Un giorno meditava una sant'anima sull'Inferno, e considerandone la eternità dei tormenti nelle parole sempre, mai, entrò in turbamento, perché non vedea come conciliare questa grande severità colla bontà e colle altre perfezioni divine: Signore, diceva, io mi sottometto ai vostri giudizii; ma non pare che voi spingiate troppo lontano i rigori della vostra giustizia! - Comprendi tu, si udì rispondere, che cosa sia il peccato? Chi pecca dice a Dio: Io non voglio servirvi! io sprezzo la vostra legge! io mi rido delle vostre minacce! - Comprendo, Signore, che il peccato è un oltraggio alla vostra Maestà. - Ebbene, misura, se puoi la grandezza di tale oltraggio. - Signore, tale oltraggio è infinito, perché si porta contro un'infinita Maestà, - Non è dunque a punire con un castigo infinito?
Or come tale non può essere nella intensità, così vuole giustizia che almeno sia tale nella durata. La giustizia divina dunque vuole la eternità delle pene, il terribile sempre, il terribile mai; e li stessi reprobi saranno sforzati a renderle omaggio, gridando in mezzo ai loro tormenti: Giusto siete, o Signore, e retto è il vostro giudizio! (Salm. CXVIII).
S. Giovanni Damasceno riporta nella vita di S. Giosafatte, come trovandosi una volta questo giovane principe travagliato da violenti tentazioni, pregò lagrimando il Signore di esserne liberato.
Fu esaudito, e si vide condotto in ispirito entro un luogo buio, pieno di orrore e di confusione e di spettri spaventevoli. Ivi era uno stagno di fuoco e di zolfo, con entro sommersi a divampare innumerevoli sciagurati, tra le disperate urla dei quali una celeste voce si fece udire così: «Qua riceve il peccato il suo castigo! Qua un piacer momentaneo si punisce con una eternità di tormenti!» A tale spettacolo si sentì egli colmare di una forza novella, onde si rese vincitore di tutti gli assalti dell'inimico.
Il più acerbo rammarico dei riprovati, dice san Tomaso, sarà quello di essersi perduti per un niente, mentre era loro sì facile il conseguire una eterna felicità. Gionata venne condannato a morte per avere, contro il divieto di Saulle, gustato un tantino di miele. Ma come sarà più amaro il cordoglio dei reprobi, al vedere come per poco miele, per godimento fuggevole, hanno incontrato la eterna morte! Il re Lisimaco, assediato dagli Sciti che gli aveano tagliato il corso a tutte le fonti, non potendo più reggere ai bruciori della sete, si arrese, ed ebbe salva la vita. Avuta dal nemico una tazza di acqua, bevette avidamente, ma subito esclamando: «Deh come presto trascorse il piacere, a comperare il quale ho perduto il regno e la libertà!» Così ripeteranno i dannati, ma con amaritudine immensamente maggiore: Oh come presto passò il piacere colpevole, a cagione del quale ho perduto una corona di eterna felicità! Tornava Esaù stanco dalla caccia, e per ottenere da Giacobbe una scodella di lenti, gli cedette il suo diritto di primogenitura, e poi se ne andò, poco dandosi pensiero di quello che avea fatto. Ma oh quanto rimase costernato, e quali disperate grida levò, allorquando venuto a raccogliere l'eredità, vide il molto lasciato al fratello ed il pochissimo a sè rimasto! Irrugiit clamore magno, dice la Scrittura. Quali saranno però le urla dei reprobi, quando riconosceranno di avere venduto la celeste loro eredità per manco di un piatto di lenticchie? Quando vedranno di avere per un niente perduto i beni eterni, per un niente incorsi gli eterni supplicii?
Geremia profeta predisse a Sedecia re di Giuda la futura sua sorte con queste parole: «Ecco la vita e la morte. Se ascolterai il Signore, rimarrai sul trono tuo in pace; se lo disprezzerai, sarai dato nelle mani al re di Babilonia.» Sedecia non tenne conto del divino avvertimento, ed in breve gli piombò sopra il minacciato castigo; perché caduto in potere di Nabucodonosor, venne accecato e carico di catene gittato nelle prigioni di Babilonia. Quale allora esser dovette l'atrocissimo suo rammarico al ricordarsi della predizione di Geremia? Troppo sparuta imagine dei tardi rammarichi, delle angosce crudeli, onde invano si consumeranno i riprovati! Piangeranno il tempo sprecato in vani sollazzi e nell'obblio di loro salute. Un'ora, ripeteranno per sempre, un'ora ci avrebbe acquistato quello che una eternità non potrà darci giammai! Racconta il padre Nieremberg di un servo di Dio, che trovandosi in un'abbandonata solitudine udì lugubri gemiti, che non poteano provenire se non da cagione soprannaturale; il perché domandò chi fossero gli autori di quelle dolorose grida, e che volessero. Noi siamo riprovati, sì udì risposto da una lamentevole voce, che deploriamo nell'Inferno il tempo perduto, il tempo prezioso, da noi consumato sopra la terra nella vanità e nel peccato. Ah un'ora ci avrebbe dato quello che non potrà mai renderci una eternità!
R. P. SCHOUPPES S.J.
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