sabato 7 gennaio 2023

SOTTO LA GUIDA DELLO SPIRITO

 


Pregare nell'impotenza

La risposta a questa domanda non è facile: l'esperienza che abbiamo della preghiera è generalmente limitata e piuttosto sfortunata; a un dato momento, diventa addirittura profondamente frustrante. Allora ci rendiamo conto di non sapere come pregare: abbiamo tentato diversi metodi ma, nella maggior parte dei casi, senza risultato. Alcuni di questi metodi usano l'immaginazione: raccomandano di raffigurarsi scene ispirate dagli evangeli oppure immagini dell'iconografia tradizionale. E un metodo eccellente. Un posto preminente va riservato all'icona di Gesù, con i tratti dell'oriente o dell'occidente: il Volto santo del Redentore, figura sacramentale del Kyrios glorificato. Come Dio ha lasciato a nostra disposizione la sua Parola sotto la forma delle parole umane della Bibbia, così il suo Essere invisibile si è reso visibile nei tratti umani del volto di Gesù: "Chi ha visto me, ha visto il Padre", dice Gesù stesso (Gv 14,9). Secondo una tradizione secolare, l'arte cristiana avrebbe conservato fedelmente i lineamenti autentici del volto di Gesù, che ha mantenuto l'invisibile forza spirituale del mistero della salvezza. Ne consegue il ruolo importante ricoperto dalle icone e dai quadri nella liturgia e nell'esperienza spirituale, per lo meno fino all'inizio di questo secolo. La liturgia un po' rattrappita precedente al Vaticano Il, unitamente alla crisi delle arti figurative, ci ha disabituato all'esperienza concreta e vivificante delle immagini sacre. Comunque sia, il cuore di questa esperienza ha le sue radici nella forza spirituale racchiusa nell'icona o nella sacra imago, l'immagine sacra, come dice l'occidente. Questa permette a chi contempla l'icona di non fermarsi all'immagine in se stessa o alla propria fantasia. Al contrario: attraverso l'immagine, è il cuore che viene toccato, così come la Parola di Dio nella Bibbia non si rivolge innanzitutto alla nostra intelligenza ma deve ferire il nostro cuore. E quindi estremamente importante che l'uso delle immagini non ci rinchiuda nell'immaginario: le immagini potrebbero distoglierci dall'essenziale. Se, per esempio, ho fatto un pellegrinaggio in Israele e cerco di rappresentarmi i luoghi santi durante la preghiera, non sono mai sicuro di non andare al di là dei semplici ricordi di un viaggio, per quanto istruttivo. Ma sono sicuro che, così facendo, raggiungo la persona di Gesù? Ogni immagine deve condurci a un'esperienza. E qui rispunta la domanda: che tipo di esperienza? Con l'aiuto di un'immagine si può destare dentro di sé ogni sorta di sentimenti: di gioia, di amore, di fiducia, di riconoscenza, almeno fino a un certo punto. Ci si può addirittura compiacere in simili sentimenti e trovarvi una certa soddisfazione; ma si può anche, in breve tempo, annoiarsi abbondantemente, magari non alla prima volta, ma alla seconda o alla terza: i nostri sentimenti non sono inesauribili, sono limitati e in stretto rapporto con il nostro umore, i nostri buoni propositi e quanto assomiglia a desideri spirituali. Anche quando questo metodo ha successo perché si è dotati di una ricca affettività, cosa si ottiene? E Dio che mi ferisce, che tocca il fondo della mia affettività quando sono tutto intento ad attizzare i miei sentimenti come farei con dei carboni ardenti che stanno per spegnersi? Ben presto sarei saturo, non perché manchi di generosità o di perseveranza, ma per il semplice motivo che i miei sentimenti non sono inesauribili. Solo Dio è inesauribile in me, ma, per l'appunto, come raggiungere in noi quel Dio inesauribile? Altri pensano di riuscire meglio nella preghiera imboccando un itinerario razionale: lasciano parlare soprattutto la propria intelligenza. Il termine ancora in uso di meditazione indica questa pista. Nel peggiore dei casi si tratterà di considerazioni astratte sulla verità, nel migliore, queste riflessioni sfoceranno in una visione più chiara delle cose o in una convinzione più forte; convinzione che sarà forse capace di ridestare i nostri sentimenti religiosi. Tuttavia le parole della Scrittura non sono destinate