29 novembre 1945, vigilia di S. Andrea
Gesù prende con sè i tre discepoli preferiti, Pietro, Giacomo e Giovanni, gli stessi che ha già favorito della vista della Sua trasfigurazione 8 mesi prima. Allora Gesù era nella sua gloria, il Suo volto splendeva come il sole, i Suoi vestiti abbagliavano come la neve scintillante, era raggiante di gloria. Mosè ed Elia, in una maestà imponente, gli tenevano compagnia. Dio Padre stesso, sceso nella nube, testimoniava in Suo favore. Quale contrasto tra le due montagne: il Tabor e il monte degli ulivi! Qui Gesù si mostra in tutta la debolezza della Sua umanità, prostrato a terra, il volto arrossato di sudore, le vesti tinte del suo sangue, abbandonato da Dio e dagli uomini; un solo punto tra le due montagne: la Passione, annunciata là, realizzata qua.
Così Gesù mostrava ai suoi apostoli e a tutti quelli che ne sentiranno il racconto, da quale suprema grandezza si era degnato abbassarsi e fino a quale supremo grado di annientamento era giunto per salvare l'umanità colpevole. Così Gesù mostrava che il centro della Sua missione terrestre era la Passione senza la quale la Sua regalità non era possibile, giacché... su chi avrebbe regnato? Così ci faceva vedere che, per regnare con Lui, bisogna patire con Lui. Gli apostoli subito non lo compresero, ma più tardi, con le luci dello Spirito Santo, realizzarono la portata dell'insegnamento del Maestro e vi corrisposero. Tuttavia, per premunirli contro ogni sorpresa, Gesù aveva voluto, prima di dare in spettacolo la miseria, renderli testimoni della Sua divinità. Sapeva che la Sua Passione avrebbe scosso la loro fede, e aveva voluto prima consolidarla. Ma, conoscendo la fragilità umana, si aspettava di esser loro di scandalo... e lo fu. Essi, abituati a vederlo comandare alla natura, sfuggire ai pericoli, lo credevano senza dubbio invulnerabile. Che delusione!
E pertanto Gesù si era preso cura di raccomandar loro l'assiduità nella preghiera contro la tentazione: aveva parlato a dei sordi e presuntuosi. E mentre Lui, l'uomo Dio, implorava la misericordia divina, la forza celeste, loro, semplici peccatori, si credevano tanto forti da resistere al nemico. Che lezione di umiltà! Che luce sulla nostra enorme fragilità! E nello stesso tempo quale apertura sulla gravità del peccato che esige, per essere riparato, simili annientamenti della Divinità stessa. Quelli che bevono l'iniquità come l'acqua non ne hanno neanche più la nozione. Non per questo sono meno colpevoli. Più dunque noi lavoreremo a purificarci, più avremo orrore di offendere Dio.
La contrizione è la misura della santificazione. Ma ancora una volta questa contrizione umile e amante non l'otterremo che con la preghiera costante e fervente in unione col nostro dolce Salvatore accasciato sul suolo del Getsemani. Egli ci insegnerà questa contrizione nell'accogliere con riconoscenza come l'espressione della volontà salvifica di Dio, le pene, le sofferenze, le torture morali e fisiche che Gli piacerà inviarci. Fortunati se esse sono abbastanza numerose e abbastanza ben sopportate da permetterci di contribuire alla riparazione dei peccati di altri colpevoli come noi.
meditazioni, ritrovate tra i suoi scritti Fernand Crombette
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