli indifesi... facendone un singolare esempio di fede e di carità. «Non si va in paradiso in carrozza - suole dire -, ma con le opere buone».

Nasce così una serie di innumerevoli opere assistenziali, fra le quali primeggia l'Opera di S. Zita, che raccoglie le lavoratrici più disprezzate, sfruttate, e per queste ragioni esposte a tanti pericoli: le 'serve', come nel linguaggio comune del tempo si identificano le domestiche. Ed è per questo che viene scelto il nome di Santa Zita, perché delle domestiche ne è la protettrice.

Da una piccola casa, man mano, sorge un vasto complesso: la 'cittadella della donna', come viene giustamente chiamata, dove disoccupate, apprendiste, madri nubili, vedove, malate, anziane trovano scuole, laboratori, infermeria, pensionato.

Lui, di nobile famiglia, capitano di Stato Maggiore, matematico, astronomo, architetto, musicista, appartenente alla classe dei padroni, sceglie di stare a fianco degli sfruttati.

In questa sua iniziativa impiega i beni di famiglia, i suoi guadagni di professore universitario e tutto se stesso.

L'Opera di S. Zita non è solo un asilo sicuro e gratuito per chi bussa alle sue porte, ma anche un centro di testimonianza morale e cristiana: nella comunità, il fondatore sostiene la pratica della Comunione frequente; con lui, le ricoverate, le maestre e le allieve si accostano più volte alla settimana ai Sacramenti. E per quel tempo è un evento eccezionale, visto che anche negli istituti religiosi tale pratica non è ancora molto diffusa.

Già nel periodo giovanile, a Parigi, Francesco Faà di Bruno diffondeva opere favorevoli alla frequenza dell'Eucaristia; e partecipava all'adorazione notturna del SS. Sacramento, eretta nella chiesa di Notre-Dame.

Per quest'uomo infaticabile, l'Eucaristia rappresenta la sorgente da cui attingere la forza necessaria. E al divino banchetto invita tutti; agli operai scrive: «[ ...] essendo molto esposti al male, abbisognate di maggior forza per resistere; i Sacramenti [della Confessione e della Comunione ] comunicano appunto la forza a voi indispensabile».

Ben presto, sente il bisogno di assicurare all'Opera una continuità materiale, morale e cristiana. Ecco come un laico, in mezzo alle prevedibili difficoltà, diventa fondatore di una Famiglia religiosa femminile, la "Congregazione delle Suore Minime del Suffragio", il cui programma è nel motto del fondatore: «Pregare, agire, soffrire».

Dodici anni prima della sua morte, Francesco Faà di Bruno si sente chiamato per il carisma dei carismi nella Chiesa di Dio: quello del sacerdozio ministeriale. A cinquantun'anni riceve il più gran dono che un uomo innamorato di Dio possa sperare: il potere di trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo.

L'amore per la SS. Eucaristia trova così il suo culmine, tanto che non se ne vuole più staccare. Trascorre ore di adorazione, non solo di giorno, ma anche di notte: un piccolo vano accanto alla sua camera da letto ha una finestrella apribile sul tabernacolo; vicino al letto, uno sportellino gli permette di essere sempre alla presenza del SS. Sacramento.

Questo suo atteggiamento di uomo di carità e di preghiera gli fa dire: "Pregate, pregate sempre: tutto dipende dalla preghiera!". E gli occhi della sua carità non vedono solo le miserie terrene, ma si spingono oltre, verso chi ci ha preceduti nell'eternità e che vive in quel regno intermedio, il Purgatorio, dove l'azione eucaristica trova il giusto prolungamento.

«[ ...] io vi offro, o adorabile mio Redentore, i vostri propri meriti per le anime del Purgatorio: riscattatele una seconda volta»: sono queste le parole del primo sacerdote del Suffragio, che alle anime del Purgatorio consacra pure tutte le proprie azioni.

A coronamento della sua missione, sempre a Torino realizza la costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio, con la quale propone ai fedeli la venerazione della Vergine Maria, come mediatrice verso le povere anime bisognose di purificazione. Sì! Perché «un'anima - egli dice - dà più gloria a Dio di tutto il creato».