principalmente a essere meditate intellettualmente: sono là per ferirci e aprirsi così un varco verso il nostro intimo più profondo. Si rivolgono innanzitutto al nostro cuore e non alla nostra intelligenza. Se si fermassero alla nostra intelligenza, sarebbero solo una pacca incoraggiante sulla spalla, come per dire: "Vedi, abbiamo la situazione in pugno, continua a fare del tuo meglio!". Esagero, ma avrete indovinato che seguendo questa strada rischiamo di scivolare in un attimo verso un moralismo sospetto. Fino a quel momento infatti non è successo niente e continua a non succedere niente: la strada è semplicemente sbarrata e noi la manteniamo tale e quale, ci accontentiamo di sforzarci di fare del nostro meglio e proprio questo è sterile. Se soltanto facessimo un po' meno di sforzo, troveremmo più facilmente l'unico luogo in cui Gesù ci aspetta e in cui è possibile l'autentico incontro. Possiamo definire questo luogo come un'impasse, un vicolo cieco, un punto morto, una strada senza uscita. Impasse inevitabile e necessaria! È là che impariamo a nostre spese che non succede nulla attraverso la ragione, né attraverso l'immaginazione e nemmeno attraverso i nostri sentimenti. Qualcosa succederà, certo, ma altrove: l'impasse deve portarci ad abbandonare tutte queste piste finora così familiari. Allora diventa importante fermarsi, restare in un profondo silenzio interiore e là aspettare, con estrema semplicità, che qualcosa sopraggiunga nella nostra vita dall'interno. Non un'idea, non un sentimento, non un immagine, ma qualcosa di diverso: una presenza silenziosa, inavvertita, senza immagine, senza pensieri; non tanto qualcosa di diverso, ma piuttosto Qualcuno di diverso, un Altro, l'Altro assoluto. Cerchiamo di descrivere qui una tappa molto importante della preghiera, tappa che in realtà tutti quanti temiamo: l'inutilità dei nostri sforzi ci fa finalmente prendere coscienza, a nostre spese, che la preghiera è impossibile per noi! Alcuni allora si agitano come possono e si sforzano di fare del loro meglio in generosità, fervore o dedizione agli altri. Tutte cose in fondo più facili che fare esperienza della nostra radicale impotenza di fronte a Dio. Che fare allora in questa impasse? La risposta a questa domanda è una delle più semplici: soprattutto non agitarsi, ma semplicemente dimorare nell'impasse, che significa non fuggire con nessun pretesto. E’ proprio lì, in questa impasse in cui ci dibattiamo ingloriosamente, che dovremo essere liberati e guariti dalla nostra impotenza. Abbiamo detto essere liberati, al passivo: è essenziale. Non si tratta mai di liberarsi da soli, ma proprio di essere liberati da un altro. Questo vuol dire non essere più in grado di gestire la situazione, restare nella nostra impotenza affinché proprio lì, e non altrove, venga a prenderci la forza di Dio. La preghiera infatti è anche esperienza di salvezza e deve diventare illustrazione concreta delle parole di Paolo: "Quando sono debole, è allora che sono forte perché la potenza di Dio si manifesta nella debolezza" (cf. 2Cor 12,9-10). A volte questo processo è molto lungo. Si tratta di imparare progressivamente ad abbandonarsi in profondità: il nostro progetto personale di preghiera deve, in modo impercettibile ma certo, essere rimpiazzato dall'azione di Dio in persona e, in un modo o nell'altro, perdersi in essa. A questo punto spetta a Dio assumere l'iniziativa, a noi lasciarlo agire e abbandonarci alla sua azione in noi. Un tale abbandono non è facile: a volte gli opponiamo resistenza a lungo, spesso anche con una certa ostinazione, con uno zelo benintenzionato ma perfettamente inutile e addirittura nefasto. Dio, che ci conosce meglio di noi stessi, ci lascia fate per un po', tollera le nostre resistenze nei suoi confronti, a volte ci lascia addirittura credere che stiamo facendo progressi nella preghiera... Ma solo per un po' di tempo. In realtà quello che Dio ci chiede adesso è particolarmente faticoso: ci toglie la preghiera, in modo che abbiamo l'impressione di perdere tutto quello che pensavamo di aver conquistato. Indubbiamente avevamo forse acquisito un certo risultato di