Quest'uomo riesce a «sollevarsi dal cielo fisico allo spirituale ...», scrive di lui uno storico del tempo, quasi a dispetto di coloro che, ancora oggi, concepiscono lo scienziato una figura arida, come aridi sono i numeri che occupano la sua mente. Può accadere, infatti, che l'uomo di scienza si lasci sopraffare dalle sue conoscenze del vero sperimentale, trascurando la Verità prima, ch'è Dio.

In Francesco Faà di Bruno, l'uomo di scienza e l'uomo di fede trovano la perfetta unione. L'uomo intellettuale e l'uomo spirituale, così uniti, arrivano a quella Verità ch'è l'essenza stessa della vita.

Per dimostrare che la vera scienza non è contraria alla fede, per sostenere «il massimo fra i miracoli», per far conoscere ciò ch'egli considera un paradiso anticipato, un paradiso terrestre, scrive il "Piccolo omaggio della scienza alla divina Eucaristia", dove si può cogliere come riesce ad armonizzare scienza, teologia, filosofia e fede:


LA MATERIA.

Ciò che colpisce i nostri sensi corporei sono le «apparenze» della materia, ma non ciò che costituisce la materia, «ossia propriamente quella sostanza che invece sfugge ai nostri occhi e si cela sotto quelle apparenze, e ne è talmente il necessario sostegno, che senza di essa queste non potrebbero nemmeno sussistere», e grazie alla quale «si producono tutti gli effetti sensibili dei corpi».

Anche se di un corpo si varia la sua «estensione», la sua essenza non muta. Infatti, pur riducendo la materia in minutissime particelle, non se ne trova la «sostanza». Ma che cos'è questa sostanza?

Richiamandosi al pensiero del filosofo Leibniz, il Faà di Bruno, oltre ad ammettere la presenza di «atomi materiali», suppone che i corpi siano costituiti di «centri corporei attivi» o «centri di forze» che «esplicano il tutto». Per cui, ad esempio, l'estensione del corpo è data «dalla distanza di due o più centri di forze», «l'impenetrabilità» dalla «resistenza che oppongono», la forma «dalla disposizione dei centri stessi».

Ora, se accanto all'atomo materiale non esistesse una forza o centro attivo, come potrebbe l'atomo resistere senza avere in sé una «forza di resistenza?». Sulla base di tale principio, il Faà di Bruno supera la suddivisione concepita dal Leibniz, e formula: «L'atomo forza, il centro attivo è il solo elemento costitutivo dei corpi che possa ragionevolmente ammettersi. Ed eccoci arrivati a quella sostanza», che non si percepisce coi sensi ma con l'intelletto. La conclusione del Faà di Bruno è l'assioma di San Tommaso: «La sostanza, come tale, non è visibile agli occhi corporei né percettibile ad alcuno dei sensi. Neppure può essere immaginata. Soltanto l'intelletto l'attinge, avendo per oggetto le essenze delle cose».


LA TRANSUSTANZIAZIONE.

È la conversione, in virtù delle parole sacramentali, di tutta la sostanza del pane e di tutta la sostanza del vino rispettivamente nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù Cristo, rimanendo però le specie (le apparenze) del pane e del vino.

Nell'Eucaristia avviene, dunque, un cambiamento di sostanze e non di materia. Non vi sono più le sostanze del pane e del vino, ma quelle del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Iddio, «creatore della sostanza», non può «sostituire in via straordinaria la sostanza del suo corpo alla sostanza del pane da lui creata?». Così come, ricordando le parole di S. Tommaso: «pur può produrre altri effetti di cause naturali senza le cause naturali; ed è così che senza seme di uomo formò un corpo umano nel seno della Vergine».

Francesco Faà di Bruno indica diversi esempi biblici di «cambiamenti di sostanze»: alle parole di Mosè il bastone diventa serpente (Cfr. Es 7,10), e l'acqua del fiume diventa sangue (Cfr. Es 7,20); il profeta Eliseo rende commestibili erbe selvatiche amare, in tempo di carestia, per i suoi discepoli (Cfr. 2 Re 4,41); Gesù cambia l'acqua in vino alle nozze di Cana (Cfr. Gv 2,9); ecc.

Una proprietà della sostanza è «l'essere il tutto in ogni parte», per cui il corpo di Cristo «è tutto intiero in ciascuna ostia ed in ciascuna parte dell'ostia, come l'anima è tutta intiera in ciascuno de' membri del corpo». Questa verità è facilmente comprensibile se pensiamo che quando due cose sono realmente unite, ove esiste l'una esiste anche l'altra. Da tale principio ne consegue che Cristo, essendo in Cielo in corpo e anima e divinità, quando le parole sacramentali trasformano la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo, quivi si trovano pure la sua anima e la sua divinità. «Se il medesimo Spirito divino infatti è presente colla sua potenza in vari luoghi, non può essere potente a render presente in vari luoghi il medesimo corpo?». Con la transustanziazione, quindi, Cristo è contemporaneamente presente in Cielo e nell'Ostia. Allo stesso modo è pure presente nelle diverse parti dell'Ostia. Per meglio comprendere quest'ultimo concetto, si pensi ai frammenti d'uno specchio rotto che ripropongono tutti l'immagine di prima, come pure a ciascun frammento d'una calamita spezzata che diventa a sua volta una calamita.

Francesco Faà di Bruno, col suo argomentare, non intende «spiegare il gran mistero della Fede, ma solo provare che non è contrario, sebbene al dissopra della ragione».

Il non comprendere non coincide con l'impossibile, dato che i nostri sensi corporei non sono predisposti a vedere e sentire tutto. E riflette: «Nell'immagine focale d'una lente si vede raccolto come in un punto un panorama immenso di oggetti con tutti i loro colori, forme e posizioni; eppure tutto è aereo, penetrabile, quasi nulla di reale vi fosse!».


PROVA INTRINSECA DELLA S. EUCARISTIA.

Ma l'evidenza, la storia, i miracoli non bastano. La ragione vuol giungere sino al fondo di questo argomento, bramosa com'è di conoscere il perché dell'Eucaristia. Tale suo desiderio di arrivare alla «sostanza delle cose» prova «come questa sia propriamente il suo cibo».

Francesco Faà di Bruno, quindi, sviluppa tutto un discorso indirizzato alla ricerca di questa Verità.

«L'uomo porta in sé per natura una tendenza irresistibile ad amare». Essendo l'amore «un'espansione, un ingrandimento di se stesso», non c'è «amore completo, soddisfatto, senza il possesso». Infatti «il possedere non è forse unirsi all'oggetto desiderato, e questo possesso, questa unione non è una diffusione, ma ampliazione di noi stessi?». Dunque, se l'uomo, amando, si sente felice, trova «la massima sua felicità, allorquando sia giunto al massimo grado dell'essenza del suo amore, che è il massimo ingrandimento di se stesso». E qual è il massimo ingrandimento, se non quello di «unirsi [...] confondersi col suo proprio principio, con quell'essere essenziale [...] senza di cui insomma egli nulla sarebbe?». Ecco perché la felicità dell'uomo consiste «in un'unione perfetta col suo Dio».

La stessa cosa avviene da parte di Dio. Egli vuole «compiere con l'anima l'unione sua», realizzando un «possesso perfettissimo». Quindi il massimo grado di espansione dell'amore di Dio è «quello di dare tutto se stesso all'anima». Una prova di tutto questo è in Gesù Cristo, colui che ha «rialzato» l'uomo e l'ha «ricongiunto a Dio».

Riscattata l'anima, il Creatore desidera rimanervi eternamente unito, e sostenerla nel suo terrestre peregrinare, impedendole di «ricadere negli artigli di quel gran nemico, da cui solo il sangue d'un Dio potè liberarlo».

Da questo ragionare scaturisce la «gran verità fondamentale: che il fine della creazione delle anime è la loro unione con Dio, unione in cui convergono come nel loro riposo la gloria di Dio e la felicità suprema dell'uomo».

Il segno che sulla terra simboleggia questo tipo di unione non può che essere l'Eucaristia, dove Gesù Cristo «si fa una cosa sola coll'uomo per trarlo al Cielo con sé divinizzandolo». Alla sacra mensa, come il Pane diventa un tutt'uno col corpo dell'uomo, così l'uomo diventa un tutt'uno col corpo di Cristo.

La ragione che indaga, a questo punto, fa sua l'essenza della Verità trovata. Francesco Faà di Bruno scrive: «[ ...] rispondere il più precisamente possibile al perché dell'Eucaristia, direi l'Amore; se interpellato una seconda volta, l'Amore, se una terza, l'Amore. Sì: l'amor di Dio fu causa del massimo fra i miracoli, l'Eucaristia».


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