preghiera, o almeno così ci sembrava, ma adesso tutto è improvvisamente bloccato, appare nullo, come se non fosse mai avvenuto: non c’è più risposta. Segniamo il passo, senza più speranze. Non è necessario attribuire questa disavventura a una colpa o a una mancanza di generosità da parte nostra: è Dio stesso, nella maggior parte dei casi, che ha disposto così perché vuol farci sapere che ormai ci attende altrove. La preghiera ci viene ancora e sempre donata in anticipo, ma altrove, a un livello molto più profondo. Prima desideravamo indubbiamente questo dono di Dio chiamato grazia, per essere in grado di pregare; pero avevamo nello stesso tempo l'impressione di possedere già in parte questa preghiera, di esserne padroni: i nostri sforzi non erano stati inutili! Ormai Dio preferisce porre il problema in modo completamente diverso. La preghiera alla quale ci invita adesso è la sua preghiera: è pura grazia, noi non abbiamo alcun potere su di lei. L'unico gesto che possiamo ancora compiere è quello di aprire le mani e il cuore affinché la preghiera ne scaturisca come un dono del Signore, là dove gli piacerà concedercela. Perseverare nell'impasse significa anche non ritornare sui nostri passi, non aggrapparci ai metodi con i quali avevamo tentato, con più o meno successo, di pregare. Più precisamente: non rimanere ancorati alla nostra intelligenza, alla nostra immaginazione, ai nostri sentimenti. Queste facoltà dovranno passare attraverso un digiuno, calmarsi, riposarsi, starsene tranquille, essere, per così dire, disinserite. Più ci sforziamo, meno sono le possibilità che la preghiera ha di sgorgare in noi: il percorso è ostruito da un ostacolo, continua a esserci una pietra che blocca la sorgente. Il termine perseverare ha una sfumatura di volontarismo che non esprime esattamente quello che deve avvenire nell'impasse. Il linguaggio biblico e dei padri utilizzava il verbo hypomenein e il sostantivo hypomoné: letteralmente "stare sotto". Potremmo quasi tradurre "rannicchiarsi" e star fermi, aspettando che ci capiti qualcosa. Il fatto di essere così staccati da ogni altra attività interiore è normalmente causa di una certa oscurità, di una sensazione di aridità, di desolazione, forse anche di un'impressione di vuoto, di profondità vertiginosa, a volte abbiamo la sensazione di soffrire la fame e la sete. Queste sensazioni apparentemente negative sono segnali estremamente positivi perché ci fanno capire che abbiamo un accesso parziale a qualcosa al di là del nostro piccolo mondo familiare. Ma a nostra insaputa, dal momento che non vi siamo assolutamente abituati: tutto appare ancora così strano, tutto sembra andare a rovescio. Buon segno: dimorando nell'impasse penetriamo già, senza saperlo, al di là. Ormai l'evento può accaderci. Quando Gesù vuole parlare della vita dello Spirito in noi, usa l'immagine della sorgente che sgorga: la paragona all'acqua viva che deve diventare in noi come "una sorgente zampillante per la vita eterna" (Gv 4,14). La preghiera è questa sorgente profonda in noi: è lì da sempre, come il soffio dello Spirito santo che prega incessantemente in noi, solo che noi non ne eravamo coscienti, senza saperlo avevamo accumulato una montagna di pietre attorno alla sorgente. Ogni sorgente ha in sé la propria pressione che si può ostacolare in modo artificiale; oppure si può lasciarle libero corso e abbandonarvisi. Questa pressione infatti diventa la nostra forza, mentre i nostri sforzi più intensi non possono aggiungere nulla a questa forza. Dobbiamo anzi fare attenzione, perché proprio i nostri sforzi potrebbero essere le pietre che impediscono alla sorgente di sgorgare naturalmente. Per pregare di più e meglio, dobbiamo spesso fare meno da noi stessi, rinunciare alle nostre buone intenzioni e limitarci all'abbandono alla corrente interiore dello Spirito, non appena questa sgorga in noi e cerca di trascinarci. Tutti i nostri sforzi e i nostri metodi di preghiera devono, in fin dei conti, rivelarsi inutili e sparire perché lo Spirito di Gesù possa offrire una possibilità alla sua preghiera in noi.

 

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